Berlinale 74 – And the winner is…

L‘Orso d’Oro va a Dahomei di Mati Diop, un docufilm che racconta la storia delle opere d’arte restituite al Benin nel 2021 dopo essere state rubate dai colonizzatori francesi nel XIX secolo.

L'Orso d'oro va a “Dahomey” di Mati Diop - Il Sole 24 ORE

Senza nulla togliere alla pellicola e alla sue sfumature anticolonialiste, altri film avrebbero meritato L’Orso d’Oro come Sterben che si é dovuto ‘accontentare’ del premio per la migliore sceneggiatura.A Traveler's Needs' Review: An Airy Hong Sangsoo PuzzleAbbastanza inspiegabile anche il secondo premio al film A Traveler’ s Needs di Hong San-soo che manca ancora una volta l’Orso d’Oro e conquista il quarto Orso d’Argento.

I due film italiani rimangono a bocca asciutta.

Grandi numeri per i biglietti venduti e la presenza molto alta e in crescita rispetto allo scorso anno al Mercato.
È anche l’ultimo anno del direttore Chatrian che ha voluto dare negli anni del suo mandato al Festival un taglio più autoriale, ‘locarnesco‘,  trovandosi schiacciato tra Cannes e Venezia che ormai la fanno da padroni nella scelta dei film delle kermesse.

Qualunque sia la valutazione finale é certo che il cinema, che qualcuno aveva visto in crisi con la Pandemia, é più vivo che mai. Ancora una volta sfatiamo con piacere la celebre frase dei fratelli Lumière ripresa da Jean-Luc Godard nel 1963 “Il cinema è un’invenzione senza futuro” .

Grande e lunga vita alla settima arte.

 

 

 

 

Serena Pasinetti

Berlinale 74 – spunti e riflessioni, parte 2

Distopie, famiglie disfunzionali, contaminazione di generi cinematografici

Alcuni esempi:
Another End di Piero Messina è un film distopico con atmosfere cupe fantascientifiche che evolve in uno struggente melodramma.

Sterben è un film drammatico che ti accompagna per tre ore con graffiante ironia attraverso le vicende di una famiglia disfunzionale.

L’ Empire è un visionario film, un fantasy dove si alternano mondi paralleli, in lotta, tra la commedia e il dramma.

Une Langue Etrangère è un film con tutti – ma proprio tutti – gli stereotipi di due famiglie disfunzionali.

The Human Ibernation è un film ambientato in periodi di tempo indefinibile, di genere drammatico fantascientifico con presenza di famiglie non tradizionali. Ha vinto il premio Fipresci.

Arcadia è una drammatica love story, senza tempo, che tramite il porno si trasforma in una ghost story.

Per quanto riguarda esempi di denuncia sociale e politica citiamo il notevolissimo The Strangers’ Case sulla tragedia siriana che fa del dramma un film tesissimo quasi da thriller.

 

 

 

 

 

Pia Larocchi & Serena Pasinetti

BERLINALE 74 – Commenti e riflessioni

La distopia e la famiglia disfunzionale alla Berlinale 74.

Un fil rouge continua ad attraversare i vari festival cinematografici, quello di presentare film sviluppati secondo le tematiche della distopia e della fuga dalla realtà: famiglie disfunzionali, mondi distopici e proiezioni lontane nel tempo sia passato sia futuro.
In pieno cinema postmoderno, da una parte salta il concetto di tempo e spazio tradizionale per essere sostituito da continui backward e forward in mondi paralleli, dall’altra saltano i generi cinematografici evidenziati per un singolo film (spesso generi diversi vengono individuati per un unico film)-

Lo sconcerto dello spettatore non è altro che lo sconcerto dell’umanità da una parte verso un mondo che è sempre più arricchito da ricerche e innovazioni scientifiche divulgative e da mezzi di comunicazione sempre più sofisticati, dall’altra da nefandezze totali antiche e indistruttibili come le guerre e i delitti contro l’umanità e gli ambienti (flora e fauna in primis e non ultimo il clima).
Oggi il cinema riflette la realtà.
Non mancano esempi importanti di denuncia sociale e politica che si accompagnano sempre a festival cinematografici come nel caso della Berlinale.

 

 

Pia Larocchi e Serena Pasinetti

Al via le riprese del secondo film di Gianluca Vassallo

Sono iniziate questa settimana a Milano le riprese del film Il Posto (titolo provvisorio), scritto e diretto da Gianluca Vassallo (al suo secondo lungometraggio dopo La Sedia), prodotto da White Box Studio.

Vassallo liberamente interpreta e omaggia i 50 anni di DEGW, società di progettazione specializzata in luoghi di lavoro. L’opera di finzione nasce su incarico di Lombardini22, azienda di architettura e ingegneria leader nella progettazione integrata.

Dopo i giorni di set inglese dello scorso dicembre, tra Londra e Reading (vecchie sedi di DEGW), le riprese proseguono in Italia, a Milano (tra le location principali, gli uffici di Lombardini22) e a Cagliari, e termineranno la prima settimana di febbraio.

È la storia di Pietro (Michele Sarti), un regista appena affermato alle prese con la ricerca di un produttore per il suo prossimo film, che viene chiamato da DEGW per realizzare un documentario sui 50 anni d’attività. La sua resistenza iniziale lascerà il posto a un progressivo coinvolgimento nella storia della società, che si dipana per indizi e frammenti in un racconto intrecciato con le vicende personali del regista, fino a una inaspettata comprensione della sua storia familiare e della sua stessa esistenza: un legame a doppio filo con uno dei primi cimenti del gruppo di progettazione fondato da Francis Duffy, Peter Eley, Luigi Giffone e John Worthington.

