Festival di Venezia 2018- The other side of the wind

E’ stato presentato oggi a Venezia, in anteprima mondiale il film inedito di Orson Welles. Più di 100 ore di girato montato da Bob Murawski e dal produttore originario del film rimasto incompiuto quando il maestro morì a metà degli anni ottanta.

Il protagonista è John Houston, una divinità assoluta della storia del cinema, e nella pellicola, girata in rigoroso formato academy, compaiono altri mostri sacri come Claude Chabrol.

Jake (Houston) è regista ridotto sul lastrico alle prese con la sua ultima opera rimasta (guarda caso) incompiuta a causa dell’abbandono del protagonista, fuggito dal set all’improvviso. Durante una festa organizzata per incontrare e convincere potenziali finanziatori a salvare la produzione, Jake proietta quanto è stato girato del film ad un eterogeneo gruppo di invitati. Le dinamiche tra il regista ed i partecipanti al party svelano pian piano il ritratto di Jake ed il segreto che sottende al rapporto tra lui e dil suo attore feticcio.

Singolare come l’ultima opera di Orson Welles sia profeticamente dedicata ad un’opera incompiuta. Si tratta di un mokumentary ante litteram sul mondo del cinema. Un film sul film. Una spirale autoreferzianle quale strumento per parlare non tanto della narrazione, ma del mondo del cinema stesso che viene qui ritratto come un manicomio (nella festa ci sono letteralmente nani e ballerine) che ruota attorno ad una storia, il film stesso, che senso non ha poco e spesso è noto solo al regista.

Mentre il film di cui narra la trama è a colori, le riprese della festa sono in bianco e nero. Dal punto di vista diegetico il fatto è dettato dalla mancanza di luce e dalla modesta qualità delle macchine da presa amatoriali, in realtà è funzionale a sottolineare la mancanza di vita , di colore appunto, dello squallido mondo della produzione e della finanza da cui in qualche modo il cinema dipende. In realtà le inquadrature e la fotografia è accuratamente studiata e per nulla casuale, anzi si vede l’impronta di Welles che anche in mezzo ad una fitta catena di dialoghi non rinuncia a parlare in realtà con le immagini. Lo stile appari oggi poco rivoluzionario e lo era in realtà già negli anni 80, con frequenti rimandi al Beat ed alla psichedelia, ma non era questo lo scopo dichiarato che rimane invece il parlare del crepuscolo e la decadenza di un certo cinema negli anni settanta. E’ anche una denuncia del cinismo imperante che è la vera causa del mondo in bianco e nero senza contenuti dell’industria di Hollywood.

Il tema è bene esplicitato nella prima ora di proiezione e francamente rimane il dubbio se Welles lo avesse montato proprio così. Lo spettatore esperto sa come bilanciarsi sulla poltroncina (che al palazzo del cinema di Venezia, nonostante la ristrutturazione rimangono particolarmente avare di spazio e comfort) per limitare i crampi e diminuire il rischio di trombosi. Indubbiamente un buon lavoro, ma forse non abbastanza per essere un capolavoro. Peccato quindi che fosse l’ultimo.

Brous Gandin

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KMD 2018 – CRONACHE DA UN FESTIVAL

Giorno 4 – IL BACIO MORTALE.

Giovedì, 30 agosto 2018.

Kiss me deadly. Il bacio mortale che dà il titolo alla kermesse è un’immagine sublime e iconica. Una coppia di amanti può dirci moltissime cose, ma se l’amore è tanto pericoloso da diventare deadly, mortale, ci colpisce al cuore e fa brulicare i nostri sensi, tenendoci incollati allo schermo. Nella quarta giornata di rassegna abbiamo visto amori di ogni tipo.

Il film del pomeriggio, Sui marciapiedi (Where the Sidewalk Ends) di Otto Preminger, ha chiuso la retrospettiva dedicata alla magnifica Gene Tierney. Cinque anni dopo Laura, proiettato martedì, Dana Andrews e la nostra diva tornano insieme sullo schermo, di nuovo diretti dal grande Otto Preminger, maestro del cinema noir, e di nuovo innamorati di un amore impossibile. Eppure l’amore in questo film non è il tema predominante. Come ha giustamente sottolineato un’affabile signora spettatrice della retrospettiva, Olga, alla fine della proiezione, Sui marciapiedi è soprattutto un film sul desiderio di riscatto di un uomo dal passato difficile (elemento tipico del film noir) che passa attraverso la verità e la confessione.

Nell’incontro serale, moderato da Carlo Modesti Pauer, l’atteso scrittore Marco Vichi ha parlato del suo rapporto con la letteratura, il noir e del suo ultimo libro “Nel più bel sogno”. Si è poi soffermato sulla figura del gigante Georges Simenon, indimenticabile autore di gialli (suo è il personaggio di Maigret, ma sue sono anche molte altre storie con importanti componenti noir), per cui nutre una grande passione. “In un periodo di crisi creativa”, ha raccontato, “ho trovato uno scatolone di mio padre che conteneva 76 romanzi di Maigret. Li ho letti tutti. Da lì è iniziato il mio legame con il grande scrittore”.

