Sole Cuore Amore

Sole Cuore Amore è un film semplice, essenziale, che va dritto al cuore. Lo fa seguendo con la macchina da presa, quasi pedinando, Eli e Vale, due amiche le cui vite si incrociano raramente perché Eli, per racimolare 700 euro al mese in un bar di Roma è costretta a partire all’alba e quando torna, la sera tardi, è stanca morta e ha quattro figli da mettere a letto; mentre Vale, che è una performer, sbarca il lunario nelle discoteche e va a dormire quando Eli si alza. Daniele Vicari ne racconta l’esistenza giorno dopo giorno, attraverso le delusioni, le piccole speranze, la fatica, soprattutto la fatica. Tutto qui? Sì, cioè no. Perché Eli e Vale, così lontane in apparenza, sono in realtà due facce della stessa medaglia, persone per bene schiacciate dall’insensibilità della vita, donne che chiedono poco (Sole Cuore Amore, ovvero: un po’ di serenità, il calore della famiglia, il sorriso di chi hanno di fronte) e per questo poco devono lottare strenuamente. Due donne che fanno del loro meglio, e questo meglio non basta.

Come apparente è l’esilità degli eventi, altrettanto lo è la semplicità del film. Perché è una semplicità cercata e conquistata. Arrivato al suo quinto lungometraggio, Daniele Vicari ha la capacità, da ascrivere alla grande tradizione del cinema italiano di impegno sociale degli anni 70, di scegliere prima il personaggio e poi la storia. Di studiarselo nei minimi particolari, nella backstory, nei comportamenti, nelle implicazioni psicologiche, di mettergli in mano pessime carte ma di amarlo per ciò che è, nei punti di forza e nei limiti. E poi di farsi guidare da lui nel corso degli eventi, attraverso le sue scelte. Sole Cuore Amore non è un film di regia “tecnica” (pochi fronzoli, pochi virtuosismi nelle inquadrature) ma lo è nella drammaturgia, nella mise en scène: le scene sono intense, vere, spesso emozionanti. Tutto questo grazie a un attento lavoro sugli attori, su cui spiccano la sempre più brava Isabella Ragonese e un sorprendente Francesco Acquaroli, credibilissimo nel ruolo del datore di lavoro di Eli.

Luigi Sardiello

 

IL PICCOLO TEATRO compie 70 anni

Il Piccolo Teatro compie settant’anni: era il 14 maggio 1947 quando nella sala di via Rovello andò in scena “L’albergo dei poveri” di Gorkij, festeggiando  quest’importante anniversario con oltre 25.500 giorni “di teatro d’arte per tutti”.

Ci si appresta a celebrare l’anniversario con una mostra fotografica in via Dante, un libro di Giulio Giorello, “La ricerca della bellezza”, un omaggio a Ferruccio Soleri nell’Ottagono della Galleria e una specialissima recita dell’“Arlecchino servo di due padroni” all’Arena Anfiteatro della Martesana, per ribadire la vocazione del Piccolo a essere teatro d’arte per tutti.

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Non possiamo non citare il documentario sul Piccolo, della serie “Giants in Milan” il quale testimonia l’importanza di un Teatro che ha fatto la storia di Milano.

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Farinotti contestualizza il primissimo dopoguerra, quando Antonio Greppi, uomo illuminato, diventa sindaco e usa le poche risorse disponibili non solo per le necessità primarie ma anche per la cultura, rimettendo in piedi la Scala e, dando vita, nel 1947, al Piccolo Teatro. I fondatori sono Paolo Grassi, Giorgio Strelher e Nina Vinchi. Il racconto prosegue attraverso le parole di chi il teatro lo “fa”: Sergio Escobar direttore generale, Stefano Massini consulente artistico, Maurizio Porro, critico del Corriere, Giulia Lazzarini, attrice, Ornella Vanoni, che “nacque” al Piccolo” e racconta la sua vicenda personale con Strelher. Sono presenti attraverso filmati concessi dal Piccolo, tutti i suoi “eroi”, a cominciare da Luca Ronconi. E poi, letteralmente tutti, (non c’è spazio per nominarli qui) gli autori, attori, registi, artisti.

Uno stralcio del racconto di Farinotti: “Il Piccolo ha innescato due forze, una centripeta, di accoglienza dei movimenti culturali prevalenti, e una, più potente centrifuga nell’elaborare e trasmettere al mondo. Accreditandosi come un soggetto che fa testo è stato, uso un termine impegnativo, un colonizzatore. Lo spettacolo-culturale del Teatro, secondo gli auspici iniziali è stato alla portata di tutti, attraverso diversi piani di lettura, certo.”

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I guardiani della galassia – vol 2

E’ sempre James Gunn a scrivere e dirigere il secondo capitolo della squadra galattica della Marvel ormai passata alla Walt Disney. La banda di scatenati ed improbabili eroi capitanati da Peter Quill (Chris Pratt) salverà questa volta l’intero universo e nel farlo urterà ben più di qualche suscettibilità arricchendo la lista di nemici potentissimi. Ci sono grandi e sorprendenti rivelazioni parentali come è d’uso in una saga spaziale e combattimenti ed inseguimenti mozzafiato, il tutto condito con raffiche di battute e gustose citazioni per i più nerds. Ci si ritrova il gusto degli episodi della serie storica di Star Trek ed a tratti si ravvisa anche accenni al celeberrimo “The Blob” (quello del 1958).

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Per il resto la trama è così stringata che non accenniamo nulla per non togliervi quel minimo di sorpresa, ma d’altro canto non è certo l’intreccio narrativo la ragione per andare a vedere questo film, caso mai è un’alternativa ad un giro sull’ottovolante quando il tempo è piovoso. Anzi, il tentativo di costruire un certo intreccio va oltre le capacità di scrittura di Gunn che, dopo un inizio scoppiettante, si impantana per una quindicina di minuti in un ritmo un po’ lento, ma niente paura: il tutto riparte poi alla grande per un finale con , letteralmente, i fuochi d’artificio. E’ giusto anticipare almeno, come del resto si evince già durante i titoli di testa, che Groot, l’uomo pianta a cui Vin Diesel ha dato la propria voce, ha un ruolo veramente centrale.

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I titoli di testa e di coda ormai sono assurti a vera arte e sono inglobati nel film in modo così funzionale e divertente che veramente consigliamo di stare seduti in sala fino a che non vi cacciano per fare le pulizie. Marchio di fabbrica di questo franchisee è l’uso della colonna sonora composta di brani anni 80 ( “Awesome Mixtape #2” è il nome della compilation con le musiche del film) che passano disinvoltamente dal piano diegetico a quello extra diegetico senza falsi pudori. La qual cosa crea un effetto spesso così dissonante tra commento sonoro ed immagini che risulta più esilarante delle battute, non sempre felici, che costellano il film.

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Ogni attore, mascherato o meno, fa il suo eccellente lavoro in ruolo e ci piace citare, oltre ai soliti noti, un magnifico Michael Rooker, usualmente un cattivo professionista, nella parte di Yondu e la bravissima Karen Gillan, nella parte di Nebula, la sorella “cattiva” di Gamora (Zoe Saldana). Sempre bellissima anche tutta pittata d’oro è Elizabeth Debicki che ricorderete in più umane spoglie in “Macbeth“, “Everest” e “Il grande Gatsby” e che qui interpreta Ayesha, la grande sacerdotessa dei Sovereign.

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Per sopramercato troviamo infine persino Sylvester Stallone che più invecchia e più migliora con un piacevole senso dell’umorismo.