 

 

Nel cast, sono coinvolti anche collaboratori e soci di DEGW nel ruolo di loro se stessi: Alessandro Adamo, partner di Lombardini22 e Direttore di DEGW, Franco Guidi, Amministratore Delegato di Lombardini22, Alessandra Di Pietro e Michele Calzavara, architetto e consulenti di DEGW.

 

La direzione

OSSERVAZIONI SUL TORINO FILM FESTIVAL 2023

Osservazioni sulla manifestazione del Torino Film Festival, innanzi tutto, si tratta di un festival con un’offerta molto vasta e variegata, forse troppo.
Per soffermarci sul concorso, la vittoria è andata immeritatamente al film ucraino La Palisiada. D’altra parte, hanno vinto due premi importanti, questa volta meritatamente, i film Le ravissement, francese, e Birth, coreano.

Torino Film Festival 2023: le date ufficiali della 41° edizione (24 ...
Entrambi hanno come contenuto il mondo femminile in rapporto alla maternità, vista come blocco alla creatività personale della donna e anche come smitizzazione del “desiderio innato” di essere madre. Sono poi presenti figure maschili in crisi (meno male) o quanto meno messe in discussione nel loro ruolo paterno.
I due film sono da vedere appena usciranno; per ora prendetene nota.
La tematica della maternità è tornata comunque in altri film della rassegna.
Molto interessante la presenza del cinema argentino, segnale di grande vitalità.
Anche il festival di Torino, come quello di Venezia, ha avuto un notevole incremento di spettatori.

Serena Pasinetti

A STRANGER QUEST

un film di ANDREA GATOPOULOS

A Stranger Quest, scritto e diretto da Andrea Gatopoulos, sarà presentato in concorso nella sezione Documentari Italiani al 41esimo Torino Film Festival, in anteprima assoluta per il pubblico, giovedì 30 novembre alle ore 19.30, al Cinema Romano 1.

Il documentario è prodotto da Il Varco Cinema, di cui Gatopoulos è cofondatore, e da Kublai Film, e sarà distribuito nel circuito dei festival internazionali da Gargantua Film Distribution.

La storia – Dopo aver trascorso gli ultimi trent’anni ad accumulare una delle più grandi collezioni di mappe al mondo, che segretamente chiama la sua “poesia”, David Rumsey, sul punto di compiere ottant’anni, si misura con i fantasmi della sua vita e con la fine sempre più vicina. Confrontandosi con ricordi e affetti, aiutato da oggetti, persone e intelligenze artificiali, in un personale viaggio tra luoghi fisici e virtuali, ritrova lo slancio per una nuova sorprendente avventura.

Il progetto – Nell’età dei satelliti, dove la Terra è esplorabile con uno smartphone e i viaggi spaziali si sono rivelati sempre meno utopistici, l’uomo ha perso le sue Colonne d’Ercole e la magia dell’avventura? Da questo senso di smarrimento nasce in Gatopoulos una passione crescente per le mappe, che lo conduce ben presto sul sito di David Rumsey, alla scoperta del suo archivio digitale sterminato con una delle collezioni private di mappe storiche più grandi del mondo, assemblate con il gusto estetico di un artista e al contempo strettamente legate ai più recenti progressi tecnologici. “Una volta conosciuto David e stabilita in poco tempo una forte intesa con lui, ho ritrovato nel racconto della sua ‘strana missione’ un fantasma, una traduzione, un ricollocamento del sentimento originale che spingeva gli uomini oltre il mondo conosciuto, alle grandi imprese e scoperte”, racconta il regista, che commenta: “In un mondo in cui lo scopo degli esseri umani sembra indebolirsi, incatenato alle leggi del mercato, della popolarità e del successo, il suo lavoro meticoloso, costante, ininterrotto e ossessivo per la cartografia, una materia oggi largamente trascurata e sostituita dai navigatori automatici, oltre che una storia affascinante è per me l’espressione straordinaria di una profonda connessione con l’esistenza e col senso della vita: a stranger quest”.

Un’opera-atlante – Gatopoulos e il direttore della fotografia Antonio Morra hanno scelto di girare con lo sguardo dei cartografi in ricognizione: un’unica inquadratura per ogni scena, ripresa da ciò che i mappatori definiscono point sublime, il punto da cui è possibile non solo vedere meglio il territorio, ma anche rappresentarne la sua bellezza. Ne è nato un film che si “legge” come un atlante, in cui l’immagine si accompagna ai dialoghi nel modo in cui l’icona si accosta alla didascalia. Il suono segue un lavoro simile, con il punto di vista della scena sempre tra la mdp e il protagonista, come l’orecchio di un drone. Le musiche di Brian Eno, Harold Budd e Kevin Braheny Fortune completano la costruzione di una colonna sonora futuristica e sentimentale.

La storia, infine, adottando il punto di vista del navigatore satellitare, è raccontata da un’intelligenza artificiale, che cerca di interrogarsi su come la vita degli uomini e la loro felicità si fondi su inspiegabili chimere e su stranissime missioni personali, tracciando la distanza fondamentale tra l’uomo e qualunque macchina concepibile dal sistema capitalistico.

Il regista – Andrea Gatopoulos, pescarese, classe 1994, dopo la laura in Lettere Moderne fonda a Roma la casa di produzione Il Varco, che ha all’attivo 23 cortometraggi e 4 film che hanno partecipato a più di 120 festival in tutto il mondo. Il suo esordio alla regia è il film breve Materia Celeste (2019), a cui seguirà Polepole (2021). Nel 2020 al lavoro al fianco di Werner Herzog per il suo film Accelerator a Leticia, Colombia, sviluppa la corrispondenza filmata Letters to Herzog e il cortometraggio Flores del precipicio (2022). Selezionato tra i finalisti del Premio Zavattini 2021/2022, nel 2022 presenta alla 54esima Quinzaine des Réalisateurs il corto Happy New Year, Jim, prodotto da Nieminen film e Naffintusi. Nel 2023 partecipa alla Locarno Spring Academy con Radu Jude dove realizza il film Eschaton Ad. Trascorre l’agosto 2023 a studiare con Apichatpong Weerasethakul nel suo laboratorio nello Yucatan, in Messico.

