Don’t Worry

Caro formatore, forse “Don’t worry” di Gus Van Sant non è un film da utilizzare in aula, ma è un film da vedere. Non tanto per i temi moralistici o sociopolitici, che farebbero di Gus Van Sant l’ennesimo follower leftist della “Leggenda del Santo bevitore”. La critica ha sottovalutato questo capolavoro interpretandolo un atto di amore per omosessuali, diversi, disabili, oppure come una versione riscaldata della zuppa americana: “Se ci credi ce la puoi fare…”.

l’attore Joachim Phoenix (a sinistra) ed il regista Gus Van Sant

Secondo Federico Gironi (Cooming Soon) la vicenda del fumettista tetraplegico Callahan “si tramuta in un incoraggiamento a fare ciò che tutti noi dovremmo fare per vivere una vita più felice e sentirci più realizzati: smetterla di lamentarci e sentirci vittime, trovare nel mondo che ci circonda stimoli e aiuti, la forza di perdonare e di avere rispetto per gli altri e noi stessi, sorridere di fronte ai problemi e agli impedimenti ed esprimerci liberamente, per trovare così soluzioni giuste, che sono sempre possibili.”

Gus Van Sant, che ne sa di cinema, ci racconta il percorso di redenzione di John Callahan (interpretato da uno strepitoso ed irreale Jaquin Phoenix) disegnatore umoristico nato nel 1951 e scomparso nel 2010. Dopo l’incidente, a ventuno anni, John inizia un percorso di liberazione dall’alcol e, nonostante la disabilità, riesce ad ottenere la pubblicazione delle proprie vignette, poco rispettose del “politically correct”, trovando anche l’idillio con una hostess svedese.

Rooney Mara e Joaquin Phoenix in una scena del film

Ma già nella scena iniziale Van Sant ci avverte esplicitamente che la vicenda è un pretesto per un’interrogazione sul senso della scrittura, del cinema, del destino umano, “che forse non ha un senso”.  Dunque non è un film sull’individualismo americano ma all’opposto un percorso di ricerca del senso attraverso i limiti dell’umano, creatura disabile per nascita. E ci deve essere un passato, un’origine, un qualcuno che ha scritto i 12 comandamenti (dell’Anonima Alcolisti)…!!!

E l’origine è chiaramente indicata da Danny Elfmann (Jonah Hill), lo sponsor dell’Anonima Alcolisti, il demiurgo che mette in ordine le cose, all’americana, passo dopo passo. I nonni ricchissimi di Danny hanno trasmesso la ricchezza ai suoi genitori che a loro volta l’anno trasmessa a lui, figura cristologica, sceso sulla terra dall’alto per salvarci. E il “dove” è al di fuori di noi, non sappiamo dove ma certamente da qualche parte ove si capisce che Danny sta ritornando. Non sono casuali le ripetute inquadrature della bocca, del fumo, di ciò che rimanda allo spirito, alla madre del racconto, ai “genitali”. E didascalica quindi la scena dei genitali sulla bocca. Un’omaggio a “Smoke” di Wayne Wang.

Harvey Keitel in “Smoke” (Wayne Wang 1995)

Ma dunque dove possiamo cercare le risposte? In un Dio ovviamente, che ci parla tramite gli angeli e i santi, che sono ovunque. Sono gli ex alcolisti del gruppo, sono i bambini, i passanti, basta saperli interrogare, anzi basta ascoltarli, senza giudicare, senza controbattere.

E nel percorso catartico del perdono universale e del ringraziamento John Callaghan ritrova il proprio professore di disegno. E guarda caso anche lui è una creatura divina, che capisce e perdona e ricorda che il manifestarsi del talento era già chiara all’epoca del Liceo. Tutto era già scritto.

Phoenix e Van Sant sul set

Dunque il talento, e questo si è un tema per la formazione, è la nostra cifra, la nostra radice personale, ciò che può dare i frutti nelle condizioni più estreme. Non si capisce perché, da anni, gli americani ci continuino a dire: “L’importante è il talento!”, e noi continuiamo a sentire: “L’importante è la motivazione!”. Ci vorrà tempo…

Luigi Rigolio