Notti magiche è il quattordicesimo film di Paolo Virzì, regista livornese che esordì nel 1994 con La bella vita e che nel corso della carriera ha collezionato un bel gruzzolo di premi, tra David di Donatello, Nastri d’argento e Globi d’oro. A mio modesto parere Virzì – come ho avuto modo di dire personalmente al regista, che si è schermito con una risata! – è l’unico erede della grande commedia all’italiana degli anni Sessanta, quella che partendo dalla lezione neorealista faceva ridere (amaro) e riflettere, le cui storie erano legate dell’ esprit du temps, con personaggi dalle approfondite psicologie, conflittuali con i grandi cambiamenti della società; Oggi ci si limita all’osservazione sterile del proprio ombelico, con le stimmate dell’autorialità o a commediacce fatte con il ciclostile., lontane dalla raffinata satira di costume che fù.
Notti magiche, il cui titolo richiama la canzone colonna sonora dei Mondiali di calcio 1990 disputati in Italia, racconta in un lungo flashback la storia di tre giovani sceneggiatori vincitori del premio Solinas, accusati dell’omicidio di un produttore cinematografico avvenuto la sera che L’Italia fu eliminata ai rigori dall’Argentina di Maradona. I tre ricostruiscono la loro avventura romana davanti al maresciallo dei carabinieri, una citazione indiretta al Billy Wilder de Viale del tramonto e La fiamma del peccato, anche se non sono ne la vittima ne l’assassino che raccontano i flashback. Nella cinefilia e nell’amarcord del grande cinema italiano colto al suo crepuscolo sta il cuore del film, attraverso la descrizione dell’humus cinemaro romano con le sue figure chiave: gli sceneggiatori storici e i loro “negri” che battono frenetici i tasti della macchina da scrivere per le prime “ficction” ( due monumenti come Roberto Herlitzka e Paolo Bonacelli sono Furio Scarpelli e Ennio De Concini, e proprio Herlitzka/Scarpelli maestro di Virzì ci regala la più bella battuta del film, detta a uno dei giovani sceneggiatori chiudendogli la porta in faccia e parlando dei finali delle storie… ), un produttore cialtrone scisso tra cinema commerciale e autoriale (un grande Giancarlo Giannini che potrebbe ricordare Mario e/o Vittorio Cecchi Gori, completo di attricetta slava/Rusic), attori piangenti (si intravede fugacemente Mastroianni), un regista esistenzialista che sposa una giovane ragazza (Michelangelo Antonioni), l’ex-cascatore del cinema di genere riutilizzato come autista dal produttore, registi frustrati che inseguono il capolavoro da una vita (bel ruolo pecoreccio di Andrea Roncato), factotum che anelano al suicidio ma lo rimandano (bravo e dolente Emanuele Salce) attrici che la fanno vedere (divertente cameo di Ornella Muti), set con divi francesi e con Fellini e Benigni sulla Pontina a girare La voce della luna, sceneggiature che girano a vuoto inseguendo grandi utopici progetti e intorno tutti sosia dei grandi del cinema italiano (lavoro straordinario dell’agenzia Extras New di Roma) che si chiamano per nome di battesimo e costituiscono un gioco divertente di riconoscimento dedicato ai cinefili, riuniti in feste varie e abbuffate nei ristoranti romani (alcune riprese sono state effettuate proprio da “Checco er Carrettiere” a Trastevere). Trai sosia mi piace ricordare Erminio Bianchi, figurante che ha cominciato con i peplum ed ha attraversato cinquanta anni di cinema italiano, che “sosiava” Dino Risi.
Insomma Virzi, con l’alibi del giallo gira il suo effetto notte o il suo quattordici e mezzo, omaggia con struggente nostalgia un cinema italiano che non c’è piu’, ma – forse per l’assenza in fase di scrittura del suo sodale storico Francesco Bruni – perde il grande trasporto emotivo dei film precedenti.
Gaetano Gentile