Proiezioni al Torino Film Festival

Giovedì 30 novembre ore 19.30 – Cinema Romano 1 (Proiezione ufficiale)

Sabato 25 novembre ore 21.30 – Cinema Romano 1

Sabato 2 dicembre ore 16.30 – Cinema Romano 1

 

 

 

 

 

Mirella Zanini

Novità dal cinema indipendente: SEEN di Martina Monti

L’attrice italiana trapiantata a Los Angeles, Martina Monti, scrive e recita nel cortometraggio “Seen“, della regista Olivia Martini che affronta il difficile tema della violenza sessuale, tanto discusso in questi ultimi anni ma ancora troppo spesso un tabù.

Per questo motivo Monti racconta questa storia, la sua storia, basata su eventi realmente accaduti. Lei stessa ci spiega: “Ho voluto portare alla luce questo episodio non solo per poter parlare della mia esperienza, ma anche per dare voce a tutte le vittime che non hanno avuto la possibilità di raccontare la propria. La paura di essere perseguitate dall’aggressore, di non essere credute, di non ricevere aiuto o supporto, di essere incolpate dell’accaduto o il sentirsi responsabili o colpevoli, sono alcune delle ragioni per cui molti di questi crimini rimangono nell’ombra”.

Secondo i dati riportati dall’Istituto Nazionale di Statistica, il 31,5% delle donne dai 16 ai 70 anni ha subìto violenza sessuale o fisica durante la propria vita. Gli stupri, nella maggior parte dei casi (62,7%), sono stati commessi dai partner. Proprio le violenze da parte dei partner vengono sottovalutate o nascoste e questo ha spinto l’attrice a raccontare la sua, apportando alcune piccole modifiche per poter rendere la trama più fluida e semplificando alcuni passaggi per rientrare nei 18 minuti di cortometraggio.

“Seen” è ambientato a Los Angeles, mentre la storia originale si svolge ad Amsterdam, dove Martina viveva e studiava in Erasmus. Oltre a scrivere e produrre questo progetto, Martina Monti interpreta anche il ruolo protagonista, Carolina.

“È stata una sfida molto importante, a livello personale e per la mia carriera, e mi ha dato la possibilità di affrontare il mio passato e di mostrare la vicenda nel modo più autentico possibile. Avrei potuto affidare la parte a un’altra attrice ed evitare di immergermi in un ruolo così impegnativo, che avrebbe potuto riportare a galla il trauma che ho subito, ma ho scelto di intraprendere questa sfida e di dare voce alla me stessa del passato che non ha avuto la possibilità di riportare l’accaduto. Il team con cui ho lavorato è stato di grande supporto durante le riprese, assicurandosi che mi sentissi sempre a mio agio. Non solo durante la scena principale in cui si mostra (solo in parte e senza l’utilizzo di immagini esplicite) l’atto violento, ma anche durante tutto il resto del film. Il racconto non si incentra solo sulla violenza in sé, ma anche sulle conseguenze psicologiche che la vittima può sviluppare a seguito dell’evento. Una di queste è il Disturbo Post Traumatico da Stress (che colpisce il 45% delle vittime), l’isolamento, problemi legati al sonno e all’appetito, flashback e rimozione del ricordo legato all’episodio. Attraverso sequenze prive di dialogo, accompagnate solamente dalla colonna sonora, ho mostrato il profondo tormento di Carolina, che si isola nella propria stanza, sviluppa problemi alimentari e inizia a soffrire d’insonnia. Immagini e ricordi vaghi cominciano a perseguitarla, per poi diventare sempre più nitidi fino a riportare alla sua memoria i ricordi che aveva rimosso. Nella scena finale, Carolina trova il coraggio di affrontare Andy, il ragazzo che le ha promesso di potersi fidare di lui, per poi tradire la sua fiducia e approfittarsi della sua vulnerabilità. Questa è un’altra delle tematiche che ho voluto trattare. Le vittime dei propri partner, oltre a subire una violenza, la ricevono da una persona molto vicina a loro. Una persona che probabilmente le faceva sentire al sicuro e da cui non pensavano di doversi proteggere.
Questa scena non è ispirata a eventi reali. È la conclusione che ho voluto dare alla mia storia. È la voce che ho voluto dare al mio personaggio, in nome di tutte le voci delle donne che non sono state ascoltate, credute, o che sono rimaste silenti nella paura di subire conseguenze nel denunciare la violenza”.

 

Seen” non ha solo lo scopo di raccontare fatti tragici. Ha lo scopo di dare speranza, di far sì che ogni donna che abbia vissuto una storia come questa sappia di non essere sola.

