Poteva essere un film denuncia, sugli orrori perpetrati dai gerarchi nazisti in Cile, con le efferatezze del regime di Pinochet, il dramma dei desaparecidos, il «piano Condor» e le atroci sperimentazioni condotte da Mengele, “Colonia Dignidad” un insediamento tedesco del dopoguerra in Cile, oggi più noto con il nome di Villa Baviera.
Ma cos’era la «colonia»? Un covo di nazisti che attira, protegge e nasconde decine di nazisti (pedofili) scappati in Cile, Argentina e Paraguay subito dopo la guerra, dai toni messianici e con il dominio assoluto di Schäfer. I bambini vivono separati dai genitori e i mariti dalle mogli. Niente tv, niente telefono, niente elettricità, bandito persino il calendario. «Il capo religioso decide inappellabilmente la vita dei seguaci e si prende cura dei bambini, facendo loro il bagno e “dormendo” con loro. ».
Colonia dignidad si basa sulla storia romanzata di due giovani rivoluzionari ,uno di origine tedesca, sfruttando la storia d’amore l’unica nota interessante è l’inversione dei ruoli, dove Lena va a salvare il suo uomo, mettendo in secondo piano la tragedia di un intero popolo vittima di genocidio, ma tutto ciò non rende il film così interessante.
Un elemento apprezzabile sono le canzoni conosciutissime, che sottolineano l’amore tra i due giovani: Try di Janis Joplin, Samaba Pa Ti di Carlos Santana e Ain’t No Sunshine di Bill Whiters
Il regista doveva scegliere se puntare sul film denuncia o sull’intrattenimento, il risultato… né carne né pesce.
Si può raccontare l’amore tra fratello e sorella come se fosse una favola???
Questo è il lavoro (ben riuscito) della regista Valérie Donzelli, che ha raccontato una storia senza tempo, con questo sentimento sempre esistito, perché è l’amore che sceglie te e non il contrario.
Il castello, “la Principessa”, “il Principe”, intrisi di fantasia ma confusi di realtà.
Dopo un intera vita passata assieme, i due fratelli solo con la fuga riescono a coronare il loro rapporto e con la giustizia degli uomini realizzano l’unione per l’eternità, da spiriti liberi.
Un prodotto pronto per i nostri tempi (qualche anno fa, sarebbe stato più difficile) l’incesto non è più punito con la morte, anche se l’accusa principale era l’adulterio, se ne può parlare e raccontare come se fosse una bellissima favola di chi scegliendo l’amore sceglie la morte.
Incominciamo dalla fine: non è un film leggero, ma è un grande film. Ha esordito al Sundance lo scorso febbraio ed è notizia di poco fa che è stato selezionato per la prossima edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia. Il film prende spunto dall’eccidio occorso in un cinema negli Stati uniti nell’estate del 2012 durante la proiezione del film di Batman “The Dark Knight” di Christopher Nolan. Infatti il titolo “Dark Night” si ottiene per sincope, anzi per ectlipsi mi fanno notare i più precisi, facendo cadere la K di “Knight”.
Non si tratta della ricostruzione di quanto accadde in realtà nella cittadina di Aurora, bensì di ipotizzare quale può essere il tessuto sociale dove una pazzia del genere può nascere e svilupparsi sino al suo più tragico epilogo. Il film è ambientato in una cittadina americana tipo, in un quartiere della middle class, ormai neppure più tanto WASP (White Anglo Saxon Protestant), fatto di casette tutte simili con i loro pratini curati ed immensi centri commerciali circondati da sconfinati parcheggi.
Il regista Tim Sutton (alla sua terza prova dopo “Pavillon” del 2012 e “Memphis” nel 2013) segue la vita di sei personaggi nei giorni che precedono la strage. Compito dello spettatore è individuare il possibile psicopatico tra il campionario d’individui che animano lo schermo. Sei vite che galleggiano in un siderale vuoto di relazioni in cui l’attenzione è la merce più rara. La comunicazione è azzerata a beneficio di una costante ricerca dell’evidenza della propria esistenza in vita tramite l’immagine restituita da un media, sia esso uno smartphone oppure un semplice specchio. Le interazioni tra gli esseri umani sono rarefatte e senza qualità, nel senso che quando raramente avvengono esse sono di un’insostenibile superficialità.
Se essere è essere percepiti (esse est percipi sosteneva l’empirista britannico George Berkeley) nessuno in questo film ha la certezza di esistere, neppure la madre seduta sul divano ad un accorto cuscino di distanza dal figlio e sullo sfondo di un doppio specchio che rimanda con un effetto droste l’immagine infinita di un ventilatore a tre pale. Tre sono anche i bulbi luminosi del parcheggio del centro commerciale, che come tre occhi inconsapevoli sono i testimoni muti di quel nulla che accade sotto di loro (e tre occhi ha anche l’inquietante graffito che caratterizza il visual della locandina).
