CONTAMINAZIONI n° 11 – The Meyerowitz Stories, un piccolo grande film, e il genio dimenticato di Irene Nemirovsky.

E’ raro che il mondo dell’arte contemporanea sia degnamente rappresentato nel cinema. Il più delle volte si assiste alla messa in scena di banali luoghi comuni come potrebbero sembrare quelli della famosa sequenza del film “Le vacanze intelligenti” (1978), dove Alberto Sordi e la moglie, grassa e ignorante, si avventurano tra i padiglioni della Biennale di Venezia. In realtà quelle scene sono talmente “oltre” che diventano a loro modo geniali: il contesto è quello di una satira casereccia che lamenta la celebrazione di un’arte concettuale i cui “concetti” sono compresi e condivisi solo da un’elite, per simpatizzare con il popolino, preso in giro da quella spocchiosa autoreferenzialità.

Il punto di vista è dichiaratamente limitato a questo semplice conflitto sociale e la critica infatti continua cambiando bersaglio ma con la stessa tesi, nell’imperdibile scena del concerto di musica contemporanea. Qualche anno fa, nell’ultima intervista che ho avuto modo di girare con Getulio Alviani (protagonista dell’arte italiana del secondo 900’, recentemente scomparso) c’è un’analoga critica alla “truffa” dell’arte contemporanea. Nel suo abituale stile polemico “Get” sparava a zero su alcuni suoi colleghi, celebrati e rispettati, ma partendo da motivazioni molto diverse da quelle della coppia di “fruttaroli” catapultati all’edizione del 1978 della Biennale.

Lo Sposalizio della vergine di Raffaello

Avevamo appena attraversato insieme l’accademia di Brera, ammirando alcuni grandi capolavori come il “Cristo morto” del Mantegna e “Lo sposalizio della Vergine” di Raffaello… per citarne due che da soli valgono una visita al museo.

Il Cristo morto di Mantegna

E’ pieno di stupidi! Io l’ho scritto dappertutto… L’arte e il ricettacolo dei peggiori inetti sulla terra… Capisci… Perché sono capaci di farla tutti… Abbiamo appena visto le cose meravigliose dell’arte del rinascimento, che non erano in grado di farla tutti… Non la faceva nessuno, se non un genio!”

Getulio Alviani

Nella filmografia recente un esempio deludente è “Colpo d’occhio” (2008) di Sergio Rubini, dove a nulla è valso che le opere mostrate nel film fossero di un artista di talento come Gianni Dessì, persona di grandi qualità umane, coinvolto anche come consulente… ma dubito che i suoi consigli siano stati ascoltati con la dovuta attenzione, perché la banalità, il “macchiettismo”, la non conoscenza di questo mondo, rendono un brutto servizio sia al cinema che all’arte contemporanea.

Gianni Dessì

Sergio Rubini è un ottimo attore che ha diretto dei film riusciti, ma il suo ritratto superficiale del “critico d’arte/curatore”, una specie di Achille Bonito Oliva svuotato di ogni qualità, senso e dignità, è un banale cliché.

Il protagonista, un giovane artista in ascesa interpretato da un improbabile Riccardo Scamarcio, annaspa tra le sue opere che appaiono totalmente scollegate, come una realtà posticcia che non gli appartiene, mentre il discorso del film accenna vagamente alle presunte dinamiche del “mercato”, al potere dei curatori e dei critici e mai alla “ricerca” che il vero artista mette al centro della sua vita, quel tormento che, al di là delle apparenze e semplificazioni, costituisce il baricentro e il senso del suo lavoro, della “tenuta” che si può riconoscere nella lunga distanza di una vita dedicata. Un’occasione mancata per Scamarcio che recentemente ha dato una notevole prova d’attore in “Loro 1” di Paolo Sorrentino, anzi, è la cosa migliore di un film deludente… In “Colpo d’occhio” certo non è stato aiutato dalla sceneggiatura che lo ha costretto nei limiti di un personaggio banale.

Un’altra caduta di stile la troviamo ne “La grande bellezza” (2013) altro film di Sorrentino, dove si fa della facile ironia su quella tradizione che, a partire da Gina Pane, passando per Marina Abramovich, si è concentra su un tipo di ricerca legata all’utilizzo, spesso disturbante, del corpo umano come campo dell’azione, il corpo dello stesso artista, con tagli, bruciature, sangue, spilli conficcati sulla pelle…

Gina Pane – Azione sentimentale
MArina Abramovich – The artist is present

L’ultima performance in tal senso alla quale ho assistito è stata di Silvia Giambrone, una giovane artista italiana che lavora con grande intelligenza, talento e originalità.