 

 

Di seguito una breve biografia di Martina Monti:

Sono un’attrice italiana e mi sono trasferita a Los Angeles tre anni fa per intraprendere la mia carriera nell’industria di Hollywood. Nel 2023 ho lavorato sul set di vari film e serie TV e recitato in cinque cortometraggi come attrice protagonista: “Proof”, “Ghost Town Shore”, “I’m Drowning”, “Dead End” e “Seen”.
Quest’ultimo è un progetto che ho scritto durante l’autunno e che ho poi prodotto e girato a Febbraio 2023. Tratta il tema della violenza sessuale ed è ispirato a eventi reali.
Nell’estate del 2022 ho girato il pilot di una Sitcom (“Studio 205”) che io, assieme a due sceneggiatrici e attrici conosciute durante i miei studi alla UCLA, ho scritto e prodotto. Al momento il progetto è in post produzione. Racconta la storia di tre ragazze (una di loro, Elettra, interpretata da me) con personalità eccentriche e incompatibili, che si trasferiscono a Los Angeles e si ritrovano a dover condividere un piccolo appartamento.
Grazie ad alcune esperienze come “Key Actor” in varie Serie TV tra cui “Winning Time”, “Curb your Enthusiasm”, “Barry” e “And Just Like That”, ho avuto la possibilità di lavorare sul set con artisti e star come The Weeknd, Jenna Ortega, Adrien Brody e Larry David.
Sul versante della scrittura, ho preso parte alla traduzione di due sceneggiature (dall’Inglese all’Italiano): “Italian Couple” e “For the Love of Food”.
L’ultimo cortometraggio in cui ho recitato, “Dead End”, è stato selezionato per il “San Diego 48 Hour Film Project” Festival, e verrà proiettato il 12 Luglio al Reading Cinema Grossmont with TITAN XC.
Per quanto riguarda la mia formazione, dopo essermi laureata all’Università degli Studi di Bologna (DAMS, Discipline Artistiche, della Musica e dello Spettacolo) e aver completato un Master di Scrittura e Sceneggiatura presso l’Università Iulm di Milano (Master in Arti del Racconto), ho proseguito i miei studi negli Stati Uniti. Ho frequentato dei corsi in diverse accademie di recitazione: “Lee Strasberg Institute” e “Stella Adler Academy of Acting and Theatre”.

Ho ottenuto un Certificato di Recitazione (Acting Certificate) presso la UCLA Extension a Los Angeles (Dicembre 2022), dopo aver completato un programma di un anno in cui ho esplorato varie tecniche di recitazione (Meisner, Alexander Technique, Uta Hagen, Strasberg) e seguito corsi sulla recitazione per Film e TV, Pre Produzione e Post Produzione, Voce e Movimento.

Sto continuando a studiare recitazione seguendo lezioni settimanali tenute da Rob Brownstein al “The Hudson Theatres” a Hollywood.

IMDb link: https://www.imdb.com/name/nm13829139/

Instagram: Martina Monti (@always_smarty) | Instagram

Francesca De Santis

Più de la vita

Esce ad ottobre Più de la Vita, il film di Raffaella Rivi dedicato a Michele Sambin: pioniere della videoarte, ideatore di performances, spettacoli teatrali, opere pittoriche e partiture sonore.

Prodotto da Kublai Film, Più de la Vita, dopo il debutto all’Asolo Art Film Festival (21 giugno) e l’ospitata al Lago Film Festival (25 luglio), approda nelle sale in un vero e proprio tour lungo il Belpaese.

Fra le prime sale autunnali ricordiamo: il 7 Ottobre al Cinema Rossini di Venezia e il 15 ottobre al Cinema Dante di Mestre.

Documentario e film si incontrano nella narrazione della vita e del pensiero di un grande artista contemporaneo, Michele Sambin: viaggiatore e precursore dei linguaggi della contemporaneità dalle mille sfaccettature, Sambin ha esplorato le arti visive nelle sue varie forme, si è immerso nella musica, ha attraversato il teatro, ha sostanzialmente disegnato il volto della videoarte nei suoi esordi per più aspetti pionieristici. La regista Raffaella Rivi ha scelto il linguaggio del cinema per raccontare l’uomo e l’artista in un lavoro che è a sua volta un’opera d’arte sull’opera d’arte. Disegnato con tratto che molto deve ad una sensibilità creativa tipicamente femminile. Una costante evoluzione attraverso la tecnologia, in quattro decenni di percorso artistico, dal video analogico alla pittura digitale, dal mondo degli strumenti tradizionali alla rivoluzione della musica elettronica.

Mescolando passato e presente, tra opere ormai classiche e nuove performance, il film si propone di portare allo spettatore uno sguardo diretto sul lavoro dell’artista, puntando il focus sulla mutevole arte che attraversa tempo e spazio, adattandosi a essi, ma anche adattandoli alle proprie esigenze. La poesia del loop: ponte fra sperimentazione visiva e sonora Fra le conquiste e gli strumenti espressivi al centro di questo viaggio, il loop: un concetto tecnico-poetico molto caro all’autore, capace di mescolare passato e presente e al centro delle opere video realizzate nel suo percorso pionieristico negli anni ’70 così come alla base di molti lavori successivi.

Alla base del loop c’è un diverso rapporto con il tempo: alla linearità consequenziale della narrazione classica, si sostituisce un procedere compositivo per cerchi e spirali, per salti temporali con strutture che tornano in periodi diversi, arricchite di nuovi contenuti esperienziali. Un procedere per anelli di senso che tornano via via sempre più larghi e si propagano come un’onda energetica. Artista ma anche filosofo e pensatore. Michele Sambin è stato un teorico del valore sociale dell’arte. Non solo: il titolo, Più de la vita è tratto da Ruzante, drammaturgo italiano del ‘500 molto amato da Sambin, che nella sua ultima lettera/testamento riflette sull’importanza di una vita che deve essere vissuta con consapevolezza e intensità: una vita larga, più che lunga. Nel 1980 con Pierangela Allegro e Laurent Dupont fonda il TAM teatromusica – finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – di cui cura regie, scene e musiche. Sambin da anni lavora, inoltre, con i detenuti del carcere di Padova.

