Io sono mia

“Sai, la gente è strana: prima si odia e poi si ama”, è la prima strofa della canzone che Mia canta sul palco di Sanremo 1989 nel suo ritorno dopo sei anni di oblio; una minuta figura femminile percorre titubante deserti corridoi in penombra del teatro Ariston. La mdp (oggi telecamera) pedina e assorbe tutta l’angoscia e la gioia e la disperazione del momento.  Cosi inizia Io sono Mia, la vita di Mia Martini dal giorno in cui rientra nell’agone  dopo le  apparizioni alimentari nelle sagre di paese e una brutta depressione causata dalle cattive voci che girano sulla cantante.  Almeno tu nell’universo, scritta dal grande Bruno Lauzi e da Maurizio Fabrizio è il brano che la rilancia nell’Olimpo della musica italiana.Erano sette anni che non potevo più fare il mio lavoro, per cui ho avuto dei momenti di grande depressione. E in quel momento ho sentito “fisicamente” questo abbraccio totale di tutto il pubblico, l’ho sentito proprio sulla pelle. Ed è stato un attimo indimenticabile” racconterà in un’intervista tv.

La scelta di sceneggiatura (un buon lavoro di Monica Rametta, costretta a camuffare dei personaggi – Ivano Fossati, Renato Zero che per loro volontà non sono stati citati – si vedano i loop narrativi nel prima e dopo della relazione di Mia col fotografo) per raccontarla è un’intervista con una giornalista che a Sanremo vorrebbe incontrare Ray Charles, e deve ripiegare sulla rediviva Mia Martini. Dall’iniziale contrasto nasce un rapporto di sorellanza, e il film ripercorre la sua vita dal 1969 al 1989 attraverso diversi flashback: gli inizi difficili, il rapporto col padre ( fin troppo edulcorato per il passaggio televisivo in prime-time su Rai1, basta leggere cosa dice in proposito Loredana Berte’) fatto di un’amore (di Mia) che non riesce a contrastare l’odio violento e  l’abbandono del genitore; una storia d’amore tormentata che la sconvolge segnandola nel destino sentimentale (Ivano Fossati nella realta’ qui diventa un fotografo interpretato dall’ex jena Maurizio Lastrico, bravo a fare il falso e il geloso patologico); da notare come nel film la perdita della voce di Mia arrivi da un litigio col fotografo mentre Mia racconta  a  Noi Donne, nel maggio 1990: “quando si è opposto violentemente alla collaborazione con Pino Daniele, alla quale tenevo moltissimo, per un album che dovevo fare, questa lotta tra me donna e Mia Martini è diventata una cosa feroce. E infatti quando sono andata in sala registrazione per incidere il disco, senza Pino Daniele, mi è andata via la voce. Mi sono ritrovata con le corde vocali imprigionate in una spessa membrana formata da noduli. Pare che sia una cosa rarissima. Ci sono voluti due interventi chirurgici. Sono stata muta un anno. E non si sapeva se sarei potuta tornare a cantare”; fino ad arrivare al marchio infamante della jella che le  appiccicano addosso, condizionandone vita e la carriera.

Il film, pur con tutte le limitazioni in sceneggiatura più subite che volute, ci restituisce un bel ritratto della cantante, della sua psicologia complessa e fragile, delle sue interazioni difficili, della ferocia di un’ambiente musicale ossimoricamente ostile e cattivo. E rispolvera la memoria sui numerosi successi e collaborazioni, vedi la tourneè con Aznavour, anche grazie alla regia fluida di Riccardo Donna (all’esordio al cinema anche se solo per tre giorni), alla accurata ricostruzione scenografica dell’epoca, al lavoro certosino sui costumi e sul trucco/parrucco. Anche un’occasione per riascoltare Padre Davvero, Piccolo uomo, Minuetto, E non finisce mica il cielo, Almeno tu nell’universo, riarrangiate e risuonate da zero da Mattia Donna, tutto in analogico  e cantate superbamente da Serena Rossi, che è la strepitosa protagonista anche meglio del Rami Malek di Bohemian Rapsody !!! Da segnalare anche il bravo dogman Edoardo Pesce che fa un grande Califano che le scrive (in realtà riscrive su una complessa partitura di Dario Baldan Bembo) Minuetto, il suo 45giri più venduto. Califano in un’intervista: «…Il nostro incontro risale al ’73. Avevo appena finito di comporre “Minuetto” e sentii subito che si trattava di un pezzo del quale Mia Martini avrebbe colto perfettamente tutte le sfumature, la sua storia di amore disperato. Glielo affidai e Mia vinse il Festival d’Europa e il Festivalbar. In qualche modo ‘Minuetto’ segnò il suo grande successo, la nascita di un’interprete impareggiabile, che osservava il mondo e gli uomini con una straordinaria sensibilità. Non ci legava una frequentazione assidua, anzi sono poche le occasioni nelle quali io e Mia ci siamo ritrovati vicini a parlare di musica, di quella musica che per lei era in qualche modo uno strumento di liberazione, un modo per dimenticare…»,  e un credibile Antonio Gerardi (altra ex jena) che interpreta l’impresario Amerigo Crocetta.