Silvia Giambrone

Sorrentino, il cui cinema ho sempre amato (salvo i due “Loro” del 2018), deve avere conoscenze abbastanza superficiali nel campo dell’arte contemporanea, tanto da cadere anche lui nella banalità della messa in scena di un’assurda performance nella quale un’artista, una donna, corre verso un muro andando volontariamente a schiantarsi con un probabile trauma cranico così da strappare qualche risata tra il pubblico ignorante.

“Anni felici” (2013) di Daniele Luchetti (ispirato a suo padre, artista tormentato, scomparso a soli cinquant’anni) è sicuramente più onesto e interessante di altri film che trattano d’arte ma nonostante la rielaborazione di una sentita autobiografia e un attore protagonista come Kim Rossi Stuart, non convince. Anche qui si finisce per cadere nella descrizione superficiale di presunte dinamiche che possono portare un artista ad avere successo, mentre un altro a vivere la frustrazione del fallimento.

Una foto tratta da “Anni felici”

Ci sono certamente altri esempi negativi di come l’arte è stata raccontata dal cinema, ma preferisco segnalarne uno di molto positivo: “The Meyerowitz Stories” (2017), di Noah Baumbach.

Il cast è stellare ma il film ha il taglio e il sapore del miglior cinema indipendente americano. Racconta le dinamiche familiari che ruotano attorno a un artista praticamente dimenticato, interpretato da Dustin Hoffman. I sui figli di primo letto, Adam Sandler e Elisabeth Marvel (due sfigati) sono sempre stati gelosi del fratellastro Ben Stiller (imprenditore di successo), per il quale il padre, ormai alla terza moglie (Emma Thompson) ha sempre avuto un debole. Adam Sandler (separato e senza lavoro) ha un’adorazione non ricambiata per il padre ed è l’unico ormai a considerarlo un genio incompreso. La sua unica vera ricchezza è la figlia Eliza (Grace van Patten), studentessa di cinema al primo anno, autrice di alcuni divertenti cortometraggi dal contenuto provocatoriamente erotico, mostrati nel film per intero.

IL cast del film di Baumbach a Cannes

La performance di tutti gli attori è di altissimo livello e in particolare i tre figli di Hoffman sono dei mostri di bravura nel dare ai loro personaggi la complessità, le contraddizioni e l’umanità che fanno decollare il film.

Il mondo dell’arte è raccontato con grande competenza e capacità di sintesi in una serie di scene precise ed essenziali, dove quello che conta rimane la storia e il rapporto tra i personaggi. Non si prede tempo a sbrodolare teorie improbabili, a spiegare inutili prospettive al pubblico o a mostrare personaggi caratterizzati allo scopo di divertirlo… c’è invece un grande rispetto e una conoscenza profonda delle dinamiche di quel mondo, lontano dai luoghi comuni e con il giusto punto di vista.

L’amico e compagno di strada di Dastin Hoffman (interpretato da Judd Hirsch), è divento una super star dell’arte, celebrata dal mercato e dai musei. La scena in cui s’incontrato è piena d’informazioni sui sentimenti contrastati degli artisti, ma sempre in relazione alla vita e alle dinamiche esistenziali mosse dai protagonisti della storia.

Il cast alla 55^ edizione del NY film Festival, al centro Judd Hirsch

Con le dovute differenze, la sceneggiatura di Noah Baumbach, per l’elegante giostra dei personaggi, mi ha fatto pensare alle perfette architetture narrative di Irene Nemirovsky. Anche qui abbiamo una rappresentante dell’intellighenzia ebraica, ma circa novant’anni prima. Dopo aver letto quasi per caso il suo primo romanzo, “David Golder” (1929), ho capito di essermi imbattuto in un gigante della letteratura…

così sono andato a Campo dei Fiori, alla libreria “Fahrenheit 451” dalla mia amica Catia, e ho ordinato tutta la sua produzione disponibile in Italia, in gran parte pubblicata da Adelphi: un viaggio straordinario nelle pagine di una grande narratrice, capace in poche frasi di trascinare il lettore dentro la storia e di continuare a sorprenderlo fino alla fine.

Irene Nemirovsky

Nata a Kiev, figlia di un ricco banchiere ebreo, con la rivoluzione bolscevica fu costretta a fuggire in Francia. Aveva imparato il francese dalla sua governate, una figura affettiva molto più vicina di quanto lo sia mai stata sua madre, donna frivola e profondamente egoista che ispirerà diversi personaggi dei suoi romanzi. Anche il padre, sempre lontano per affari, non ebbe mai un ruolo centrale nella sua vita. Fin da ragazza iniziò a scrivere come sfogo, una reazione alla sua infelicità affettiva, inventandosi un metodo di lavoro che l’ha portata già molto giovane alla scrittura di un capolavoro come “David Golder”. Era già a Parigi da diversi anni quando mandò il manoscritto a un editore usando solo il cognome del marito sul mittente… ma siccome era incinta della prima figlia, per alcuni mesi non rispose alle lettere nelle quali la casa editrice le comunicava l’intenzione di pubblicare subito il romanzo.

