Brand e influencer

Due termini si sono imposti in questi ultimi anni nel settore spettacolo, raccogliendo consensi, movimento di denaro e curiosità: brand e influencer.

Cos’è un brand? Un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno o una combinazione di questi che mira a identificare i beni o i servizi di un venditore o di un gruppo di venditori e a differenziarli da quelli dei concorrenti.

Visto dalla parte dei clienti il brand è il modo in cui viene percepita l’azienda.

Entrando più approfonditamente in questo ambito e in quella attività che si chiama marketing, la forza del brand è affermare il carattere dell’azienda e pertanto le sue caratteristiche, come se l’azienda fosse una persona fisica con le sue capacità e prerogative.

Più la costruzione del brand è lenta, costante, penetrante, e più le caratteristiche dell’azienda rimangono indelebilmente legate ad esso, e accompagnano le attività in una continua riaffermazione dei valori che i titolari hanno voluto imprimere e far conoscere.

Ma questi valori, e qui entriamo nella sfera dello spettacolo, tendono a fuoriuscire dall’ambito aziendale per travasarsi nella personalità degli individui, che incapaci di affermare proprie caratteristiche, assumono il brand aziendale per calarsi nella sua capacità di riconoscimento, che può essere diversa secondo la tipologia dell’oggetto usato.

In questo senso il brand compie un miracolo, esce dall’azienda per definire la personalità di una persona, si umanizza: l’individuo non è più anonimo, è ricco se indossa un brand di lusso, è sportivo se indossa un brand legato allo sport, è strano se il brand è rivoluzionario, è classico se il brand è di vecchia scuola. Una borsa basta ad affermare il proprio stato sociale, le scarpe da ginnastica, una volta mezzo miserabile, servono per affermare la propria gaiezza, l’orologio determina il tuo conto corrente.

Il brand colpisce poveri e ricchi, i primi con una maglietta con scritto Missoni e i secondi con una barca a vela Perini, ed entrambi vogliono comunicare qualcosa.

Pochi elementi “social” sono così poco intelligenti come i brand, fantasmi di qualità esibite, illusioni immobili di virtù altrui, paradigmi ottusi con i quali ornare la propria inettitudine.

Influencer è invece colei, più che colui, che con il suo comportamento induce qualcuno ad imitarla, una specie di punto di riferimento, l’apice della piramide.

Per diventare influencer è necessario ricorrere ai mezzi più efficaci per farsi notare, in primo luogo spogliarsi. Una influencer non è tale se ogni quindici giorni non pubblica il suo corpo esposto in qualche modo: nulla di particolarmente nuovo, il corpo femminile ha sempre creato pulsioni, ma in un mondo così liquido la nudità senza contatto, visiva, insinuante, provocatoria, costruisce illusioni, istiga, è trainante per imporre moda, per scatenare i brand. Ed ecco che l’influencer diventa mezzo per propagare il brand, ed il brand si appropria del corpo dell’influencer: insieme danno l’assalto alla società, con fotografie, libri, discorsi demenziali, ed una moltitudine di esseri inermi, abbacinati dal lusso e dalla nudità, diventano followers, seguaci, fino al risveglio.

Il mondo dello spettacolo, della televisione in particolare, si arrende agli influencer ed ai brand, ai soldi ed al mercato. Invece di costruire la storia con grandi divulgatori, come Galimberti, approfitta della insignificante parabola di donne che non sanno fare nulla, se non vendere corpo e brand, per guadagnare l’attenzione dei giovani ormai assuefatti e pilotati.

Anche il cinema ha subito un attacco frontale dalle influencer ma lo ha formalmente respinto, perché in definitiva nel film è necessario recitare, e recitare anche poco, anche male, è pur sempre un lavoro.

Il brand invece, con il product placement, ha fatto un significativo ingresso nello spettacolo, aprendo le porte a quei capitali pubblicitari che prima erano riservati alle televisioni.

Oltretutto, quando scrissi l’articolo di legge, spiegai che il mondo era ormai tappezzato di marchi e di simboli e che evitarli era una inutile fatica.

Avv. Michele Lo Foco

John Wick 4

JW4

Diretto da: Chad Stahelski

Laurence Fishburne as Bowery King, Keanu Reeves as John Wick, and Ian McShane as Winston in John Wick 4.

Con: Keanu Reeves, Donnie Yen, Bill Skarsgård, Laurence Fishburne, Hiroyuki Sanada, Shamier Anderson, Lance Reddick, Rina Sawayama, Scott Adkins e Ian McShane.
Il quarto capitolo, più che film è un videogioco sparatutto, ricordiamo alcuni di essi: Call of Duty Vanguard, Battlefield 2042, DOOM Eternal, il numero è infinito, ma ci sarebbero anche Zombie Hunters e a questo punto i chapters JW4 non finiranno mai.

Keanu Reeves as John Wick in John Wick 4.

Se la tua passione per il videogioco/film è questa, non perderlo: tra spade, pistole e mitra che sparano proiettili che non bucano ma bruciano, pugnali e ogni tipo di arma (cosiddetta) bianca, non ti stupirà una lotta senza quartiere e senza fine, aggiungiamo anche il vestito che ti aiuta come una corazza, dei grandi cavallieri, ma molto più à la page oserei dire da firma di alta moda.

Keanu Reeves as John Wick in John Wick 4.

Un finale da decatleta, con i 220 scalini da raggiungere, alla Sisifo, come un moto perpetuo senza essere stato maledetto dagli dei, ha occupato gran parte del finale con un saliscendi che avrebbe sfinito anche un semidio come è stato Ercole con una delle sue sette fatiche: “la scalinata” mancata!

La domanda che mi pongo al di fuori del film è il bollino (ora si identifica in questo modo la visione per età) 6+, mah!!

Inoltre i 169 minuti, certo non è l’unico film ad avere una durata di queste dimensioni ma con un tema da sparatutto è eccessivo, già dimenticavo la sudditanza oramai palese delle piattaforme streaming che prediligono i lungo-lungometraggi.

Rina Sawayama as Akira Shimazu and Hiroyuki Sanada as Shimazu in John Wick: Chapter 4.

Al cinema dal 23 marzo

Giovanni De Santis