Di solito nel cinema si cerca di valorizzare il centro dell’inquadratura, dove si collocano gli elementi (soggetti e oggetti) chiave dell’azione. E’ il principio della “centratura” al quale si contrappone quello del “décadrage” (in italiano anche se poco usato viene detta “disinquadratura“), ovvero il decentramento degli elementi importanti al margine dell’inquadratura, così da ottenere un immagine volutamente sbilanciata. E’ un meccanismo mutuato dalla pittura di fine ‘800 di pittori come Degas e Caillebotte che ricercavano una tensione visiva attraverso lo squilibrio dell’immagine. Tale squilibrio può essere diegetico quando assume la valenza di punto di vista di un personaggio come ad esempio “in Notorious- L’amante perduta” di Alfred Hitchcock, è riprodotto il punto di vista dell’attrice stesa su un letto con un forte mal di testa, Hitchcock vuole rendere l’idea della percezione distorta che l’attrice ha in quella posizione e in quelle condizioni psico-fisiche, oppure extra-diegetico quando utilizzato del regista in funzione narrativa come in “Vive L’Amour” del regista taiwanese Tsai Ming-Liang che spesso ritrae i protagonisti in inquadrature asimmetriche che i loro corpi non riescono volutamente a riempire, espediente con cui il regista suggerisce un senso di incompletezza delle loro vite. Infine il “récadrage” è il processo inverso per cui, partendo da una situazione decentrata, si procede tramite movimenti della macchina da presa a riportare al centro dell’inquadratura gli elementi chiave.
Le parole del cinema: Acusmatico
Il suono nel cinema è spesso acusmatico, ovvero lo si sente senza individuarne la fonte. Quando invece il regista mostra nell’immagine una causa del suono che si sente, si dice che lo “decausmatizza“. Giocando quindi su questa caratteristica della cinematografia il regista può arricchire le possibilità di sintassi del film. Può così ad esempio anticipare l’apparizione di personaggi od elementi nascosti, oppure introdurre nella narrazione delle voci extra-diegetiche come in L’Età Dell’Innocenza di Martin Scorsese, o la voce del protagonista in American Beauty di Sam Mendes.
Chi è l’autore del film?
Il primo film dei fratelli Lumiére ritrae i propri operai che escono dalla fabbrica (“L’uscita dalle officine Lumiere” girato il 19 marzo 1895). Tutto soggetto, niente sceneggiatura, minima regia (giusto piazzare la macchina da presa), nessuna recitazione. Così il primo film della storia del cinematografo ad essere proiettato il 28 dicembre del 1895 al Grand Cafè sul Boulevard des Capucines di Parigi era un documentario e forse ad esser pignoli nemmeno quello.
Ma almeno, di tanta pochezza, si poteva chiaramente individuare nei due fratelli gli indiscussi autori. Ben presto le cose si complicarono ed iniziò una disputa che vede contrapposti da allora registi e sceneggiatori. Entrambi rivendicano la paternità delle opere filmiche con legittime argomentazioni, delle quali ancora ai nostri giorni nessuna è risultata definitiva. In Francia, negli anni 30, si considerava lo sceneggiatore come l’autore del film e nomi come Spaak, Aurenche, Jeanson o Prévert erano noti tanto quanto quello dei registi (metteur en scene in francese), di cui per par condicio e per non apparir schierati citiamo la pattuglia del realismo poetico: Jacques Feyder, Julien Duvivier, Marcel Carné, Jean Renoir e Jean Vigo.
Oltreoceano, nello stesso periodo, il sistema degli Studios avevano relegato sia l’uno che l’altro dei ruoli a meri meccanismi dietro le quinte del processo produttivo a cui era negata la luce dei riflettori, tutti puntati sulle star. Fu il grande regista Frank Capra a conquistare per sé la posizione predominante in cartellone ponendo il suo nome sopra il titolo. La cosa che oggi è divenuta consuetudine iniziò come un gesto rivoluzionario che in precedenza era stata episodicamente tributata solo a D.W. Griffith e Cecil B. DeMille. Poté farlo perché a metà degli anni trenta aveva inanellato una serie di successi senza eguali (ben 31 nomination e 6 oscar in 5 anni dal 1936 al 1941) e forse perché ai tempi lavorava per la Columbia, tra le più piccole delle major.
