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Aquaman, un fantasy kitsch sommerso

1985, Maine; Thomas Curry, guardiano del faro di Amnesty Bay, s’innamora di Atlanna, regina di Atlantide, emersa dagli abissi per sfuggire agli obblighi nuziali della successione al trono. Dall’amore tra i due nasce Arthur, meta(/à)-bambino in grado di comunicare con gli animali marini e nuotare a velocità supersonica.

Oggi, dopo la battaglia contro Steppenwolf – “Justice League” di Zack Snyder (2017) -, il piccolo sirenetto (s)veste i panni di Aquaman, supereroe salmastro, paladino delle Acque.
Ma dai fondali infuria la guerra. Orm, fratellastro del “mezzo pesce”, è deciso a riunire i regni subacquei e a muovere guerra contro la superficie, così da riconquistare la Terra(ferma) perduta millenni or sono.

Con l’aiuto di Mera, promessa sposa recalcitrante del futuro Ocean Master, Arthur dovrà sventare l’invasione, affrontando le proprie paure e dimostrandosi degno del trono di Nettuno.

Con la sua ultima “impresa” – da un miliardo di dollari d’incasso -, il Master of Horror (2005-2007) James Wan – da SawL’enigmista(2004) a The Conjuring – L’evocazione (2013) -, schiacciando il pedale della spettacolarizzazione – Fast & Furious 7(2015) -,mette in scena un’epica subacquea scanzonata, dall’intreccio convenzionale, “annacquato” (letteralmente); un lungometraggio ricco di combattimenti – con un comparto action“fluido”, che segue la rotta tracciata da Matthew Vaughn in “Kingsman: Secret Service”  (2014) – e travolgenti mischie igroscopiche – lo scontro sulla piana dei Brine, versione oceanica della Battaglia dei Campi del Pelennor de Il signore degli anelli – Il ritorno del re di Peter Jackson (2003).

James Wan con gli attori sul set

Un fantasy kitsch più che un superhero movie– i “fondali” turneriani; la colonna sonora, patchworkpop di “cattivo gusto”-, che inizia (e si conclude) come una favola – l’unione plebea tra il guardiano del faro e la regina atlantidea -, trasformandosi, con l’alta marea – la salvezza dell’umanità -, in una graphic novel dalla tavolozza (digitale) accesa – “Il regno di Ga’Hoole – La leggenda dei guardiani” di Zack Snyder (2010) –; l’“acquerello” di uno caleidoscopio mondo sommerso, che con i suoi frattali verde-oro – il costume-muta del protagonista – ipnotizza lo spettatore.
Il racconto adamitico del “Difensore” degli abissi – Namor warneriano -, che, come di consueto oramai, cerca di non prendersi troppo sul serio – Avengers – Infinity War di Joe e Anthony Russo (2018).
Il tassello mancante per rimpolpare lo scarno DCEU – DC Extended Universe –, in attesa delle altre pellicole della serie: la“Fase II”, come la definirebbe Kevin Feige.

Una sorsata, tutta d’un fiato: scende liscia, rinfresca, ma disseta giusto il tempo del film, non lascia tracce, non ha sapore… è solo acqua(man).

 

Alessio Romagnoli

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