Quando finalmente s’incontrarono, l’editore stentò a credere che quella giovane donna fosse davvero l’autrice di un simile capolavoro, potente, scarno, spietato e innovativo.

“David Golder” racconta gli ultimi mesi della vita di un vecchio ebreo che traffica in petrolio e altre rischiose speculazioni tra Parigi, Londra, New York, Mosca… A quel tempo non c’erano i collegamenti aerei e per concludere i suoi affari si trascina con ogni mezzo arrancando a fatica sui percorsi impervi di un mondo già globalizzato, mentre un’angina pectoris lo conduce lentamente verso la morte. E’ un romanzo che analizza lucidamente i rapporti umani restituendoci uno scenario senza speranza, ma la forza motrice del protagonista è proprio il rimanere aggrappato alla vita terrena che ogni tanto regala qualche soddisfazione, oppure la tenerezza di un lontano ricordo che inaspettatamente affiora dall’oblio del passato, richiamato in superficie da una qualche coincidenza o evocazione.

“David Golder” fu un grande successo e nel 1933 divenne il primo film sonoro del cinema francese.

Anche i successivi romanzi consolidarono la posizione di Irene Nemirowsky, ma per le modalità con le quali trattava dall’interno i suoi personaggi, quasi sempre ebrei, finì per essere accusata di antisemitismo, proprio come accadde a Hannah Arendt nel 1963, quando scrisse “La banalità del male”.

Hannah Arendt

Non c’è nulla di specifico “contro” la cultura e la comunità ebraica ma la conoscenza profonda di quel mondo che viene messo a nudo con straordinarie capacità narrative, ne esaltava spesso alcuni tratti non proprio edificanti… e forse fu anche per questo motivo che, dopo aver trovato al morte in un campo di concentramento nazista, la Nemirowsky fu praticamente dimenticata per oltre sessant’anni.

Nel 2004, la pubblicazione del suo ultimo manoscritto, “Suite francese” (affidato alle due figlie bambine, che miracolosamente si salvarono) riportò l’attenzione su di lei e la critica si accorse di aver ripescato una grande scrittrice: da lì un nuovo successo mondiale.

Suite francese” è diventato un mediocre film (con un budget di venti milioni di dollari) produzione anglo americana (2014), dove solo alcune delle trame sono state sviluppate… mentre la straordinarietà del romanzo è proprio la coralità delle vite dei personaggi davanti alla tragedia della guerra che travolge tutti.

Il banco di prova per “Suite francese”, con lo stesso tema della reazione degli uomini all’arrivo della guerra, è un altro fantastico romanzo: “I doni della vita”.

A Saint-Elme, una cittadina della provincia francese, un’intera famiglia vive in ostaggio della volontà di Julien Hardelot, un vecchio dispotico, proprietario della più fiorente industria nella regione. Il figlio Charles, orami rassegnato e debole di natura, in vita sua non è mai stato in grado di prendere una decisione autonoma: l’ultima parola è sempre stata del vecchio padre padrone. Ora che anche suo figlio Pierre, dopo gli studi si sta affacciando alla vita, vede per lui un analogo destino, impiegato nella fabbrica di famiglia come lui e promesso in matrimonio a Simòne, una ragazza del posto per nulla attraente ma con un’ottima dote, con la benedizione del nonno che già pregusta di poter ampliare i suoi affari con nuovi investimenti. Per il bene della famiglia Pierre accetta il suo destino senza discussioni, pur essendo innamorato di Agnès, un’orfana di padre di modeste condizioni. Ma ecco che la vita sorprende tutti con una soluzione inaspettata: un innocente appuntamento tra i due innamorati per dirsi addio poco prima del matrimonio di Pierre viene riferito da una domestica impicciona, dando adito a chiacchiere e sospetti.

Per la moralità dell’epoca Agnès ne esce irrimediabilmente compromessa e di fronte alla prospettiva di rovinare la vita della sua amata, Pierre, che a differenza del padre ha un carattere molto forte, rompe il fidanzamento con Simòne e la sposa.

Il “nonno padrone” non accetta l’affronto di un’opposizione alle sue volontà e Pierre viene allontanato, perdendo la prospettiva dalla sicurezza di un’occupazione nella fabbrica di famiglia.

Dopo un trasferimento a Parigi, con la forza dell’amore e con le sue capacità, troverà presto un impiego in Spagna che gli permette di mantenere la moglie e il primo figlio… ma ecco che la guerra, la prima guerra mondiale, cambia le carte in tavola e Pierre torna a Saint-Elme per affidare la moglie e il figlio ai suoi genitori, e parte per il fronte.