L’occhio è il simbolo chiave che ricorre nel film, come dichiaratamente Sutton annuncia nella prima inquadratura quando ritrae l’occhio di una ragazza che riflette le luci blu e rosse delle auto della polizia, ma è un occhio che guarda e non vede, è uno strumento umano che sembra riconoscere come vere solo la virtualità di un videogame, di google map o di una chat, piuttosto che la realtà non mediata che si svolge dinnanzi a sé. Infatti uno dei personaggi dirà ad un certo punto “le persone non sono reali, solo la natura è reale e pericolosa”. Una sintesi dell’esistenza dove la crudeltà è dover interagire con il reale e l’omicidio è quindi un atto pietoso di liberazione dalla impossibilità di essere percepito. Non meraviglia quindi che ciascuno dei personaggi proposti è più che eleggibile a sterminatore e per questo non è tanto interessante alla fine capire chi in particolare ha compiuto l’eccidio, ma è prendere atto dell’iperbole antropologica proposta da Sutton con un linguaggio filmico di grande livello, basato su immagini e sequenze precise e asciutte senza alcun fronzolo o autocompiacimento per la bella fotografia (che comunque c’è).
Sì perché c’è da augurarsi che il film voglia essere proprio una figura retorica e che l’America non abbia raggiunto davvero un livello di così disperata aberrazione. Non prima almeno che Donald Trump diventi presidente.
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Quanti saranno i film prodotti al mondo ogni anno? Nel 2014 erano circa 6.500. Tanti o pochi non si può dire, ma possiamo mettere questo numero in relazione con altri. Ad esempio possiamo dire che per vederli tutti dovremmo vederne quasi 18 ogni giorno per i 365 che compongono un anno. Ad una popolazione mondiale che si aggira attorno ai 7 miliardi di individui corrisponde un incidenza di film per individuo del 0,0000009 (zero virgola 9 milionesimi di film procapite). La produzione mondiale è cresciuta di poco più del 17% dal 2008 , anno in cui si produssero 4.081 opere, e questo nonostante l’esordio della crisi economica mondiale. Anche osservando il 2014 rispetto al 2013 si registra una non disprezzabile crescita del 3,0 %.
Il maggiore produttore del mondo, ormai si sa, è l’India che con quasi 2.000 film prodotti ogni anno rappresenta il 30% della produzione mondiale (5,38 film ogni giorno ed un invidiabile 0,000002 film per abitante). Seguono gli Stati Uniti con appena 707 opere prodotte (una flessione del 4,2% rispetto l’anno precedente) che rappresentano poco meno dell 11% del totale ma con un incidenza rispetto la popolazione sostanzialmente identica a quella indiana, ovvero lo 0,000002 film per abitante.
Il cinema italiano entra per il rotto della scuffia nella top ten al decimo posto con 201 film prodotti. Un record positivo se si pensa che mediamente erano solo 150 nei sei anni precedenti (con un picco negativo di appena 133 nel 2009, primo anno di piena crisi). L’incremento di ben il 20,4% rispetto al 2013 è l’aumento percentuale più rilevante, ma più che di crescita tale fenomeno sembra parlare della scarsa media su cui si era attestata la produzione nazionale negli anni precedenti. Tale fioritura non è dovuta soltanto ai successi riscossi da Sorrentino con “La Grande Bellezza” ma soprattutto al farsi largo di produzioni low budget che non per questo sortiscono una minor qualità.
Chi volesse azzeccare il terzo posto assegnandolo alla Francia sbaglierebbe di grosso poiché l’ultimo gradino del podio spetta, come è presumibile, alla Cina con 618 film prodotti, nonostante una flessione del 3,1 % rispetto al 2013 che la rende paragonabile al prolifico Giappone, al quarto posto con 615 film prodotti ed un incidenza per abitante superiore a quella indiana, ovvero lo 0,0000004 film pro capite. La Francia è a metà classifica con 258 film prodotti, 10 in più rispetto alla Corea del Sud che però cresce quasi del 20% rispetto l’anno precedente, mentre invece i transalpini continuano nella discesa intrapresa nel 2012.
Complessivamente i principali 10 paesi produttori rappresentano ormai dal 2012 oltre l’ 80% dei film prodotti sul pianeta ed al resto del mondo non resta che spartirsi il restante 20%, nel quale spicca tutta l’america Latina con 521 titoli, pari al 8% e l’europa Extra Ue con 332 opere ( 5% ca. ). Il resto del mondo rimane così confinato in un magro 7% di cui l’Africa partecipa con appena 76 opere e l’Oceania 44 (per essere corretti e non dire in effetti Australia e stop).
