La terra dell’abbastanza, acclamato all’ultimo festival di Berlino, è il film d’esordio dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo. Narra di un viaggio di (de)formazione criminale di due giovani amici, in una periferia romana dalla doppia duellante valenza, solo una delle antitesi che spingono avanti la storia: Manolo (Andrea Carpenzano), chiuso, ambiguo, infido e Mirko (uno scalpitante Matteo Olivetti), sanguigno, vero, smosso dalla coscienza. Caratteri che emergono solo dopo l’incidente scatenante (l’involontario omicidio stradale di una “busta gialla”, che fa comodo al clan di zona). Da quell’evento casuale si comincia a sfaldare il loro legame di amicizia, intravisto nella sequenza iniziale. Le traiettorie da parallele diventano inesorabilmente asintotiche, i comportamenti non hanno una meta se non l’apparente benessere edonistico (soldi, donne facili) che non spegne la coscienza, fino alla struggente risoluzione, col tocco finale straniante della scena dei tatuaggi. Altri poli opposti sono un padre inconsapevole e rimbambito anche davanti agli eventi tragici da cui viene investito (un inedito e intenso Max Tortora, capace di registri recitativi emozionanti) e una madre (Milena Mancini, brava, dolente e rassegnata) che invece lotta per far rinsavire il figlio e che vorrebbe scappare in… Molise!; Non esiste una famiglia consolidata, neanche quella di rincalzo che la donna vuole difendere e lo stesso clan malavitoso non ha niente di fronte che possa ostacolarne il piatto strapotere ideologico della “svolta” promessa o il sogno di un reality; la location periferica di Ponte di Nona – a detta degli stessi registi “…ha scorci molto strani, quasi fiabeschi, e ci piaceva l’effetto di contrappunto tra il degrado e l’onirico…”. Interessante la scelta linguistica fatta di fotografia che va dalla sovraesposizione al controluce, quasi sempre livida in interni, che nega la luce piena ai volti e fonde colori e spazi alla Francis Bacon, con la mdp a mano (si, voglio chiamarla macchina da presa di anime e non telecamera) che riesce a far sentire – nelle inquadrature strette e incalzanti addosso alle facce dei personaggi – i loro tumulti interni, il passato e il presente che ne determinano l’esistenza in piani sequenza che non sono mere soluzioni tecniche per ottimizzare il girato. E i totaloni (campi lunghissimi) contrapposti, spiazzanti, con Mirko e Manolo persi nel magma incomprensibile del loro piccolo quartiere o dove li mandano ignari e ignavi a fare esecuzioni sommarie.
Ormai il cinema di ambientazione periferica romana è quasi un minifilone (Non essere cattivo, Cuori puri, Il contagio, Fortunata ecc.) decenni dopo la fiammata post-pasoliniana dei primi anni sessanta, dove era la borgata al centro della narrazione, ma La terra dell’abbastanza si distingue per essere un noir de’ noantri che – citazionismo d’azzardo – mi ricorda Julies Dassin, quasi uno spin-off di Suburra, senza indugi nel descrivere un degrado morale e materiale di belli puliti e cattivi (?) che potevano avere un futuro diverso, non incentrato solo alla roba verghiana edulcorata dal berlusconismo.
Gaetano Gentile