- Per una proposta semio-pragmatica
«La semio-pragmatica è un modello di (non-) comunicazione che presuppone che non avvenga mai trasmissione di un testo da un emittente ad un ricevente ma un doppio processo di produzione testuale: l’uno nello spazio della produzione e l’altro nello spazio della lettura. Il suo obiettivo è di fornire un quadro teorico che permetta di interrogarsi sulla maniera in cui si costruiscono i testi e sugli effetti di questa costruzione. Si parte dall’ipotesi che sia possibile descrivere ogni lavoro di produzione testuale attraverso la combinazione di un numero limitato di modi di produzione di senso e di affetti che conducono ciascuno a un tipo di esperienza specifica e l’insieme dei quali forma la nostra competenza comunicativa»
Casetti e R. Eugeni, Lo spettatore calcolato
Una domanda, a quest’altezza del saggio, sorge spontanea: dopo avere analizzato la temporalità cinematografica da un punto di vista interno al testo, che cosa accadrebbe se ci spostassimo al suo esterno? Se considerassimo, ad esempio, il lavoro (mentale) dello spettatore? Se, in sostanza, decidessimo di applicare il modello semio-pragmaticoalle considerazioni appena esposte?
A tal proposito, vorrei “azzardare” l’ipotesi secondo la quale anche il pubblico in sala, nel momento stesso della proiezione, sia soggetto ad un’esperienza temporale.
In Tempo e Racconto – Volume I(1983), Paul Ricoeur elabora la sua nota teoria sulla circolarità del processo mimetico, per la quale «il racconto ha il suo senso pieno quando è restituito al tempo dell’agire e del patire umano in mimesis III», ossia, per essere chiari, quando diventa il tramite di una rifigurazione temporale che esonda dalle sponde testuali, riversandosi nel vissuto degli esseri viventi. L’opera, secondo il filosofo francese, acquista il suo vero significato tramite la lettura (mimesisIII), solo grazie ad essa ci riappropriamo del tempo (finzionale) della narrazione.
Può, a questo punto, la tesi ricoeuriana essere tradotta in termini cinematografici? Io credo di sì.
Siete in sala, seduti su confortevoli poltroncine di pelle. Dal vostro posto, fissate lo schermo, in attesa. Quando le luci si spengono, il flusso immateriale delle immagini vi travolge, innescando un processo immersivo che vi «conduce a vibrare al ritmo degli avvenimenti fittizi raccontati» [Della finzione, Roger Odin (2004)]. Un respiro profondo e poi sott’acqua, nell’oceano della finzione – che vi consente di «vedere un mondo in luogo e al posto delle immagini sullo schermo». Raggiunti gli abissi sottomarini, attivate un duplice meccanismo d’identificazione – l’«identificazione primaria» [Cinema e Psicanalisi: il significante immaginario, Christian Metz (1977)]: dove con-divideteil punto di vista della macchina da presa (guardando ciò che essa mostra); e l’«identificazionesecondaria»:in cui vi (con)fondete con i personaggi –, immedesimazione che vi permette di “vivere” il film come se ne faceste parte. Pur essendo consapevoli di star assistendo ad uno spettacolo, decidete lo stesso di farvi ingannare da un’illusione («referenziale»).
Se queste sono le condizioni naturali, standard, della fruizione cinematografica – e lo sono, almeno secondo Odin -, allora, è lecito ipotizzare una corrispondenza tra il tempo spettatoriale e l’esperienza temporale umana.
In un film di un paio d’ore, il tempo della proiezione coincide con il tempo di visione del pubblico. Anche se all’apparenza possono apparire identiche, le due durate non hanno lo steso statuto ontologico. In quei centoventi minuti, infatti, lo spettatore abita un (e in un) altro tempo – che non gli appartiene -, sperimentandolo sulla propria pelle. In quei minuti, il flusso della sua esistenza si arresta – la magia del cinema! Ombre ingannevoli… -, è in questo che «consiste l’umanizzazione del tempo e sta il senso umano del tempo di contro alla insensata disumanità del Tempo che passa» [Lugnani]. Durante la proiezione, la storia del film diventa la nostra storia; esperiamo una temporalità altra, non-cronologica, estranea al quotidiano: lo Zeit della nostra esistenza svanisce nel preciso istante dell’identificazione con il racconto sullo schermo.
L’uomo vive l’esperienza del tempo; è lui stesso, infatti, che, tramite la propria durata interiore, risale e ridiscende la conicità. Il pubblico, al contrario, si limita ad assistere allo spettacolo cinematografico, lasciando che sia il film stesso a riordinare i fili dell’intreccio. L’istanza discorsiva ci stringe nel pugno scaraventandoci in un’altra dimensione, governata da leggi (meta)fisiche che frantumano la cronologia. In quest’universo parallelo, la nostra («tempus est») distensio animi [Agostino, Confessioni] è sostituita dalla capacità del narratore di (ri)percorrere la catena degli eventi. Anche se non riusciamo a controllarla, ugualmente, trasformiamo quel tempo nel nostro tempo – èun cosmo immanente generato dalla nostra interiorità, ci appartiene. Sulle montagne russe temporali, ci “divertiamo” come stessimo realmente vivendo quell’esperienza.
- Perconcludere
L’empiria dello spettatore – quasi fosse un’altra forma di vita (e forse lo è) -, differisce da quella dell’uomo; l’effetto complessivo, tuttavia, rimane immutato: mentre guardiamo il film, «facciamo esperienza del tempo» [Ricoeur], appropriandoci degli eventi che l’istanza discorsiva racconta.
Adesso è chiaro: varcando la soglia della finzione, il pubblico, risucchiato dal flusso narrativo, replica il medesimo processo mentale che l’essere umano attiva quando ricorda o (pre)vede gli accadimenti del vissuto, arrestando e ricreando, per il breve istante della propria esperienza, il tempo cronico della (sua) storia.
Alessio Romagnoli