Insomma questo biopic ha il pregio di  creare una forte empatia col pubblico, cosa non facile, e ci lascia con la domanda che si pone anche lo stesso regista Riccardo Donna in un’intervista a Repubblica:  “Più che la verità sulla sua vita, mi interessava riuscire a capire cosa aveva dentro lei. Io conservo la certezza che Mia Martini sia stata la più grande cantante italiana e, dopo aver fatto questo film, mi rimane una domanda. Perché Mimì non ha lottato di più? Perché ha accettato tutto questo senza reagire?”.

Gaetano Gentile

Se la strada potesse parlare

Tish e Fonny si amano, hanno vent’anni e vivono ad Harlem, il loro amore è particolare, si conoscono fin da bambini, un tempo giocavano come fratello e sorella ora sono fidanzati. La città però è dura, le discriminazioni sono vivide e crudeli e un giorno Fonny viene accusato di un crimine che non ha commesso. Tish con il fidanzato in carcere scopre di essere incinta e farà di tutto per tirarlo fuori e ricongiungere il suo sogno di famiglia.

“Se la strada potesse parlare”, scritto nello stesso periodo e a distanza di qualche settimana da “Moonlight”, parla ancora una volta del ghetto afroamericano, ma dalle luci al neon e le scelte fotografiche del film Premio Oscar, Barry Jenkins, passa ad un racconto visivamente diverso, dal punto di vista della fotografia fa una scelta forse più convenzionale ma non esente da virtuosismi.

Il racconto è quello della New York anni 70. Si parla di una storia d’amore in particolare e se in “Moonlight”, che parla anch’esso molto d’amore, c’era maggiormente la componente della formazione, in questo film si riflette più esplicitamente sulle discriminazioni razziali, a costituire anche qui un’opera sociale di minoranze, li l’omosessualità, qui il colore della pelle, che in un’epoca come quella recente dell’America di Trump, con il ritorno degli estremismi di destra, dei movimenti neonazisti, xenofobi e razzisti, porta con sé una missione più che necessaria.

Barry Jenkins, che qui riadatta per il cinema l’omonimo romanzo di James Baldwin, alla prima trasposizione cinematografica in lingua inglese, confeziona il suo film-tributo allo scrittore di culto afroamericano. Riesce a rendere le sue parole e la poesia delle emozioni con le immagini, con il pathos dei passaggi al rallenty e i suoni che valorizzano aspetti di quel mondo “black” e della relazione d’amore fra Tish e Fonny. Perciò con la macchina da presa sta vicino ai personaggi, ne coglie i respiri e le movenze, si poggia sui loro corpi, alterna l’intimo delle inquadrature strette ai campi lunghi della narrazione sociale sulle strade di Harlem.

Ritorna più forte che mai un tema caro a Jenkins: la famiglia. Oltre all’amore di coppia, il regista di “Liberty City” racconta ancora una volta la famiglia afroamericana, l’amore di una mamma, di una sorella e di un padre, filtrate dalla vita difficile nel ghetto. Così la forza di reagire con i propri cari, facendosi forza in gruppo.

I due giovani interpreti fanno un grande lavoro nel film, ma anche le parti di supporto (una su tutte Regina King che interpreta Sharon Rivers, la madre di Tish) vanno a rinvigorire una prova attoriale di insieme veramente importante. Jenkins incasella un’altra prova importante, un regista giovane che ha già fatto vedere molte cose interessanti, saremo curiosi di vedere l’evolvere della sua opera a venire. La giovane Kiki Layne buca letteralmente lo schermo, sentiremo parlare a lungo di lei.

Una storia d’America, dei neri d’America, fatta di forza, di battaglie e di speranza. Quello che passa oltre ai pregiudizi razziali è un film di amore e umanità nonostante tutto, un messaggio di speranza c’è sempre seppur quasi soli in un mondo di troppe persone meschine e crudeli.

Lorenzo Ceotto