Il primo film dei fratelli Lumiére ritrae i propri operai che escono dalla fabbrica (“L’uscita dalle officine Lumiere” girato il 19 marzo 1895). Tutto soggetto, niente sceneggiatura, minima regia (giusto piazzare la macchina da presa), nessuna recitazione. Così il primo film della storia del cinematografo ad essere proiettato il 28 dicembre del 1895 al Grand Cafè sul Boulevard des Capucines di Parigi era un documentario e forse ad esser pignoli nemmeno quello.
Ma almeno, di tanta pochezza, si poteva chiaramente individuare nei due fratelli gli indiscussi autori. Ben presto le cose si complicarono ed iniziò una disputa che vede contrapposti da allora registi e sceneggiatori. Entrambi rivendicano la paternità delle opere filmiche con legittime argomentazioni, delle quali ancora ai nostri giorni nessuna è risultata definitiva. In Francia, negli anni 30, si considerava lo sceneggiatore come l’autore del film e nomi come Spaak, Aurenche, Jeanson o Prévert erano noti tanto quanto quello dei registi (metteur en scene in francese), di cui per par condicio e per non apparir schierati citiamo la pattuglia del realismo poetico: Jacques Feyder, Julien Duvivier, Marcel Carné, Jean Renoir e Jean Vigo.
Oltreoceano, nello stesso periodo, il sistema degli Studios avevano relegato sia l’uno che l’altro dei ruoli a meri meccanismi dietro le quinte del processo produttivo a cui era negata la luce dei riflettori, tutti puntati sulle star. Fu il grande regista Frank Capra a conquistare per sé la posizione predominante in cartellone ponendo il suo nome sopra il titolo. La cosa che oggi è divenuta consuetudine iniziò come un gesto rivoluzionario che in precedenza era stata episodicamente tributata solo a D.W. Griffith e Cecil B. DeMille. Poté farlo perché a metà degli anni trenta aveva inanellato una serie di successi senza eguali (ben 31 nomination e 6 oscar in 5 anni dal 1936 al 1941) e forse perché ai tempi lavorava per la Columbia, tra le più piccole delle major.
Si parlava così tanto del Capra’s Touch che Robert Riskin, il suo sceneggiatore di fiducia di allora, gli mandò una risma di 120 pagine rigorosamente bianche, tranne il frontespizio dove aveva scritto “Caro Frank, applica dunque il tuo celebre touch a questo.” Anche altri sceneggiatori americani avrebbero potuto replicare uno scherzo simile ai propri registi di riferimento. Dudley Nichols che scrisse almeno 30 sceneggiature di altrettanti capolavori avrebbe potuto inviare la sua risma bianca quantomeno a John Ford (Ombre Rosse), Howard Hawks (Susanna) e Fritz Lang (Duello Mortale). Mentre Charles Bennet scrisse i film che lanciarono Alfred Hitchcock (“Ricatto” 1929; “L’Uomo Che Sapeva Troppo” 1934; “Il Club Dei 39” 1935 e “L’Agente Segreto” 1936).
Alla fine degli anni ’50 sempre in Francia si ribaltano i tavoli e la Nouvelle Vague ristabilisce il regista come autore dell’opera filmica. Il termine autore cessò quindi di indicare lo sceneggiatore/dialoghista. Il farsi strada poi di registi che scrivevano anche le proprie sceneggiature contribuì a sbiadire la figura dello sceneggiatore puro; dello sceneggiatore magari ma non della sceneggiatura. Akira Kurosawa sosteneva che se si vuole diventare registi, la prima cosa da fare è padroneggiare la scrittura. Gli fa da contraltare Tim Burton che invece ha detto “non riconoscerei una buona sceneggiatura, neppure se mi colpisse in faccia.” Fellini dal canto suo si trovava bene a collaborare con gli sceneggiatori e lavorava a braccetto con Tonino Guerra, sceneggiatore di Amarcord (1973), Ginger e Fred (1985) e di E La Nave Va (1983).
Se vogliamo venire ad una conclusione, ammesso che sia possibile, possiamo trovarla in questa osservazione tratta da “Approche du Scénario” di Dominique Parent-Altier ( 1997 Edition Nathan, Paris): “uno sceneggiatore intraprende l’atto di scrivere ma la sua opera compiuta, il prodotto finito, non è disponibile in quella forma”. Un po’ come Mosé lo sceneggiatore conduce il proprio popolo sulle rive del Giordano, ma non gli è permesso attraversarlo, egli è si l’autore del film sulla carta, ma portare la storia dallo scritto all’immagine è opera del regista. D’altro canto un film è un’opera corale e pertanto vanta molti amorevoli genitori. Oltre a regista e sceneggiatore, si pensi al direttore della fotografia, al montaggio, ai costumi, alla scenografica e via ad elencare tutto il cast tecnico ed artistico, ma è indubbio che un posto d’onore va a chi riesce ad inanellare con un filo conduttore tutte queste perle di talento e professionalità, ovvero il regista che non a caso nel mondo anglosassone è chiamato “director“. Citiamo Capra quando dice, riferendosi al regista, che “Ci può essere un solo capitano in una nave”. Se il produttore è assimilabile all’armatore, nella metafora di Capra il regista è il capitano della nave e sul set, come sulla tolda di una nave, egli è un dio.
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