Big Fish & Begonia. Il sogno di una ragazza. Il destino di un uomo.

Non ci stancheremo mai di ripeterlo: avvertiamo oggi un bisogno urgente di raccontare storie. In un mondo in cui siamo tutti sempre più vicini e connessi, arroccarsi nella propria cultura indossando, come spesso purtroppo accade, il paraocchi di una morale o di un’estetica assoluta frutto di una civiltà eletta, ci può solo portare all’ignoranza, all’errore e, cosa peggiore, alla paura. il cinema invece, con il suo linguaggio universale, può raccontarci storie meravigliose e utili come quella di “Big fish & Begonia” che ci fanno scoprire, attraverso la forza metaforica e mitologica di una favola, per di più a noi sconosciuta ma tra le più antiche che l’uomo abbia mai tramandato, il valore dell’integrazione culturale, dell’apertura e dell’accettazione di un sistema culturale diverso dal nostro, senza alcuna violenza, senza nessuna paura. È proprio questo il messaggio profondo e commovente raccontato da big fish & begonia, un film di animazione cinese  distribuito nelle sale italiane dal 21 giugno grazie a Draka Distribution e Twelve Entertaiment.

I registi, due ragazzi cinesi di poco più di trent’anni, Chun Zhang e Xuan Liang, attorno al 2005 capiscono di avere per le mani una grande storia da raccontare, liberamente ispirata alla letteratura taoista e ai più antichi racconti tradizionali cinesi. Attraverso una campagna crowdfunding e un lavoro di produzione durato quasi dieci anni, i due giovani registi sono riusciti non solo a realizzare un film di animazione per tutti, grandi e bambini, raggiungendo cifre impressionanti al box office: oltre 85 milioni di dollari soltanto in Cina, ma hanno anche prodotto un’opera validissima per tutte le civiltà, per la nostra soprattutto.

Abbiamo visto in anteprima Big Fish and begonia nel suo doppiaggio italiano e condividiamo l’entusiasmo di “The Guardian” che addirittura mette in parallelo il film con l’inarrivabile studio Ghibli, produttore delle opere dl maestro Miyazaki. In effetti a livello tecnico il film riesce, nei suoi 105 minuti di durata, a tessere senza forzature disegni realizzati a mano e sequenze invece completamente digitali e con un utilizzo marcato del 3d.

La protagonista, Chun, è una ragazza di sedici anni, appartenente a un universo metafisico che regola la natura delle cose attraverso riti e cicli eterni di vita e morte. Questo aldilà e il nostro al di qua sono collegati da un elemento simbolico e sacro: l’acqua, nella sua manifestazione più potente, gli oceani. “Sangue e lacrime sono salati come il mare”. Chun compie un vero e proprio viaggio di iniziazione all’età adulta scoprendo il mondo degli umani, da cui dovrebbe mantenere distanza e diffidenza, ma la solidarietà che scoprirà nella sua avventura abbatteranno distanze e pregiudizi convincendola ad aprire il suo cuore a un mondo diverso e lontano dal suo.

Così tutto il film si configura come un gigantesco viaggio di salita e di discesa. L’aspetto più entusiasmante sta nel ritrovare, in questa narrazione orientale, due parole greche: il viaggio verso il basso, catabasi, e il viaggio di ritorno verso l’alto, anabasi.

Anabasi e catabasi diventano dunque due metafore, frequentissime anche nel nostro sistema culturale, basti pensare ai poemi omerici, a Virgilio e chiaramente alla Divina Commedia; due viaggi, verso il basso e verso l’alto, che forse, come dicevamo inizialmente, solo nuove storie possono invitarci a riscoprire per vincere la piattezza, spesso inevitabile, del nostro orizzonte quotidiano. Citando le parole del film: “Non ti ho chiesto se è possibile, ti ho chiesto se è quello che vuoi”.

al cinema dal 21 Giugno

Marco Citro

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La parabola del cinema

La domanda che tutti gli operatori fanno ed alla quale alcuni già rispondono affermativamente è se il cinema sia in coma e la televisione lo stia inglobando.

Quindi non più crisi del cinema, ma fine di una parabola durata oltre cento anni, nemmeno tanto, e fine di tutto quello che la rappresenta, pellicola, sala, buio, divi.

Gli incassi nazionali vanno in quella direzione, dimostrando che il cinema lo frequentano, e poco, solo i giovani, che i prodotti che il nostro legislatore chiama “difficili” sono evitati accuratamente dal pubblico e che le idee diventano sempre più rare e confuse. Anche Cannes quest’anno ha dimostrato che non basta più il tappeto rosso per far agitare le folle, e che le star di una volta hanno perso il loro potere attrattivo, passato in breve ad altri personaggi quali i politici innanzitutto, o i calciatori, o i protagonisti di reality e saghe televisive.

Cate Blanchett in Okja di Bong Joon-ho, simbolo del conflitto Netflix-cannes

Se tutto questo è vero, il cinema è stato ucciso dalla tecnica, come quasi tutto l’esistente, che è giornalmente macinato dalla ricerca e da una sempre più veloce presa di possesso dell’uomo, non più inteso come centro dell’umanità, ma come passivo ricettore di messaggi che hanno come primario scopo quello di renderlo dipendente e fargli spendere soldi. La persona è oggi una macchina che lavora compulsivamente per pagare tutto quello di cui si è circondato e che in teoria dovrebbe consentirgli di vivere meglio, senza alcuno sforzo. In questo senso le strutture vengono sostituite da nuove strutture, che se apparentemente consentono ad ognuno di non muovere un dito, sostanzialmente lo costringono a massacrarsi alla ricerca del denaro per non muovere un dito. Così sta avvenendo per il cinema, che non deve essere più raggiunto, ma ti viene portato in casa, in bagno, in auto, in quantità industriali a patto di pagare salati o modesti abbonamenti per tutta la vita.

Così, senza parcheggiare, senza alzarsi dalla poltrona, spesso senza scegliere, che è comunque una fatica, il pubblico riceve passivamente decine di film di tutti i generi, e lì può vedere mangiando, senza audio, come sottofondo, in ospedale, in prigione.

A che serve la sala? A nulla, le strutture delegate si sono arrese e i produttori sono stati i primi a tradire il loro orticello, attratti dai guadagni molto più agevoli, offerti dalla televisione.

Che bisogno c’è di produrre capolavori se poi chi li guarda è a tavola o ha i piedi sul tavolino o quattro ragazzini intorno che urlano: basta fare un prodotto dignitoso, quello che vuole la Andreatta, con il regista che vuole Lei, gli attori che Le piacciono e chissenefrega se non viene fuori il prodotto del secolo!

Il cinema no, è arte, devi stare zitto, al buio, e concentrato, oppure è grande spettacolo costoso, quello che noi non possiamo produrre, quello che impressiona i bambini e i ragazzi, quello che fanno gli americani. Ed ecco la nostra parabola nel segmento più discendente: sì, il cinema è in coma, lo hanno ucciso la tecnica ed i politici che hanno sposato la televisione.

Siamo nelle mani di Netflix e di Fazio; non c’è altra soluzione tranne quella di ricominciare a leggere i libri.

Michele Lo Foco