Acqua e farina, gli ingredienti della vita.
In una grande casa vuota, un vagito rompe il silenzio. Ma non c’è nessuno, soltanto una donna cinese ed un raviolo al vapore rimasto nel contenitore di bamboo sul tavolo. Guardando meglio, però, quel dumplingha qualcosa di strano: occhi, braccia, gambe… un bambino!
Il raviolo è un neonato da accudire, ora un ragazzino che gioca a calcio nel parco, adesso un adolescente ribelle e scorbutico. Una testa di zenzero e gamberetti che “lievita” a vista d’occhio, fino al giorno in cui decide di lasciare il nido, di trasferirsi dalla nuova fidanzata. E la mamma che fino ad allora lo aveva protetto, “infarcito” con le sue coccole… “Oh, il mio fagottino!”… adesso è smarrita, non può lasciarlo andare via in quel modo. “Come ti ho fatto ti disfo!”, si arrabbia: un boccone e il piccolo torna in pancia.
Da vent’anni gli Studios di Burbank hanno avviato un programma interno all’azienda che consente ai propri dipendenti di proporre idee originali per la realizzazione di cortometraggi d’animazione. Un corto da proiettare prima di un lungo – occasione rara oggigiorno (festival esclusi) -, come “La luna” ,dell’italiano Enrico Casarosa, presentato nel 2011 assieme a “The Brave – Ribelle” di Mark Andrews e Brenda Chapman. Quest’anno, a precedere l’atteso “Gli Incredibili2″ di Brad Bird (2018) – “incredibili” sono gli effetti digitali e la cura al dettaglio, non certo il racconto, una “normale storia di supereroi” (parafrasando il sottotitolo del capitolo inaugurale della serie) -, prima del film del regista di “Ratatouille” (2007), dicevo, il pubblico in sala potrà assistere al primo cortometraggio Pixar diretto da una donna: Domee Shi – già storyboard artist di “Insideout”(Pete Docter, 2015).
Nella tenerissima opera prima della disegnatrice cino-canadese, il cibo e la cucina diventano gli ingredienti ideali per riempire un’assenza – “Soul Kitchen” di Fatih Akin (2009) -, per affrontare con delicatezza la mancanza d’amore di un genitore, la sindrome del nido vuoto. La metafora di una madre sola che sublima in una fantasia alla salsa di soia la separazione dal figlio (quello in carne ed ossa).
Bao, infatti,in cinese significa “raviolo”, ma anche “tesoro”; qualcosa di prezioso, quindi, da cuocere al vapore o da tenere al caldo per nove mesi e poi lasciare andare, via, nel mondo.
Dieci minuti (di musica e silenzi) per rappresentare un rapporto viscerale, per riallacciare un legame, perché una donna digerisca le incomprensioni dopo averne divorato la causa (il surrogato del figlio) – un ricongiungimento uterino, come in “Parla con lei” di Pedro Almodóvar (2002) –; dieci minuti per ricordare ad ognuno di noi che, a qualsiasi età, saremo sempre i “piccoli ravioli” della mamma.
Alessio Romagnoli