E’ ormai imminente l’emanazione del decreto attuativo della legge 14 novembre 2016 n. 220 “disciplina del cinema e dell’audiovisivo”. Non solo riguarda i tanto attesi contributi automatici a sostegno della produzione nazionale di audiovisivi, ma contiene anche finalmente un corpus di definizioni finalmente specifiche che connoteranno i contratti che regolano i rapporti tra gli operatori del settore. Si tratta non tanto di una rivoluzione bensì di un’evoluzione comunque epocale. Nasce ad esempio il concetto di “opera web“, è definita la nozione di “videogioco” che assurge infine con piena dignità ad opera audiovisiva. Nel novero delle imprese cinematografiche o audiovisive sono ora ricomprese non solo i distributori di tutti i canali (cinema, internazionale e dei supporti audiovisivi), gli editori dell’audiovisivo (definiti senza imbarazzi xenofobi con il termine inglese home entertainment), ma anche i laboratori di postproduzione ed ovviamente gli esercenti delle sale cinematografiche (sembra incredibile ma prima non lo erano, come se vendessero bucce di mela anziché proiettare film). Addirittura sono normate le nozioni dei processi quali la produzione, sviluppo, realizzazione, distribuzione, insomma un vero conforto per manager e loro legulei.
Complimenti sinceri sono dovuti al Ministero ed al Consiglio Superiore del cinema e dell’audiovisivo, il nuovo organo introdotto dalla legge n.220 composto da tecnici che sono in grado di consigliare il Ministero in un’industria della cinematografia che evolve secondo linee niente affatto note e secondo modelli articolati e sempre inediti.
Meno chiaro è il ruolo svolto da quella che è sempre stata immeritatamente la cenerentola delle associazioni di categoria del settore, ovvero l’Univideo. Nonostante i non trascurabili volumi di giro d’affari che dagli anni 90 e sino alla fine degli anni 2000 ha rappresentato è sempre stato un organismo dominato dalle major americane contente di trarre per se ogni possibile beneficio (ad esempio il bollino SIAE generico per non dover stare ad impazzire nei loro stabilimenti di duplicazione per lo più collocati all’estero) e piuttosto insensibili ai bisogni del sistema Italia ed in particolare delle piccole imprese nazionali che vi operano. Il sistema di rappresentanza e voto è notoriamente ancorato a livelli di ricavi che generano un’ abnorme sperequazione tra le major ed il resto del mondo, come se i problemi e i bisogni fossero proporzionali al fatturato, invece essi impattano su grandi e piccoli in maniera inversamente proporzionale.

Un epifenomeno del contrarsi del giro d’affari complessivo e del conseguente abbandono dell’italia da parte delle case americane è stato un cambio nella governance che ha visto finalmente affermarsi delle volenterose presidenze italiane con Davide Rossi e Roberto Guerrazzi. Oggi al vertice c’è un valente e giovane manager, Lorenzo Ferrari Ardicini, espressione di una casa dalla lunga tradizione e che eredita il marchio storico di Cecchi Gori.

Se vi è un appunto da muovere è relativo alla comunicazione ed al coinvolgimento. Sì perché se qualcosa è stato fatto per far valere le ragioni del comparto presso gli estensori della legge 220 non si sa bene però che cosa in particolare. Né si è assistito ad un tentativo di coinvolgere quel 5% che ostinatamente si mantiene fuori dalla associazione ed al quale varrebbe la pena rivolgere la domanda circa il perché di questa persistente titubanza. Bene il commissionare uno studio sull’ Home Entertainment a GFK ed organizzare eventi interessanti come il PRESS PLAY – TRADE MEETING 2017 (sempre a cura di GFK), ma intanto l’Italia è ancora e sempre condannata al bollino SIAE fisico da applicare su ogni supporto, per citare solo una delle molte vessazioni ancora agenti. Insomma i nodi cruciali rimangono lì e neppure sorgono nuove iniziative come corsi di formazione o aggiornamento dedicati ai dipendenti delle aziende del settore, piuttosto che servizi (anche a pagamento al limite) che aiutino le aziende più piccole con le istruttorie per finanziamenti italiani ed europei, giusto per tirare fuori qualche idea propositiva. Al limite aggiornare il logo che con il suo mondo stilizzato a ricordare uno schermo in 4:3 con le sue brave righe interlacciate rimane a vestigia di un media ormai vetusto e praticamente scomparso nel mondo dei mega schermi a 16:9 e 5K.

E’ vero che il budget è sempre più stringato, ma un’associazione che non ha mutato i propri criteri di adesione e di rappresentanza e non si produce in iniziative e servizi utili per i propri associati e destinata a spegnersi a poco a poco. Era lecito pensare che un giovane (ma nel frattempo non più giovanissimo) presidente desse una svolta significativa ad Univideo e invece tutto continua più o meno come prima nella quiete delle mura degli uffici di C.so Buenos Aires a Milano, come fosse il palazzo delle Blacherne a Bisanzio nel maggio del 1453.