“Il prigioniero coreano” di Kim Ki-duk
Regia di Kim Ki-Duk.
Un film con Ryoo Seung-Bum, Lee Won-Geun, Choi Gwi-Hwa, Jo Jae-Ryong, Won-geun Lee.
Titolo originale: Geumul.
Genere Drammatico – Corea del sud, 2016
“Il prigioniero coreano” è l’ultimo lavoro del regista sud coreano Kim Ki-duk, una personalità che, nonostante le difficoltà incontrate in patria per affermarsi ed essere riconosciuto dalla critica, gode al contrario in Europa di stima
e consenso praticamente unanime; tra i vari riconoscimenti ottenuti nel Vecchio Continente non si può non ricordare il Leone d’oro al miglior film ottenuto alla 69ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2012
con la pellicola “Pietà”.
“Il prigioniero coreano”, in uscita nelle sale italiane il 12 aprile, distribuito da Tucker Film, è un’opera di grande equilibrio strutturale e visivo che danza proprio sul confine
che divide le due Coree; qui infatti uno sfortunato pescatore del Nord si trova trascinato dalla corrente sul territorio del Sud, aprendo così un caso diplomatico, mediatico e quindi politico.
Aleggiano attorno al suo destino numerosi interrogativi, sapientemente diluiti dal regista nei 114 minuti di durata del film: il protagonista è forse una delle tante spie che tentano di intrufolarsi nel territorio nemico?
Nel caso non lo sia, è giusto rimpatriarlo affinché si riunisca alla moglie e alla figlia?
O bisogna invece fare in modo che diserti, obbligandolo quindi ad abbracciare forzatamente la democrazia?
L’idea di libertà che emerge dalla pellicola è complessa e aperta, così come le scelte morali che i personaggi devono compiere.
Sicuramente Kim Ki-duk non celebra ciecamente l’Occidentalizzazione del Sud Corea, tenta semmai di cogliere le ragioni di un pescatore che, per quanto fedele ad un regime totalitario, ama la sua terra,
ama la sua famiglia e lotta fino a un passo dal suicidio
per ritornare a vivere la propria quotidianità (“Persino il sole era migliore al Nord”).
Tutto ciò si traduce in numerose scelte stilistiche a volte metaforiche e raffinate, a volte invece violente e dirette.
Si può osservare ad esempio un’alternanza bilanciata e funzionale tra gli spazi chiusi, soffocanti e legati a interrogatori violenti e a una forzata “autobiografia”, e gli spazi aperti naturali, il fiume su tutti, e metropolitani,
Seul e il suo consumismo sfrenato di merci e persone.
“Il prigioniero coreano” è un film che merita attenzione e che, forse, può essere sintetizzato da un semplice proverbio coreano che appare proprio al culmine della narrazione cinematografica: più forte è la luce, più forte è l’ombra.
al cinema dal 12 Aprile
Marco Citro
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