Nell’ultimo decennio ha costantemente sviluppato e messo in pratica questo approccio con opere video-artistiche quali “Dire, Fare Baciare, Lettere, Testamento” (2013), scenografie e videoinstallazioni teatrali (TAM, Teatro Stabile del Veneto, JoleFilm), compagnie di danza (Sosta Palmizi) e musei (Museo Diocesano di Padova). Parallelamente ha portato avanti una progettualità cinematografica in campo sociale con i cortometraggi “Sotto l’anguria” (2005), “Voci di dentro, Voci di Fuori” (2007), “Domani, Forse” (2016), sempre volti a cogliere l’intima personalità dei protagonisti o la fragilità delle relazioni sociali attraverso la poetica della sospensione e dell’attesa.

Recentemente si è avvicinata ai territori dell’economia con narrazioni video per enti pubblici (Provincia di Padova, Regione Veneto, Regione Valle d’Aosta) e aziende private (Coop, Fortuny, Lotto, Tecnica), introducendo nella comunicazione aziendale i più evocativi linguaggi dell’arte cinematografica.

Titolare per diversi anni il corso di “Teorie e tecnica della comunicazione” presso l’Accademia di Belle Arti di Rimini, è attualmente impegnata in un progetto di ricerca sull’evoluzione del marketing attraverso la narrazione video presso il Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari dove tiene anche corsi di video storytelling aziendale.

Comunicato stampa Licia Gargiulo

VALERIA GOLINO: STORIE FEMMINILI DI PASSIONE E DOLORE

Nella sua quasi quarantennale carriera, Valeria Golino ha dimostrato sin dagli esordi di essere una brava attrice, capace di dare corpo a personaggi femminili di raro magnetismo, e non solo per la bellezza mediterranea. In particolar modo è interessante la parabola femminina che va da Storia d’amore (1986) a Per amor vostro (2015), in cui ha creato una serie di ritratti femminili dolenti e intensi.

Se si volesse tracciare un rapidissimo schizzo descrittivo di Valeria Golino, si potrebbe utilizzare la vetusta esclamazione: “bella e brava”. Nel suo caso, però, la bravura va necessariamente anteposta alla bellezza, non perché non sia una donna affascinante, ma poiché il suo seducente magnetismo si manifesta per alcune appassionate e sofferenti figure femminili a cui ha dato corpo e anima.

Nata a Napoli il 22 ottobre 1965 da una famiglia di particolare lignaggio culturale (padre germanista italiano e madre pittrice greca), ha cominciato la carriera come modella per poi esordire nel cinema, appena diciassettenne, in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983) di Lina Wertmüller, dove interpretava l’adolescente Adalgisa, figlia dei coniugi borghesi De Andreiis (Ugo Tognazzi e Piera Degli Esposti). Già con le due pellicole a seguire la Golino si palesò come un’ottima attrice, capace di dare rilievo ai personaggi che gli venivano affidati. Nella fiaba “nera” Piccoli fuochi (1985) di Peter Del Monte, nella quale vestiva – e svestiva – i panni della giovanissima e bellissima Mara, figurazione carnale di una “fata” che doveva accudire al piccolo Tommaso, vinse il Globo d’oro come Miglior attrice rivelazione.

Nel drammone Figlio mio, infinitamente caro… (1985) di Valentino Orsini, in cui ricopriva il difficile ruolo della giovane junkie Francesca, fu candidata al Golden Ciak come Miglior attrice non protagonista. Questa sua spiccata bravura – oltre alla bellezza mediterranea e all’ottimo inglese – le permise appena ventenne di poter lavorare in America. Purtroppo questa lunga parentesi hollywoodiana, fruttuosa ma a conti fatti poco convincente a livello qualitativo, le ha concesso rarissime figure femminili consistenti e sfaccettate.

Benché sia stata capace di dimostrare di sapersi inserire in quel sistema e di essere un’attrice duttile, valicando differenti generi, quello che premeva al cinema industriale americano era soprattutto il suo fascino italiano, per cercare di creare una nuova diva da lanciare. Di quel periodo americano, i pochi ruoli veramente efficaci sono stati pochissimi: la bella ma diligente Susanna in Rain Man (Rain Man – L’uomo della pioggia, 1988) di Barry Levinson e con Dustin Hoffman e Tom Cruise; la coraggiosa Maria in The Indian Runner (Lupo solitario, 1991) di Sean Penn; oppure la malata terminale omosessuale Lilly nell’episodio “Goodnight Lilly, Goodnight Christine” della pellicola Things You Can Tell Just by Looking at Her (Le cose che so di lei, 2000) di Rodrigo Garcia. L’aspetto più interessante da notare, di questa fase internazionale, però, è come la Golino fosse rimasta umile e abbia proseguito la sua carriera italiana recitando in ruoli meno glamour, partecipando a pellicole indipendenti o bizzarre, come ad esempio testimonia il bislacco Escordiandoli (1996) di Antonio Rezza.

La sua quasi quarantennale carriera – ancora a pieno regime – s’illumina maggiormente per aver dato corpo e afflato ad alcune figure femminili di basso profilo, afflitte da problemi quotidiani e mosse visceralmente da impeti d’amore sofferti. Questi peculiari aspetti potrebbero essere racchiusi tra due poli interpretativi che ce la mostrano a distanza di trent’anni, e che le hanno consentito di vincere la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. La prima la ottenne nel 1986 per Storia d’amore di Citto Maselli, e la seconda nel 2015 con Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino.