Ovviamente si tratta di una mera elencazione quantitativa e non qualitativa che suggestiona ma non spiega molto. Interessante sarebbe analizzare i premi mietuti e soprattutto il volume dei ricavi conseguiti. Ma questa statistica rende l’idea della vivacità cinematografica di ogni paese e meglio che i blasoni ed il vil denaro aiuta a comprendere il grado di pluralità e di proposizione di ciascuna nazione. Sarebbe triste scoprire che alla fine l’Italia si colloca ad un modesto livello in tutte e tre queste componenti.
OMOR SHAKHSIYA (personal affairs) della regista Maha Haj, presentato nella sezione un certain regard al Festival del cinema di Cannes, è un delizioso film che ci racconta la vita di una famiglia palestinese, tra Nazareth, Ramallah e la Svezia.
Genitori, figli, la quotidianità spesso complessa nei territori, con momenti lirici e poetici.
Una piccola bomboniera, intrisa di ironia e intelligenza, da gustarsi piacevolmente.
Any day now è un film del 2012 diretto da Travis Fine, basato su una storia vera: ambientato in California alla fine degli anni ’70, racconta la storia d’amore di Rudy e Paul, una coppia omosessuale che tenta di ottenere l’affidamento di Marco, un ragazzo affetto da sindrome di Down. Il minore, vicino di casa di Rudy, si trova improvvisamente in stato di abbandono, a causa della carcerazione della madre.
Il tema dei diritti è la base del film: una delle scene più significative si svolge ad una festa a cui Rudy e Paul partecipano, costretti però a nascondere il loro legame. Lo scambio di battute avviene appunto intorno alla possibilità di occuparsi di Marco.
“Questa è una discriminazione!” afferma rabbioso Rudy, a cui ribatte prontamente Paul: “non è una discriminazione, è la realtà”.
In questo dialogo Paul, avvocato che lavora nell’ufficio del procuratore e che afferma di aver scelto questa professione per “cambiare il mondo”, non riconosce la discriminazione verso il suo essere omosessuale, privato pertanto di alcuni diritti fondamentali, mentre Rudy, di professione drag queen in un locale notturno e dipinto come idealista dallo stesso Paul, riconosce l’ingiustizia che la società ha nei suoi confronti.
I cambiamenti della giurisprudenza avvengono sulla base di mutamenti avvenuti nella società: come facciamo ad accorgerci che il mondo è cambiato se seguiamo solo le regole che sono già scritte, ormai obsolete?
Ed infatti la battaglia legale che Rudy e Paul dovranno intraprendere per tutelare Marco, li vedrà spesso impegnati a difendersi da odiosi concetti omofobi (verranno tacciati di condurre uno “stile di vita immorale”). La legge, in questo caso, non si occupa del bene del ragazzo, che ha invece compreso perfettamente quanto il concetto di “casa” non sia rappresentato dalla madre biologica, ma da Rudy e Paul.
Se pensiamo che il film si svolge nel 1979, siamo di fronte ad un tema più che mai attuale: Rudy e Paul non smettono di difendere i loro diritti.
Rakib, un giovane ragazzo indonesiano, diventa assistente di Purna, ex generale del regime in pensione. Quando Purna inizia una campagna elettorale per essere eletto sindaco, Rakib si lega all’uomo, diventato per lui mentore e figura paterna. Un giorno, però, un manifesto elettorale di Purna viene trovato vandalizzato: un gesto che avrà conseguenze inimmaginabili per entrambi. Con un ritratto intimo di due generazioni che vivono sotto lo stesso tetto, il regista Makbul Mubarak ripercorre un doloroso periodo storico della sua nazione con un thriller intenso, che presenta forti risonanze con la contemporaneità ed una forte universalità del tema della lealtà e della vicinanza al potere.
In occasione del Giorno della Memoria (27 gennaio) ci sembra opportuno segnalarvi una selezione di film nel nostro catalogo che sono stati fondamentali nel racconto di ciò che è successo durante gli anni della dittatura nazista: dai film di propaganda ai documentari, dalle prime opere realizzate nella Germania Est al cinema hollywoodiano, per conoscere il ruolo fondamentale della settima arte nella storia, nonché importante strumento di conoscenza.
Nelle sezione “Guerra” sul nostro sito potrete quindi trovare capolavori come “I figli di Hitler”, un’aspra critica del regista Edward Dmytryk sull’educazione hitleriana, al vincitore del Festival di Locarno “Rotation” e il film perduto della propaganda nazista “Das Ghetto”.
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.