Regia di Ferenc Török.
Cast: Péter Rudolf, Eszter Nagy-Kalozy, Bence Tasnádi, Tamás Szabó Kimmel, Dóra Sztarenki

Ungheria, estate del 1945. Il secondo conflitto mondiale è arrivato al capolinea, come alla fermata conclusiva di una stazione ferroviaria di campagna giungono due uomini, un giovane e un anziano, entrambi ebrei. Fanno ritorno alla civiltà dopo essere scampati all’olocausto, ma non sappiamo chi sono e perché sono tornati.
Tuttavia, assistiamo alla crescente preoccupazione degli abitanti del piccolo villaggio ungherese, quando si sparge la notizia del loro arrivo. L’avanzare lento dei due uomini in questa campagna che si estende a perdita d’occhio, dai contorni netti tracciati con un elegantissimo uso del bianco e nero, scandisce l’evolversi di una vicenda che si risolve nell’arco di poche ore. Quel giorno, alle 11 del mattino, è fissato il matrimonio tra Árpád (il figlio del vicario István Szentes) e la giovane contadina Kisrózsi. I preparativi sono già in atto ma lo spargersi della notizia getta tutti nel panico e sgretola in poche ore la tranquilla armonia del paese. Ma perché?

Questa interessante pellicola, che si inspira alla short story Homecoming di Gábor T.Szántó, anche sceneggiatore del film, racconta un aspetto di solito poco indagato: che cosa significò per il cittadino comune la dipartita forzata dei suoi concittadini ebrei? Così scopriamo qualcosa di terribile, che molti degli abitanti del paese (ciascuno a suo modo e in misura diversa) avevano tratto vantaggio dalla deportazione, ricevendo in dono le case espropriate o grosse somme di denaro.
L’avanzata dei due uomini li metterà di fronte al senso di colpa per aver goduto di ricchezze altrui, ma, anche peggio, all’essere stati complici delle denunce ai nazisti e a temere di perdere tutto ora che i legittimi proprietari sono tornati. Assistiamo a una vera tragedia in pochi atti in cui il la vendetta, di una moglie infelice che mette il marito di fronte alle proprie colpe o di un futuro marito che si sottrae a un matrimonio condannato all’infelicità per una donna che non lo contraccambia; il senso di colpa di un paesano; l’avidità e la mancanza di scrupoli del vicario sono tutte forze oscure di questo microcosmo che sconta collettivamente e singolarmente l’egoismo e l’indifferenza di cui si è macchiato.

Una fotografia eccezionale, chiaroscuri netti e potenti (le ombre dei cipressi che si allungano sulla linea dell’orizzonte dei campi di grano, l’ondeggiare delle spighe al vento, le sagome scure dei due ebrei che incedono inesorabilmente a pedi e sul carro), insieme a inquadrature giocate sulle simmetrie, sono la grammatica registica perfetta per questa lezione di moralità. Senza retorica o grandi discorsi viene trasmesso, chiaro, l’ineluttabile regolamento di conti che il destino ha in serbo per gli abitanti del paese.
Jessica Sottile