Bruna Assecondati e Anna Ruotolo, le due figure femminili di suddetti film, hanno differenti età e vivono in due città differenti, ma ambedue sono di estrazione popolare e cercano una loro emancipazione dal mondo che le circonda e le reprime. Prendendo come lampante esempio Per amor vostro, la protagonista Anna viene raffigurata, in un paio di elaborati freeze frames iconografici, come una beata, e in alcuni personaggi interpretati dalla Golino dentro questi due poli interpretativi si può rinvenire questo segno di martirio quotidiano in cui queste figure femminili sono invischiate, e da cui cercano il riscatto attraverso una tortuosa via Crucis.

Non tutte sono riuscite a spuntarla, perché a volte l’unica catarsi possibile è la propria morte. Senza analizzare ogni sua singola interpretazione, essendo il suo curriculum composto di oltre cento pellicole, ci si soffermerà solo su alcune incarnazioni femminili, cioè quelle in cui il personaggio è una “Santa guerriera” rispetto al quotidiano che la circonda. Con Storia d’amore, ritorno alla regia cinematografica di Citto Maselli dopo ben undici anni (Il sospetto fu realizzato nel 1975), Valeria Golino dava corpo al primo personaggio femminile da beatificare. Ancora giovanissima, ma già capace di dare piccole sfumature al suo personaggio, benché qualche critico abbia reputato la sua recitazione manieristica. Bruna Assecondati, giovane proletaria nata e cresciuta in un residuo di borgata romana, anche se vive in una situazione dura (la sua transvolata quotidiana fino al posto di lavoro), è un personaggio vivace e combattente.

Si potrebbe benissimo definire un’eroina del suo ceto, che non cerca un vero riscatto sociale, ma semplicemente vivere una storia d’amore in modo libero. Il tenero amore verso Sergio nasce da motivi quasi adolescenziali, essendo la sua prima relazione (nella prima scena d’amore i due sembrano quasi che delicatamente studiano i propri corpi), mentre la relazione con Mario scaturisce da un’improvvisa passione (Mario gli appare come un’immaginifica scultura romana). La paladina Mara, che ha sempre lottato (per giungere al posto di lavoro, per avere la sua libertà sessuale e per avere il suo spazio abitativo), mossa dalle più sincere azioni affettive (amore/amicizia) cerca di creare la sua famiglia ideale con Sergio e Mario. Un triangolo che pare funzionare, solo che alla fine Bruna si rende conto che non può vivere la sua ideale storia d’amore (probabilmente rovinata dalla subdola mossa attuata da Sergio).

Bruna, benché sia stata sempre una ragazza risoluta e intraprendente, dopo questa via Crucis che sembrava sfociare in un Happy End, schiacciata dalla realtà, decide di fare come il piccolo Edmund di Germania anno zero (1947) di Roberto Rossellini, e quasi come un gioco si suicida. È in quest’ultima sequenza, in cui la Golino recita muta, che la passione e la sofferenza si palesano attraverso le espressioni del suo volto. Dieci anni dopo questo tragico personaggio, nel 1997 è co-protagonista in Le acrobate di Silvio Soldini. La pellicola era la chiusa della “Trilogia delle fughe”, o definita anche come “Trilogia delle tre A” (gli altri due tasselli erano L’aria serena dell’Ovest, del 1990, e Un’anima divisa in due, del 1993). Il film è una storia di donne, ed è divisa in 4 “capitoli”, i cui titoli hanno il nome di ogni personaggio.

La Golino vi tratteggia la figura di una donna/moglie del Sud schiacciata da una vita incolore e insoddisfacente. Il rapporto con il marito è ormai stridente, e la relazione con la piccola figlia Teresa è difficile. La sua Maria, caparbia nel rimanere a galla, non vive un vero e proprio calvario, ma è fragile e insicura nel prendere ferme decisioni che potrebbero migliorargli la vita. Il suo profondo e passionale amore è solo verso Teresa, che cerca di capire e proteggere, mentre con il marito è solo amore carnale. Maria solo alla fine, spinta dalla casuale conoscenza con Elena (Licia Maglietta), donna risoluta del Nord, riuscirà a fuggire (quasi sinonimo di purificazione) da questa situazione senza sbocchi, benché non sappia (e noi con lei) cosa accadrà dopo.

La perfetta aderenza della Golino a una figura femminile quotidiana, si può vedere nel momento in cui mentre apre la cartellina con la lettera e il dentino della piccola Teresa, un foglietto schizza via improvvisamente, e lei con un gesto totalmente naturale esprime la rabbia di questo inconveniente scenico. Con Le acrobate la Golino vinse la Grolla d’Oro come Miglior attrice. Del 1998, invece, è L’albero delle pere di Francesca Archibugi. Con questa pellicola la regista romana ritraeva, dopo Il grande cocomero (1993) un altro adolescente che vive una situazione familiare difficile nei quartieri romani periferici. Valeria Golino interpreta Francesca, la madre tossicodipendente di Siddharta (Nicolò Senni). Benché abbia un ruolo secondario, l’attrice partenopea riesce a dare comunque spessore e pathos al personaggio, senza eccedere in una recitazione manierista di una tossicodipendente. La fragilità di questa donna, in una certa maniera rimasta adolescente, si manifesta perfettamente in due momenti distinti: nel video realizzato dall’ex compagno Massimo (Sergio Rubini), in cui la sua fragilità e vergogna si palesano con un grondante pianto da infante; e successivamente nel momento in cui il variegato nucleo famigliare è riunito nella piccola cucina della sua casa. Quando i due uomini non sanno confermarle quando torneranno nella serata, sul suo volto trapela tutta la sua solitudine e la sua insicurezza. Un momento, questo, che rievoca la gracilità di Bruna nel finale di Storia d’amore.

