Leggere che Carlo Verdone e persino Gianpaolo Letta, dopo un silenzio durato anni, si siano decisi ad avallare le mie considerazioni sulla legge Franceschini e sulla crisi del settore, mi riempie di soddisfazione e nello stesso tempo mi crea un istintivo pessimismo sulla lealtà delle persone e sulla prevalenza dell’opportunismo.
Letta ha sempre partecipato, ovviamente come protagonista, agli sviluppi del settore, potendo scegliere la politica di una azienda che non ha bisogno di nulla, in quanto ha alle spalle un gigante televisivo che può digerire nel suo corpaccione qualunque prodotto, bello brutto o pessimo.
Non voglio ripetere quello che ho già ampiamente descritto, ma torno a sottolineare che il settore dell’audiovisivo è stato sempre prerogativa di uomini politici potenti, che hanno valutato per i loro eredi i vantaggi di un ambito molto elastico, che non necessita di specializzazioni, che consente errori e che dà comunque autorevolezza. Non è un caso che si ritrovino tutti tra televisione e cinema, ma non da indipendenti, bensì da dipendenti, da capi, capistruttura, amministratori delegati, presidenti o cariche similari.
Per carità, nulla di sorprendente, ma anche questa è una delle caratteristiche che rende il settore spettacolo, in Italia, incapace di quegli adattamenti e di quella sensibilità necessari per anticipare e controllare i gusti del pubblico e per ottenere in sostanza i dovuti ricavi.
Se i fortunati personaggi sono comodi nelle loro poltrone, non c’è alcun motivo per loro di creare inutili agitazioni, e seguire la corrente e le indicazioni del ministro è certamente la strada più semplice.
Persino Rutelli ha capito che il settore era quanto di più accogliente potesse servire per un atterraggio morbido nella vecchiaia, e infatti l’Anica ha perso qualunque valenza rappresentativa vera, rimanendo una associazione utile per le formalità.
Ma se anche Letta si associa a Verdone nella critica più tardiva, vuol dire quantomeno che qualcosa è successo, che il disastro creato da Franceschini è finalmente visibile, che prima che il settore collassi è opportuno salvare la poltrona.
Verdone dice che i film si scrivono in sette giorni, e non è difficile sostenerlo se è vero che nei bandi, peraltro folli, destinati alle sceneggiature, ne arrivano quattro/cinquecento, che dovrebbero essere lette dalle apposite commissioni. La scrittura non conta, contano solo il tax credit e l’intervento statale.
Letta dice che abbiamo svenduto l’Italia agli stranieri: ma lo sa che gli stranieri comprano le società italiane che hanno rapporti intimi e collusori con le emittenti televisive? Vogliamo fare una scommessa? Se Rai e Mediaset smettessero di sovvenzionare queste società, quanti stranieri resterebbero in Italia? E vogliamo esaminare quante società italiane hanno ruoli determinanti all’estero? Quali sono gli Stati che concedono il 40% di tax credit ad una società posseduta da soci esteri italiani?
Solo noi abbiamo la capacità di dare in locazione quasi il 50% degli studi di Cinecittà ad una azienda straniera, che poi affitta gli spazi agli italiani!
C’è un eccesso di ipocrisia, di opportunismo e di impunità in quello che succede da noi: Letta chiede ancora soldi al ministro, Tozzi, uno degli ex dirigenti Mediaset, ex presidente di Cinecittà, che ha venduto parti della sua società a chiunque fosse straniero incassando ogni volta cifre sostanziose, dice che va bene così, che il prodotto deve essere “glocal”, internazionale, adatto alle logiche sopranazionali, e soprattutto agli algoritmi che Netflix e Amazon stanno dettando al mondo.
Non è così, Tozzi difende le sue strategie, ma Netflix, la superpotenza senza telefono, la società occulta, non è diversa da Technicolor o Kodak, che ai tempi sembravano colossi e sono scappate dall’Italia come ladruncoli: anche Netflix ha bisogno di prodotto interessante, attraente, e l’algoritmo non è capace di andare oltre la convenzione.
Noi, quando esistevamo, abbiamo avuto Fellini, che nella sua immensa libertà faceva fallire tutti i produttori, abbiamo avuto Giovanni Bertolucci e Leo Pescarolo incapaci di calcoli economici ma straordinari artisti, Adriano De Micheli che con i suoi “Profumo di donna”, “C’eravamo tanto amati”, ma anche con “Sapore di mare” non sbagliava un film, abbiamo avuto Cristaldi, Ponti, De Laurentis, ma anche Alabiso, Zingarelli, Martino e tanti altri che potevano essere definiti produttori indipendenti e lo erano realmente.
Bisogna sottrarre la settima arte ai burocrati, ai raccomandati e agli algoritmi, e soprattutto bisogna smettere di pensare che cinema e televisione siano fruizione dello stesso prodotto, perché non è vero.
Il cinema moltiplica il lavoro dei neuroni/specchio tramite il buio e l’immobilità, e permette una maggiore condivisione delle emozioni, ovviamente se ci sono. La televisione distrae, mortifica, tiene compagnia.
Il film pensato, scritto, diretto e interpretato con grande professionalità trova nella sala, nel buio, la sua migliore espressione e in televisione la peggiore: un film modesto può andare ovunque, ma al cinema, in sala, al buio, trova la sua peggiore utilizzazione.
Se poi, per concludere, vogliamo parlare proprio delle sale, bene è utile sapere che a Parigi ci sono circa 95 sale autonome, che sopravvivono tranquillamente alcune con le seconde visioni, alcune con i classici, alcune con i cibi e le bevande.
Anche l’esercizio deve trovare una sua indipendenza e professionalità, deve poter attrarre: troppo facile guadagnare solo con i film campioni d’incasso, che pur ci sono e ci saranno.
Ma basta con i contributi a pioggia, che sono veleno a lento rilascio, penalizzano le azioni e alla lunga uccidono.
Se una sala, per ubicazione, nuova urbanistica, dimensioni non funziona più va trasformata in qualcosa di utile per il quartiere.
È bene riconnettere la parola cinema al concetto di cultura, ma non quella paludata, severa, che incute soggezione: è cultura conoscere personaggi, situazioni e ambienti, lo è ripassare la storia e le emozioni, lo è anche assorbire la bellezza che non si trova facilmente. Cultura è vivere serenamente un intrattenimento di buon livello che valga il prezzo di un biglietto.
Avv. Michele Lo Foco