Si fa presto a dire Major

Carl Laemmle il promotore della Universal

Quando una casa di produzione diviene grande e piuttosto nota viene definita con un velo di ammirazione dagli addetti ai lavori e non: una Major (con la M maiuscola). Ma così come non si capisce bene quando qualche granello di sabbia inizia ad essere un mucchio di sabbia, non è altrettanto chiaro quando una società cinematografica può essere definita major e allora il termine viene utilizzato con incredibile facilità e spesso a sproposito. Innanzitutto va detto che il concetto è inscindibilmente connesso allo studio system americano (difatti major non è che la contrazione della definizione completa Major Film Studio), la cui nascita si può datare precisamente l’8 giugno del 1912 quando, grazie soprattutto all’iniziativa del produttore Carl Laemmle, venne costituita una nuova società cinematografica, la Universal Film Manufacturing Company, nel cui nome stesso traspare un’ambizione smisurata che non fu mai coronata in quanto restò sempre tra le 3 little major. Fa sorridere pensare che il primo tentativo di major film studio nacque come una realtà in funzione antimonopolistica contro la Motion Picture Patents Company conosciuta anche come “Edison Trust“. Sembra un paradosso ma la Universal fu una “indipendente”. Nel giro di due anni la Universal costruì uno studio a nord di Hollywood che fu l’embrione di un complesso celeberrimo ed ancora esistente noto come Universal Studios. Se si considera che ai quei tempi le società di distribuzione possedevano le sale cinematografiche è facile osservare come la Universal completi così il processo di integrazione verticale che va dalla produzione alla gestione dei cinema. Questo è il vero criterio costituente dello status di major. Non importa quanti film e di quale successo una azienda abbia prodotto, distribuito o proiettato, per essere definita major una società deve governare l’intera catena del valore.

Adolph Zukor produttore e dirigente Paramount
Adolph Zukor produttore e dirigente Paramount

In questo caso meglio sarebbe utilizzare il tempo del verbo al passato poiché nel 1948 il governo degli Stati Uniti d’America, vincitore di una vertenza che vide la suprema corte opposta alla Paramount Pictures (la seconda nata tra le major fondata nel 1914 sotto la spinta di Adolph Zukor e W.W. Hudkinson dall’unione di undici società di distribuzione), ingiunse alle major di vendere le sale cinematografiche, rompendo così un incanto durato comunque più di trentanni. Da ciò ne discende che ormai l’appellativo di major è come un titolo nobiliare che non può più essere né attribuito e né tramandato.

Douglas Fairbanks e Mary Pickford
Douglas Fairbanks e Mary Pickford

Molte società pur gloriose del passato non furono mai delle grandi major, tra queste forse la più famosa è la United Artist nata il 5 febbraio del 1919 sulla singolare iniziativa di due attori (Douglas Fairbanks e Mary Pickford ) e due registi (Griffith e Chaplin), che insofferenti alle pressioni che le major esercitavano sulla loro attività creativa decisero di promuovere autonomamente i propri film. Nonostante che la United Artist mise la propria firma su capolavori indimenticabili (si pensi solo a “La regina d’Africa” ed a “Mezzogiorno di fuoco”) non raggiunse mai quella dimensione d’integrazione verticale da entrare nel novero delle big.

il magnate Howard Hughes
il magnate Howard Hughes

Al contrario la RKO Pitcures (acronimo di Radio-Keith Orpheum) che fondata nel 1928 era tra le ultime nate, assurse rapidamente e pienamente al ragno di major, ma si ridusse man mano a poca cosa dopo essere capitata tra le grinfie del geniale e squilibrato Howard Hughes, che la smembrò e la vendette alla General Tire and Rubber Company dando così inizio ad una carambola di cessioni e incorporazioni che meriterebbe un trattato a sé stante. Il concetto di major è quindi storico oltre che aziendalistico ed è profondamente connesso al contesto americano. In conclusione le major sono 8: 5 grandi major (20th Century Fox, RKO Pictures, Paramount Pictures, Warner Bros e MGM) e 3 piccole major (Universal Pictures, Columbia Pictures e United Artists). Al giorno d’oggi nel mercato globale, per definire una major, non si può prescindere da una valutazione della dimensione anche geografica e dalle quote di mercato possedute e così il panorama che si ottiene è molto differente da un tempo e quel che si vede non ha più il fascino di una volta, ma per completezza dell’esposizione è giusto precisare che oggi le major sono 7 ed è scomparsa la suddivisione tra grandi e piccole, perché ormai bisogna per forza essere grandi. Esse sono (in rigoroso ordine di grandezza) Columbia, Warner Bros, Walt Disney (e pensare che nell’epoca d’oro era un indipendente!), Universal, Lionsgate Films, 20th Century Fox e Paramount Pictures. Se qualcuno quindi se ne dovesse uscire dicendo che quel produttore di casa nostra, per quanto grande, è una Major, siete autorizzati a prenderlo delicatamente per il gomito e, spostandolo, dirgli “ma mi faccia il piacere”.

Fantascienza tra i ghiacci delle dolomiti

Con la possibile eccezione del Western (quello classico ovviamente, non lo “spaghetti“) ormai tutti i generi sono stati sdoganati in Europa. C’è stato un tempo in cui un inseguimento, per essere credibile, doveva avvenire sulle infinite highways americane, così come un serial killer doveva operare ovunque tra boschi, villette e metropoli, purché all’interno dei confini degli Stati Uniti d’America. Gli alieni in visita si presentavano più o meno garbatamente alla Casa Bianca e persino i virus letali, se volevano l’alloro della pandemia come si deve, facevano bene ad incominciare a diffondersi oltreoceano. Ora per fortuna l’Europa ha riacquistato fascino ed internazionalità con le sue location che sono sempre più frequentate anche dalle case di produzione americane. Ghiacciaio di sangue poi è ambientato nel fantastico scenario delle Dolomiti che non fanno rimpiangere minimamente le Rocky Mountains. La trama magari non è originalissima ma non è per niente banale ed i tributi che Marvin Kren rende a John Carpenter contribuiscono a rendere il tutto estremamente DOC per gli appassionati del genere. Kren non è affatto nuovo ai virus ed i più maniaci ricorderanno il fortunato Rammbock del 2010, uno zombie movie prodotto con dovuti mezzi dalla ZDF e ben accolto dai festival di genere di mezzo mondo, ma in questo film il virus, pur centrale nella narrazione, non ha niente a che fare con i non morti ed ha il compito di introdurre una riflessione ecumenica circa il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. D’altro canto la casa di produzione Allegro Film (non fatevi ingannare dal nome italiano che si riferisce però alla terminologia musicale e denuncia così una provenienza rigorosamente viennese della società) ha sempre avuto il pallino dell’ecologia tanto da produrre eccellenti documentari cinematografici come “L’incredibile viaggio della tartaruga” (2009) e “Un mondo in pericolo” (2010), un grido d’allarme sull’estinzione delle api. In oltre 25 anni di onorata attività la Allegro Film non è mai stata in vena di colpacci mordi e fuggi ed anche in questo caso ha dotato Kren di mezzi finanziari adeguati alla realizzazione di un film Sci-Fi che risulti gradito al difficile palato del pubblico di appassionati del genere. Il film ha esordito a Toronto 3 anni or sono e nel frattempo ha vinto 4 premi (anche se tutti in casa propria) tra cui quello a Gerhard Liebmann come miglior attore. Esce ora il 20 marzo in contemporanea digital delivery e DVD grazie al distributore 30 Holding, che ha il merito di rimpinguare in Italia l’offerta di un genere negletto come la fantascienza.