Il personaggio di Francesca vive una sofferenza creata solamente da lei, che ha perseguito quello stile di vita dannoso da hippy fuori tempo, come proprio gli rimprovera l’ex compagno Massimo. La “catarsi”, che sarà più utile a Siddharta che a lei, avviene con l’incidente mortale in macchina, avvenuto per colpa sua perché era sotto effetto della droga. Come scritto antecedentemente, durante il periodo americano l’affresco femminino Le cose che so di lei di Rodrigo Garcia è una delle pellicole più interessanti a cui ha preso parte, e che si riallaccia bene ai ruoli di donne comuni che ha interpretato in Italia. In questa pellicola la Golino interpreta il difficile e rischioso ruolo di Lilly, una malata terminale omosessuale che condivide con la sua fidanzata gli ultimi momenti di vita. Certamente è un pezzo costruito a tavolino, per commuovere, ma la bravura dell’attrice italiana è quella di non cadere negli usuali cliché recitativi proni a tale facile commozione (in questo caso doppio: omosessualità e sieropositività), riuscendo a dare corpo a un personaggio che sa trasmettere delle vere emozioni.

La “beata” Lilly sta patendo l’ultima tranche della sua sofferenza, e l’unico sollievo gli viene dall’amore della sua compagna Christine (Calista Flockhart). È nel medesimo anno, però, che Valeria Golino interpretò uno dei ritratti femminili fondamentali della sua carriera, cioè la “bestia selvaggia” Grazia in Respiro (2002) di Emanuele Crialese. Grazia è un personaggio irrequieto, un animale selvaggio (o randagio come il branco di cani che si vedono nella pellicola) confinata in un’isola del Sud tanto solare e naturale quanto chiusa e negletta. La vitalità, il magnetismo e la diversità di Grazia appaiono improvvisamente con forza attraverso la canzone “La bambola” di Patty Pravo, che sta ascoltando con un giradischi portatile. Oltre che donna nel pieno del suo splendore fisico, è anche una madre amorevole – a suo modo – verso i tre figli. Il suo stato psichico, soprattutto quando ha sbalzi di vivace umore, mette sempre in disquilibrio la vita famigliare, e si scontra con la visione materiale del marito (pescatore) e della sua famiglia.

Grazia è uno spirito libero, quasi un soggetto straniero precipitato in un mondo “preistorico”, e che vagamente ricorda la Karin di Stromboli terra di Dio di Rossellini. Il suo travaglio in Respiro si rivela doppio: per lei che si sente soffocare in questa isola sperduta, e per la sua famiglia, che deve sempre stare attenta alle sue improvvise smanie (ad esempio la gita con i due francesi). La catarsi finale, che purifica lei e tutti gli isolani, avviene nel fondo del mare, in una sequenza simile a quella de L’atalante (1934) di Jean Vigo. Per questo intenso e passionale ruolo, la Golino vinse il Nastro d’Argento come Migliore attrice protagonista.

Un altro tassello fondamentale nel curriculum della Golino è stato il dramma sociale La guerra di Mario (2005) di Antonio Capuano, in cui l’attrice interpretava Giulia, la madre adottiva di Mario. Il piccolo Mario, che proviene da una famiglia disastrata della periferia di Napoli, andando a vivere in questo nuovo nucleo familiare si ritrova catapultato in un mondo migliore (borghese), ma in cui non riuscirà a conseguire una benefica maturazione. Giulia è una madre affettuosa, apprensiva e di mentalità liberale, ma non è capace di capire il profondo dramma di Mario e la società (Napoli) che la circonda. Attenta e brava nell’analizzare metodicamente le opere artistiche, insegnandole con passione ai propri studenti, è però incapace di captare e spiegare/spiegarsi i reali problemi che la circondano. In poche parole è una “dilettante” che elargisce un amore sbagliato e viziato a Mario, comprandogli ogni cosa che lui chiede, rivelandosi un atteggiamento simile a quello del personaggio di Mamma Roma nell’omonimo film di Pier Paolo Pasolini, che educava Ettore in modo equivocato.

Questa spasmodica attenzione errata verso Mario rovina anche la sua relazione con il compagno Sandro (Andrea Renzi), che ha una visione molto più razionale di lei, proprio come era quella del prete di Mamma Roma. A differenza del piccolo Mario, Giulia non ha subito un calvario sociale, essendo di estrazione borghese, quindi questa potrebbe essere una scusante. Alla fine non ci sarà, almeno per lei, nemmeno una redenzione/maturazione, perché gli verrà semplicemente (razionalmente) tolto Mario dall’affidamento. Anche per questa figura femminile la Golino guadagnò un altro premio: il David di Donatello come Miglior attrice protagonista. Qualche anno più tardi la Golino interpretò un’altra Giulia, questa volta di estrazione popolare differente e nel pieno del suo calvario. In Giulia non esce la sera (2009) di Giuseppe Piccioni, la Giulia del titolo, che cominciamo a conoscere attraverso gli occhi di Guido Montani (Valerio Mastandrea), è una donna con un passato macchiato di sangue per un delitto passionale. Lavora di giorno facendo l’istitutrice di nuoto, e la sera non può uscire perché è una carcerata in semi-libertà. Giulia cerca di mantenere le distanze con il mondo esterno che la circonda per non cadere nuovamente in “tentazione”.

Quando sembra aver trovato in Guido una “guida” e un riscatto per il suo passato (l’aver abbandonato il marito e la figlia per l’amante che poi aveva ucciso), il rifiuto della figlia a relazionarsi di nuovo con lei, la getta nel più profondo sconforto. La purificazione finale colpisce ambedue, ma in modo differente: per Guido, che conoscendola l’aveva vista come una “Santa”, sarà di maturazione; mentre per Giulia, che ha optato per il suicidio non sapendo come pagare il suo debito affettivo con la figlia, questo sarà il martirio da pagare per la sua carnale colpa.

