Will Sawyer è un agente speciale dell’FBI che perde una gamba nel tentativo di liberare un bambino tenuto in ostaggio. Dici anni più tardi è sposato con il chirurgo che gli ha salvato la vita e ha due figli. Invitato ad Hong Kong da un suo ex-collega, riceve l’incarico di collaudare i sistemi di sicurezza della Perla, il grattacielo più alto del mondo. Nel frattempo, un’organizzazione criminale assedia il gigantesco edificio, dandolo alle fiamme e intrappolando la sua famiglia all’interno. Will è il solo in grado di salvarla…
Al termine della visione, balza subito agli occhi come “Skyscraper” abbia avuto un modello preciso al quale ispirarsi. Mi riferisco al capitolo inaugurale della saga di “Die Hard– Trappola di cristallo” di John Mc Clane (1988) – che ha indelebilmente segnato il cinema d’azione degli anni ’80, e che assieme ad “Arma letale” (Richard Donner, 1987) ha disseminato lungo tutto il decennio successivo una serie consistente d’imitatori. Stesso ambiente, stesso set-up– l’attentato al palazzo -, stessa dinamica narrativa – il (super)eroe che affronta le “fiamme” del pericolo per salvare i propri cari. Ancora più evidenti, però, sono gli elementi dissonanti, che palesano il divario incolmabile tra le due pellicole.
Escape movie senza nerbo, l’opera di Rawson Marshall Thurber sacrifica il comparto action– esigui, e poco ispirati, i combattimenti e le sparatorie – a sequenze di distruzione (di massa) – l’esplosione delle turbine –, che trasformano il film in una versione scadente dei disastermovie “emmerichiani”. Non solo, accantonata ogni riflessione politica e psicologica – che fine ha fatto il senso di colpa di Will? –, abbandonata “l’identità nazionale” dei villains– nemici degli Stati Uniti apolidi, lontani, ormai, dal suolo patrio –, sedati gli atteggiamenti guasconi dei protagonisti – l’Ethan Hunt di “Mission Impossible” (1996-oggi) –, ciò che resta è una storia traboccante retorica e cliché (di genere), dove l’unico modo che un padre ha per dimostrare affetto ai propri figli è scalare a mani nude un grattacielo – ottimo il graphic-design– o rivolgersi loro attraverso imbarazzanti slogan pubblicitari – «Chi è che ama papà?!».
Sopratutto, “Skyscraper” commette l’errore di prendersi troppo sul serio, sopprimendo l’ironia e il sarcasmo. La cosa potrebbe destare stupore, specialmente osservando la filmografia del regista americano, ricca di pellicole in cui spicca il suo talento comico – “Dodgeball – Palle al balzo” (2004) o “Come ti spaccio la famiglia” (2013). Ed è ancora più bizzarro, inoltre, che il suo ultimo lavoro sia “Una spia e mezzo” (2016), primo lungometraggio del sodalizio con Dwayne Johnson e degno rappresentante del sotto-genere action-comedy. Infatti, se c’è una lezione che Thurber avrebbe dovuto apprendere dirigendo l’attore di origini samoane è che, assieme al sorriso smagliante, l’autoironia è ciò che ha reso “The Rock”, The People’s Champion, il grande wrestler, un’icona del cinema d’azione contemporaneo – “Fast & Furious 8″ di Gary Grey (2017).
Del resto rimane ben poco, se non i minuti conclusivi, una citazione hi-tech della celeberrima sequenza degli specchi de “La signora di Shanghai” di Orson Welles (1947), sufficiente a Will per liberare la propria famiglia, ma non abbastanza per salvare il film.
Alessio Romagnoli