Si parlava così tanto del Capra’s Touch che Robert Riskin, il suo sceneggiatore di fiducia di allora, gli mandò una risma di 120 pagine rigorosamente bianche, tranne il frontespizio dove aveva scritto “Caro Frank, applica dunque il tuo celebre touch a questo.” Anche altri sceneggiatori americani avrebbero potuto replicare uno scherzo simile ai propri registi di riferimento. Dudley Nichols che scrisse almeno 30 sceneggiature di altrettanti capolavori avrebbe potuto inviare la sua risma bianca quantomeno a John Ford (Ombre Rosse), Howard Hawks (Susanna) e Fritz Lang (Duello Mortale). Mentre Charles Bennet scrisse i film che lanciarono Alfred Hitchcock (“Ricatto” 1929; “L’Uomo Che Sapeva Troppo” 1934; “Il Club Dei 39” 1935 e “L’Agente Segreto” 1936).
Alla fine degli anni ’50 sempre in Francia si ribaltano i tavoli e la Nouvelle Vague ristabilisce il regista come autore dell’opera filmica. Il termine autore cessò quindi di indicare lo sceneggiatore/dialoghista. Il farsi strada poi di registi che scrivevano anche le proprie sceneggiature contribuì a sbiadire la figura dello sceneggiatore puro; dello sceneggiatore magari ma non della sceneggiatura. Akira Kurosawa sosteneva che se si vuole diventare registi, la prima cosa da fare è padroneggiare la scrittura. Gli fa da contraltare Tim Burton che invece ha detto “non riconoscerei una buona sceneggiatura, neppure se mi colpisse in faccia.” Fellini dal canto suo si trovava bene a collaborare con gli sceneggiatori e lavorava a braccetto con Tonino Guerra, sceneggiatore di Amarcord (1973), Ginger e Fred (1985) e di E La Nave Va (1983).
Se vogliamo venire ad una conclusione, ammesso che sia possibile, possiamo trovarla in questa osservazione tratta da “Approche du Scénario” di Dominique Parent-Altier ( 1997 Edition Nathan, Paris): “uno sceneggiatore intraprende l’atto di scrivere ma la sua opera compiuta, il prodotto finito, non è disponibile in quella forma”. Un po’ come Mosé lo sceneggiatore conduce il proprio popolo sulle rive del Giordano, ma non gli è permesso attraversarlo, egli è si l’autore del film sulla carta, ma portare la storia dallo scritto all’immagine è opera del regista. D’altro canto un film è un’opera corale e pertanto vanta molti amorevoli genitori. Oltre a regista e sceneggiatore, si pensi al direttore della fotografia, al montaggio, ai costumi, alla scenografica e via ad elencare tutto il cast tecnico ed artistico, ma è indubbio che un posto d’onore va a chi riesce ad inanellare con un filo conduttore tutte queste perle di talento e professionalità, ovvero il regista che non a caso nel mondo anglosassone è chiamato “director“. Citiamo Capra quando dice, riferendosi al regista, che “Ci può essere un solo capitano in una nave”. Se il produttore è assimilabile all’armatore, nella metafora di Capra il regista è il capitano della nave e sul set, come sulla tolda di una nave, egli è un dio.
Laura Morante presenta ‘ASSOLO’ al BAFF
In occasione della XIV edizione del BAFF ( Busto Arsizio Film Festival), l’attrice, sceneggiatrice e regista Laura Morante ha ricevuto il premio Platinum Dino Ceccuzzi per il suo ultimo film ‘Assolo’.