I doni della vita

La storia della famiglia di Pierre s’intersecherà poi con quella di Simòne, la sua moglie mancata… in uno starno destino comune.

I twist sempre sorprendenti nelle trame di Irene Nemirowsky, mi suggeriscono un finale a sorpresa per questa “contaminazione”, con tre ricette per i fusilli e una piccola storia personale.

 

Qualche anno fa, per poche ore, incontrai il proprietario di un pastificio di Barletta, Ignazio Maffei. Un amico comune ci aveva messo in contatto per la possibile sponsorizzazione di un film. La cosa non ebbe seguito ma l’incontro mi colpì profondamente: Ignazio trasmetteva una grande serenità e la sua qualità umana traspariva immediatamente, fin dalle prime parole. Qualche anno prima, per un grave incidente automobilistico, era rimasto in bilico tra la vita e la morte e da allora la sua prospettiva era cambiata.

Mi parlò di “semplificazione della vita”… del saper apprezzare quello che ogni giorni ci troviamo a dover affrontare… niente di complicato quindi, ma il linguaggio, il tono, la sua pace interiore, facevano la differenza.

In quel momento in particolare (oggi la situazione non è molto cambiata) la mia vita era piena di complicazioni a tutti i livelli… In parte lo posso imputare alle circostanze e ai lunghi strascichi di alcune scelte che ho fatto, privilegiando sempre lo spirito d’avventura, senza preoccuparmi troppo delle possibili conseguenze… e certamente c’è una responsabilità diretta per la mia incapacità tenermi lontano dai guai. Soddisfare la mia curiosità e mettermi in gioco è forse un modo per stare sempre lontano dalla “noia”, dalla prevedibilità di una vita “non spericolata”… Solo negli ultimi anni ho cominciato a pensare anche alle possibili conseguenze delle mie scelte a volte avventate, nel tentativo di limitare questa tendenza, ma spesso l’istinto è troppo forte per poterlo limitare con la razionalità.

In quell’incontro Ignazio mi parlò anche del suo pastificio, una storia familiare iniziata nel 1960 con il padre Savino. Oggi ha 105 dipendenti e 12 linee di produzione. La pasta Maffei è distribuita prevalentemente in Italia ma si sta allargando nel mondo, già in una quindicina di paesi.

pastificio maffei

Qualche mese fa in un supermercato di Roma ho visto dei “fusilli integrali” Maffei (quelli freschi da conservare in frigo) e così, dopo oltre quattro anni da quell’unico incontro, ho ripensato a Ignazio… un nome che per altro mi ricorda la famosa poesia di Garcia Lorca (“Lamento per la morte di Ignacio Sanchez Mejias”) con la voce vibrante di Arnoldo Foà in un LP che mio padre ascoltava sempre, tanto che mio fratello Alessandro ed io, marmocchi, lo conoscevamo a memoria dall’inizio alla fine.

Alle cinque della sera
Eran le cinque in punto della sera
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.

Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l
ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.

… eccetera eccetera…

Alessandro e Ferdinando Vicentini Orgnani

Ma torniamo alla pasta…

In quel supermercato a Roma feci una grossa scorta di varie tipologie di prodotti del pastificio Maffei… integrali e non.

Il giorno dopo avevo invitato a cena qualche amico e decisi di preparare dei fusilli con fave salsiccia, olive taggiasche e l’aggiunta della piccola storia del mio incontro con Ignazio.

Fusilli con fave, salsiccia e olive taggiasche

Gli ospiti apprezzarono molto la mia ricetta, la pasta del mio amico… e anche la storia. Nelle settimane successive ho provato gli stessi fusilli anche con carciofi, guanciale e ricotta di pecora e poi con pere, guanciale e pecorino, e poi le orecchiette, con le cime di rapa e al pomodoro e mentuccia.

Fusilli carciofi, guanciale, ricotta di pecora

Avevo ancora il numero di cellulare di Ignazio e pensai di chiamarlo per dirgli che ero ormai diventato un affezionato cliente del pastificio Maffei… ma poi pensai che era meglio scrivergli una mail, allegando anche una foto delle mie ricette realizzate.

Qualche giorno dopo arrivò la risposta sua risposta.

” Buongiorno Ferdinando.

Innanzitutto ti ringrazio per il contenuto della tua e-mail, sia dal punto di vista affettivo che gastronomico.

Io sto bene, cerco di non complicarmi la vita, e già questo è importante.
Ci vediamo presto.

IM

Fantastico quel “cerco di non complicarmi la vita”. In questi quattro anni Ignazio non è cambiato. Forse le nostre strade s’incontreranno ancora.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani