La storia semplice e meravigliosa di un’isola dove cresce il grano e l’uomo preserva i valori più sacri
Tra la Georgia e l’Abkhazia scorre il fiume Enguri che origina dal ghiacciaio del monte Shkara, un rilievo che con i suoi oltre 5.000 metri è il picco più alto della Georgia. Ogni primavera, con lo sciogliersi delle nevi, l’Enguri trascina sedimenti verso il Mar Nero formando nelle sue anse delle isole di suolo tanto fertile quanto instabile. Sono isole destinate a durare una sola estate e che le piogge dell’autunno smembreranno per ricondurre i detriti verso la foce. Eppure ogni anno i contadini della zona s’installano su questi campi instabili per seminare e coltivare il granoturco, che raccoglieranno, si spera, prima dell’arrivo delle piene. Corn Island è la storia di un vecchio contadino che, con l’aiuto della giovane nipote, ripete il rito antichissimo di colonizzare e mettere a frutto un’isola nel fiume Enguri. Il passo del vecchio misura la lunghezza dell’isola, le mani saggiano la qualità del terreno, lo sguardo esperto valuta i pro e i contro della posizione e infine la vanga affonda nel ventre della terra che va mondata dalle pietre e difesa dalle improvvise piene. Il tempo è scandito dal ritmo del lavoro nel campo, la pesca nel fiume e la costruzione di un riparo, tutte attività fondamentali che non lasciano spazio a speculazioni. Dalle rive opposte, dove si confrontano i soldati georgiani e le milizie abkhaze, giungono rumori di spari e ogni tanto una lancia dell’una o l’altra parte, percorre il fiume in perlustrazione. “Nonno, a chi appartiene quella terra?” domanda ad un certo punto la nipote. “La terra appartiene a chi l’ha creata.” Risponde pragmaticamente il nonno, incapace di spiegare la pazzia che ha portato due popoli perfettamente integrati da secoli a combattersi con ferocia inaudita da neanche trent’anni. E’ per questo che quando un soldato ferito giunge sull’isola non si domanda a quale etnia appartiene e se ne prende cura, come è naturale e umano che sia.
Il tema della disintegrazione culturale e sociale, ancor prima che politica, del proprio paese è reso simbolicamente da questo incredibile ed allo stesso semplice racconto di George Ovashvili (leva 1963). Un film girato con sobria e toccante poesia, dalle immagini così evocative e dalle sequenze così eloquenti che non sorprende che i dialoghi siano rarefatti e deputati esclusivamente ad esprimere fattualità altrimenti inesprimibili. Il vecchio contadino è interpretato da Ilyas Salman, un attore turco più noto in patria per le sue parti brillanti e che stupisce in questa pellicola per l’intensità della recitazione non verbale. La nipote è interpretata da Mariam Buturishvili, una giovanissima attrice georgiana alla sua prima prova e forse proprio per questo così calzante in un ruolo che richiede una indispensabile genuinità. Se con il suo precedente film The other bank (Gagma Napiri 2009) Ovashvili affrontava il tema del viaggio iniziatico, con Corn Island vuole ribadire come i valori universali dell’uomo non hanno patria e bandiera e non poggiano su una terra sempre troppo mutevole e farraginosa per costituire le fondamenta di un edificio etico; bensì albergano in ciascuno di noi, si nutrono di cose semplici e si tramandano di generazione in generazione, depositandosi come i sedimenti di un fiume a formare una concrezione che chiamiamo tradizione.
Il film è giunto in Italia grazie alla distribuzione di CINEAMA che l’ha portato in sala con un’edizione sottotitolata e che con un po’ di malizia è possibile rintracciare nei cinema della propria regione.
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