Tish e Fonny si amano, hanno vent’anni e vivono ad Harlem, il loro amore è particolare, si conoscono fin da bambini, un tempo giocavano come fratello e sorella ora sono fidanzati. La città però è dura, le discriminazioni sono vivide e crudeli e un giorno Fonny viene accusato di un crimine che non ha commesso. Tish con il fidanzato in carcere scopre di essere incinta e farà di tutto per tirarlo fuori e ricongiungere il suo sogno di famiglia.
“Se la strada potesse parlare”, scritto nello stesso periodo e a distanza di qualche settimana da “Moonlight”, parla ancora una volta del ghetto afroamericano, ma dalle luci al neon e le scelte fotografiche del film Premio Oscar, Barry Jenkins, passa ad un racconto visivamente diverso, dal punto di vista della fotografia fa una scelta forse più convenzionale ma non esente da virtuosismi.
Il racconto è quello della New York anni 70. Si parla di una storia d’amore in particolare e se in “Moonlight”, che parla anch’esso molto d’amore, c’era maggiormente la componente della formazione, in questo film si riflette più esplicitamente sulle discriminazioni razziali, a costituire anche qui un’opera sociale di minoranze, li l’omosessualità, qui il colore della pelle, che in un’epoca come quella recente dell’America di Trump, con il ritorno degli estremismi di destra, dei movimenti neonazisti, xenofobi e razzisti, porta con sé una missione più che necessaria.
Barry Jenkins, che qui riadatta per il cinema l’omonimo romanzo di James Baldwin, alla prima trasposizione cinematografica in lingua inglese, confeziona il suo film-tributo allo scrittore di culto afroamericano. Riesce a rendere le sue parole e la poesia delle emozioni con le immagini, con il pathos dei passaggi al rallenty e i suoni che valorizzano aspetti di quel mondo “black” e della relazione d’amore fra Tish e Fonny. Perciò con la macchina da presa sta vicino ai personaggi, ne coglie i respiri e le movenze, si poggia sui loro corpi, alterna l’intimo delle inquadrature strette ai campi lunghi della narrazione sociale sulle strade di Harlem.
Ritorna più forte che mai un tema caro a Jenkins: la famiglia. Oltre all’amore di coppia, il regista di “Liberty City” racconta ancora una volta la famiglia afroamericana, l’amore di una mamma, di una sorella e di un padre, filtrate dalla vita difficile nel ghetto. Così la forza di reagire con i propri cari, facendosi forza in gruppo.
I due giovani interpreti fanno un grande lavoro nel film, ma anche le parti di supporto (una su tutte Regina King che interpreta Sharon Rivers, la madre di Tish) vanno a rinvigorire una prova attoriale di insieme veramente importante. Jenkins incasella un’altra prova importante, un regista giovane che ha già fatto vedere molte cose interessanti, saremo curiosi di vedere l’evolvere della sua opera a venire. La giovane Kiki Layne buca letteralmente lo schermo, sentiremo parlare a lungo di lei.
Una storia d’America, dei neri d’America, fatta di forza, di battaglie e di speranza. Quello che passa oltre ai pregiudizi razziali è un film di amore e umanità nonostante tutto, un messaggio di speranza c’è sempre seppur quasi soli in un mondo di troppe persone meschine e crudeli.
Lorenzo Ceotto