Il carcere – e il suicidio – fanno da ponte con la pellicola Come il vento (2013) di Marco Simon Puccioni. In questa pellicola la Golino, dopo aver interpretato figure femminili fittizie che attingevano dalla realtà, dovette affrontare un personaggio realmente esistito, cioè Armida Miserere (1956-2003), funzionaria dello Stato italiano che fu direttrice di differenti carceri. Armida è una donna forte non solo per il ruolo istituzionale che deve ricoprire, ma anche per i duri colpi che ha ricevuto nella vita privata (la violenta morte del marito, la perdita del nascituro, le delusioni amorose ecc.). È una donna risoluta ma divenuta lentamente vulnerabile dai tragici fatti che l’hanno fiaccata, e alla fine della sua via crucis, come lei stessa confessa nella lettera d’addio, attua l’insano gesto di suicidarsi, non potendo più affrontare questo dolore che l’attanaglia. In questo biopic, con tempi e umori da fiction televisiva, la vera forza è la Golino, che ha reso ottimamente omaggio a la Miserere.

Infine, il fiammeggiante melodramma Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino ha segnato in qualche modo il punto di approdo dei ruoli precedenti, in cui le varie sfaccettature hanno creato un solo personaggio femminile. Anna, nella triplice rappresentazione di donna-moglie-madre, s’incontra in un viluppo di passione e dolore. Sullo sfondo di una Napoli proletaria, affetta dagli usuali problemi sociali e criminali, si ergono i conflitti quotidiani della protagonista. Come moglie, Anna deve lottare contro il manesco marito usuraio, che mette disordine in famiglia, oltre a screditarla agli occhi della gente. Come madre, si ritrova a gestire tre figli nel pieno dell’adolescenza (soprattutto le due ragazze), e deve accudire maggiormente al figlio sordomuto Arturo. Come donna, inizialmente si sente rifiorire quando l’affascinante attore di fiction Michele Migliaccio comincia a corteggiarla, per poi alla fine scoprire che era stato solo un inganno, perché lui aveva contratto un debito con il marito.

Nel momento in cui loro due sono vicino a una scarpata e Michele deve ucciderla, Anna ricorda la stessa situazione di delusione in cui si ritrova la trasognante Cabiria in Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini. Tutto questo calvario che deve affrontare quotidianamente, Anna lo accetta come una Santa solo per amore dei propri figli. Mentre Bruna di Storia d’amore, stanca del martirio che ha subito, si uccide, la catarsi di Anna, che tenta il suicidio dal cornicione del terrazzo del proprio palazzo, termina miracolosamente perché si salva, e così potrà – forse – risolvere i problemi che la opprimono e affrontare la vita con altro spirito.

Roberto Baldassarre

C’era una volta…a Hollywood

La duale coincidenza. Favole della realtà.

Quentin Tarantino, C’era una volta…a Hollywood (Once Upon a Time in…Hollywood), USA, 2019.

L’immagine osservata, l’immagine vissuta, l’immagine creata. In un’intervista di qualche anno fa, Tim Burton sostiene che delineare un confine tra realtà e fantasia è per lui un atto privo di senso. Fantasia, non finzione: la fantasia non mente, costruisce nuove realtà. Favole della realtà, come nel nono film di Tarantino C’era una volta… a Hollywood. Nella dissolvenza dei confini tra i livelli comunicativi e percettivi, Tarantino riflette, cinefilo anche di se stesso, sul proprio cinema attraverso quello altrui, autentico o fittizio.

La recitazione degli interpreti si carica, sempre immersa in una volontà artistica ed espressionista, che non imita ma amplia il reale cinematografico. Mentre il protagonista interpreta, non ricorda la parte, a causa dell’alcolismo; e si adira con la propria immagine allo specchio – per il danno che arreca alla propria credibilità come attore e quindi come personaggio.

In un infinito gioco di variabili, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) compare in una mai girata pellicola del realmente esistito Antonio Margheriti; ma anche in alcune sequenze in cui si richiamano, con l’uso del lanciafiamme contro alcuni nazisti, le scene conclusive di Bastardi senza gloria: dove a guidare la propria squadra militare nell’impresa non era DiCaprio, ma Brad Pitt – che in C’era una volta… a Hollywood è Cliff Booth, controfigura di Dalton.

Nei momenti in cui la mancanza di situazioni filmiche troppo pericolose per il goffo Dalton non richiede la presenza delle acrobazie di Booth, quest’ultimo, oltre l’occhio della macchina da presa, vive quasi al posto dell’uomo a cui fa da controparte. Tra le tante azioni (tutte ugualmente importanti quanto inconsistenti) che si succedono sui set e nelle ville hollywoodiane, lo stuntman è in grado di compiere, nel finale del film, l’unica che possa davvero scrivere la Storia; ma sotto l’effetto di una sigaretta imbevuta di acido quasi non se ne accorge, e scambia gli hippies omicidi inviati da Charles Manson per i personaggi di un western. Diventa protagonista, per poi riassorbirsi nel protagonista stesso.

Ferito gravemente, cade la controfigura, cade il cinema nel cinema: Rick Dalton, che ha infine imparato ad utilizzare il lanciafiamme, sconfigge l’unico dei tre aggressori sfuggito alla furia annebbiata di Booth. I piani si unificano; con l’avvio di una nuova carriera per Dalton, fino ad allora fossilizzato nel ruolo del cattivo, la negatività del reale e quella dell’illusorio si annientano a vicenda. Come i brandelli del volto mitragliato di Hitler bruciavano assieme a quelli dello schermo incendiato nell’inferno del cinema.

Silvia Marcantoni Taddei