Gunflint, Minnesota, 1977. Il dodicenne Benjamin perde la madre in un incidente stradale. Impaziente di conoscere l’identità del padre, lascia la casa degli zii, direzione New York, alla ricerca dell’uomo. Hoboken, New Jersey, 1927. La piccola Jamie vive sola con il padre. Isolata a causa della sua sordità, si rifugia nel cinema. Decisa ad incontrare la diva del muto Lillian Mayhew, scappa su un battello verso la “grande mela”. Due vite lontane nel tempo, ma non così distanti, destinate ad incrociarsi…

Wunderkammer:stanza che raccoglie centinaia, migliaia di oggetti di diversa fattura, bizzarri, inconsueti, con lo scopo di destare ammirazione; di fatto, antesignana del museo.
Un museo è la camera in cui Ben vive, circondato da una costellazione di ricordi della madre; un museo (di storia naturale) è il luogo in cui Jamie si perde alla ricerca della “stella”, Lillian Mayhew.
In quei lunghi corridoi semibui, in quelle stanze polverose dove un meteorite ci rammenta che siamo tutti comete precipitate dal cielo al quale desideriamo ritornare, sono esposte le testimonianze dell’essere umano. Il luogo sacro alle muse (seguendo l’etimologia della parola) che ispirano stupore e che, grazie alle sue meraviglie, ci fanno tornare bambini. E sono infatti dei bambini i protagonisti dell’ultimo film di Todd Haynes – tratto dall’omonimo best-seller di Brian Selznick (che in questa occasione indossa anche le vesti di sceneggiatore).

Ben e Jamie, due intraprendenti astronauti – il leitmotiv bowieniano di Space Oddity– in cerca della famiglia perduta, in uno spazio inesplorato (New York) che, come suggerisce la citazione introduttiva di Oscar Wilde, vivono nel fango – la ragazzina sordo-muta abbandonata dalla madre e il bambino orfano, di padre sconosciuto – ma non smettono mai di guardare le stelle, di meravigliarsi.
Con uno sviluppo diacronico – già presente, anche se assai più complesso, in “Io non sono qui” (2007) –, il regista statunitense mette in scena il rito iniziatico della sorpresa e dell’incanto; per la vita, per il mondo. Traiettorie e periodi paralleli: un 1927 muto, come Jamie – bianco e nero, colonna sonora, movimenti di macchina: Haynes utilizza gli strumenti di un vero e proprio film muto, come già “The Artist” di Michel Hazanavicius (2011) – e un 1977 funky, glam, dai colori acidi e saturi – “Velvet Goldmine” (1998) –, compongono una storia narrata dal basso, dalla prospettiva dei piccoli protagonisti. Racconti speculari, come uno specchio che riflette la sua stessa immagine, destinati ad incontrarsi e nell’incontro trovare il proprio significato – la sequenza conclusiva.

In un viaggio etereo (anche temporalmente) come l’infanzia – “L’illusionista” di Sylvain Chomet (2010) –, Jamie e Ben, due frammenti dello stesso intero, due corpi astrali silenziosi, scopriranno che per affrontare il mondo e il suo incantesimo non è necessaria una voce, perché la meraviglia – “To the Wonder” di Terrence Malick (2012) – lascia a bocca aperta, non ha bisogno di parole.
Alessio Romagnoli