Nel raccontare il suo percorso professionale Laura Morante ha dedicato un pensiero ai suoi esordi e ai maestri del cinema italiano ed internazionale con i quali ha lavorato.
Ha inoltre ricordato la sua amicizia con Carmelo Bene e come il grande attore scomparso si rivolgesse a lei al maschile sostenendo che come donna facesse schifo ma che come ragazzo fosse bellissimo.
Riguardo alla sua notorietá all’ estero, Laura Morante, crede che derivi dall’ essere stata protagonista di molti film d’ autore che hanno partecipato a festival stranieri e che hanno naturalmente portato registi di altre nazioni a chiamarla per interpretare ruoli nelle loro produzioni. Comunque le sue scelte professionali hanno sempre privilegiato le storie, e piú che i ruoli ha preferito scegliere i film.
Laura Morante dichiara di preferire le commedie perchè amante del ridicolo e della sfida di trattare con umorismo temi importanti e di spessore e di non condividere alcuni vezzi del cinema d’ autore, in cui se fai recitare gli attori a bassa voce, usi lunghi piani sequenza con pochi dialoghi e luci soffuse, ti garantisci un premio a Cannes.
Il passaggio da attrice a regista é avvenuto un pó per caso con la sua prima opera ‘ Ciliegine’, film del quale é anche sceneggiatrice, che ha avuto un percorso travagliato, durato ben cinque anni, prima di vedere la realizzazione. Inizialmente presentato a Rai Cinema, dove si è arenato per anni, ha poi trovato miglior fortuna in Francia grazie all’ appoggio del regista Alain Resnais con cui Laura Morante stava girando il film ‘ Cuori’ , che lo ha proposto al suo produttore e ha spronato l’ attrice ad occuparsi della regia in prima persona.
Con ‘ Assolo’ il percorso é stato un pó piú semplice, cosí come la gestione del doppio ruolo attrice/regista.
Laura Morante é molto grata agli attori che hanno partecipato ai suoi film, non solo per il loro indiscusso talento, ma anche per la generositá e l’ impegno con cui hanno lavorato sul set.
Si augura di avere la possibilitá di realizzare altri film in futuro anche come regista, con la libertá di raccontare quello che suggerisce il suo sentire del momento e nell’ unico modo di cui é capace: mettendoci l’ anima.
Il Labirinto del Silenzio
Ma si poteva chiamare anche il labirinto dell’Olocausto,
Un Anarchico (Thomas Gnielka), un giovane pubblico ministero (Alexander Fehling) bastano , in questo film, a denunciare gli orrori perpetrati dalla Germania nazista a dispetto di un intero Paese, che non nasconde nemmeno le origini naziste dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tanto che un vecchio soldato nazista, (di stanza ad Aushwitz) sta tranquillamente insegnando in una scuola elementare, come se niente fosse, reintegrato insieme a tutti gli altri, normalmente nei loro precedenti lavori È qui che il giovane magistrato, fresco delle illusioni di resurrezione della Germania e convinto che del nazismo si sapesse già quasi tutto, inizia ad infilarsi nel ….Labirinto del Silenzio. Si sarebbe potuto fare il film sul processo o di una vittima dell’Olocausto, ma invece si affronta il tema dei crimini di guerra nazisti che molti non avrebbero più voluto parlarne o addirittura nascondere i lager come semplici campi di lavoro. Per i Tedeschi di allora era normale, non entrare nel merito di quello che fecero, facendo finta di non conoscere, ma tutti sapevano di quella immane tragedia.L’omertà non è sconosciuta al popolo tedesco, gli americani hanno battuto il nemico nazista, quello che è stato è stato, allora si doveva combattere il nuovo nemico il comunismo senza più entrare nel contenuto di quello che era accaduto. Era il momento di dimenticare, sembrava inutile processare quello che nessuno voleva, lasciando liberi di continuare la loro vita a persone come Josef Mengele e tutti gli altri, senza dare dignità alle vittime di quell’immensa strage.I poteri forti, gli interessi economici ,oggi come allora, avrebbero potuto tutto… ma a volte non basta, la verità e la caparbietà possono vincere. In questa pellicola emerge che non erano solo i gerarchi gli unici responsabili …. Ma tutto il popolo, lo stesso che non lo ha mai nascosto e ha creduto che erano nel giusto, perciò che bisogno c’era di giudicarli.Il lungometraggio è una ricostruzione storica accurata e fedele, e il merito del regista è proprio quello di non scivolare negli eccessi disentimentalismo.
Un prodotto che a mio avviso bisognerebbe lasciarlo con la lingua originale … sono sufficienti i sottotitoli rende meglio, diffonderlo nelle scuole …… per non dimenticare.
Dal SXSW festival di Austin uno spaghetti western made in USA
Ad Austin in occasione della ormai 29 edizione del South by Southwest Film Festival è stato presentato In A Valley Of Violence , l’ultimo film di Ti West che dall’ambito Horror (ricorderete V/H/S e purtroppo anche il men che modesto Cabin Fever 2 – Il contagio) vira ora in un western condito in salsa Clint Eastwood e con qualche spruzzata di humor tarantiniano.
Il cast è di rilievo e conta Ethan Hawke, John Travolta, Karen Gillan e Taissa Farmiga (sorellina della più famosa Vera), che dopo American Horror Story e Bling Ring è arrivata alla fine al suo quattordicesimo ruolo (e meno male che non voleva fare l’attrice come la sorella).
E’ la storia di Paule (Hawke), un mortale pistolero che rifugge però dalla violenza e che in viaggio con il suo fedele Collie verso il Mexico incappa in un paesino tiranneggiato da uno sceriffo cattivo, interpretato da John Travolta che numerose volte in passato ha già dato brillante prova di raffinatissimo cattivo e c’è ovviamente anche la bella Taissa Farmiga che si schiererà al fianco del bel straniero. Insomma nulla di nuovo sino a qui ma in fin dei conti è un film di genere di cui si piangeva la mancanza da anni ormai ed è meritorio che una piccola ma consolidata casa di produzione come la Blumhouse Production (“The Darwin Awards – Suicidi accidentali per menti poco evolute” ; “Paranormal Activity 2 e 3“) riporti il western sugli schermi. Ad oggi nulla si sa a proposito di una distribuzione italiana.
The Lobster
Diretto da Yorgos Lanthimos
The Lobster è una storia d’amore ambientata in un futuro prossimo ( onirico, spietato e agghiacciante), dove i single secondo quanto stabiliscono le regole della Città vengono arrestati e trasferiti nell’”Hotel”. Un mondo dove vivono le coppie, opposto ad un mondo dove vivono i solitari. Il film descrive com’è avere un compagno e com’è stare da soli nella vita. …Un uomo disperato fugge e va nei boschi dove vivono i Solitari; lì si innamorerà trasgredendo alle regole. Il film è ambientato in un mondo parallelo, futuristico a noi sconosciuto. Si basa sul tema dell’amore, sul significato di esso e come sia collegato al concetto di solitudine di compagnia, su come le persone sentano la necessità di trovarsi costantemente in una relazione amorosa, su come si venga considerati falliti se non si sta con qualcuno, come ci si comporta pur di trovarsi un compagno, sulla paura e su tutto ciò che ci succede quando cechiamo un partner. Il film contiene toni molto diversi; humor ma anche tristezza e violenza., creando un ambiente incredibile da mostrare al pubblico. Capitanato da Colin Farrel (si è trasformato completamente per questo ruolo e sembra del tutto a suo agio in questo mondo così strano) e Rachel Weisz ci portano attraverso i tre mondi descritti nella storia: Citta-Hotel-foresta e di nuovo città. Olivia Colman è una specie di infermiera Ratched (qualcuno volo sul nido del cuculo) che detta le regole che governano l’Hotel. Molti attori sono non professionisti, ma ugualmente bravi.
Si ride amaro, ma inaspettatamente commovente.