La serata è proseguita sulla scia di Simenon con il film di Mathieu Amalric La camera azzurra (La chambre bleue), tratto da un romanzo dell’autore belga. Il grande interprete francese (lo ricordiamo soprattutto come attore feticcio di Arnaud Desplechin) si muove abilmente anche dietro la macchina da presa, mettendo in scena un’elegante storia d’amore che è insieme un raffinato e perturbante giallo giudiziario. Il film, presentato a Cannes (Un certain regard) nel 2014 ma inedito nelle sale italiane, è ambientato in una cittadina di provincia e racconta la storia di una coppia di amanti clandestini che finisce in tragedia. Si tratta di un amore nerissimo, che non ha niente da invidiare ai grandi amori noir, su cui aleggia sempre una vena di mistero e di proibito, ma anche di amour fou totalizzante. Amalric si rivela bravissimo nel calibrare la narrazione, dispiegando i pezzi di un racconto in cui è impossibile raggiungere la verità.

Cambio di rotta invece in tarda sera con il film della mezzanotte (midnight movie) di quest’anno: Hounds of love, scritto e diretto dall’esordiente Ben Young, classe 1982, australiano. Anche in questo film, come già anticipato dal titolo, c’è l’amore in primo piano. Ma è un amore assolutamente non convenzionale: i due protagonisti sono una sorta di versione aggiornata di Bonnie e Clyde che, invece di rapinare banche, rapiscono e uccidono giovani ragazze.

Il film è perturbante e disturbante, denso di violenza (psicologica, soprattutto) e crudeltà. Funziona benissimo anche grazie alla narrazione del giovane Ben Young, che con slow motion, musica (nella sequenza finale si sente Atmosphere dei Joy Division) e uso magistrale della camera (carrelli, soprattutto) riesce a creare un mondo angosciante, asfissiante e di forte impatto emotivo sullo spettatore. La cosa che più colpisce di questo film è la protagonista femminile (Emma Booth è bravissima): una donna sola, che ama con tutta se stessa ma al contempo non può fare a meno di odiare suo marito. È intrappolata in un amore claustrofobico. Anche la sua storia, la loro storia è una storia di amore nero. “Kiss me deadly” mi sembra un’espressione perfetta per questo film.

Matteo Blanco.

Come ti divento bella! o riconquistare la fiducia in sé stessi con un sorriso

Renee ha qualche chilo di troppo e la pelle grassa. È insicura, si sente a disagio con il proprio corpo. Lavora in uno scantinato a Chinatown per la Lily LeClaire,una famosa casa di cosmetici, ma sogna un posto da receptionist negli uffici della sede centrale, tra lo sfarzo e il glamour della Fifth Avenue.
Un giorno, durante una seduta di spinning “estremo”, batte la testa e tutto cambia. È la stessa Renee di prima, ma guardandosi allo specchio si vede bellissima: il doppio mento è sparito, la pelle si è fatta velluto. Con l’autostima alle stelle, inizia una nuova vita.

Amy Schumer in una scena del film

Amy Schumer è uno dei volti comici più noti e apprezzati d’America – Inside Amy Schumer (2013-in onda), stand-up comedy vincitrice di un Emmy e di un Peabody Award. Seguendo le orme impresse sul piccolo schermo da Tina Fey (Saturday Night Live) e Julia Louis-DreyfusVeep – Vicepresidente incompetente (2012-in onda) -, l’attrice d’oltreoceano pratica una comicità battagliera, votata al turpiloquio, affrontando i temi della sessualità e dei ruoli di genere. Uno spirito “cafone” che nel cinema a stelle e strisce, da sempre, ha caratterizzato l’universo maschile – come la trilogia Una notte da leoni di Todd Phillips (2009-2013) – ma che negli ultimi anni ha provato a tingersi di rosa. La volgarità mascolina, tuttavia, sulla bocca del gentil sesso perde d’efficacia, appare innaturale (e imbarazzante) – Crazy Night – Festa col morto di Lucia Aniello (2017). In questo contesto, il grande merito della Schumer è stato riuscire a preservare, ed esaltare, la propria femminilità, reinventando una scurrilità estrogena salace e piccante – Un disastro di ragazza di Judd Apatow (2015).

TINA FEY

In Come ti divento bella! la comica statunitense smorza gli eccessi – il concorso di magliette bagnate -, frena la lingua (biforcuta), mettendo la sua verve al servizio della sceneggiatura. Con grande autoironia, Amy, il brutto anatroccolo, (di)mostra come una donna “normale”, con un po’ di pancetta e qualche brufolo, possa comunque essere attraente, sentirsi carina – l’I Feel pretty del titolo originale – in un mondo di bellezze “perfette”, statuarie (Naomi Campbell) e social (Emily Ratajkowski), prodotti della società dell’apparenza.
Escluse alcune sequenze fin troppo retoriche – come l’arringa conclusiva alla Yes we can (be pretty) -, il duo registico composto da Abby Kohn e Marc Silverstein mette in scena una commedia che, attraverso il sorriso, nutre l’autostima, insegna l’arte dell’accettazione – Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris (2006) – e demolisce quel senso d’inadeguatezza che la cultura dello spettacolo ha insinuato nel subconscio femminile – così come in quello maschile, si veda Ethan (il fidanzato zumbero e poco rude) -, ricordando ad ogni donna il fascino dei propri difetti, la sua bellezza (interiore).

 

Alessio Romagnoli