FMM: Come è cominciata la tua avventura nel cinema?
CR: Non so neppure dire se sia mai iniziata, ho semplicemente realizzato qualche film.Diciamo che ad un certo punto della mia vita ho scoperto di amare la poesia ma di non saper scrivere. Ho avuto una strana vita, non saprei individuare con esattezza il momento esatto nel quale il cinema ha fatto irruzione in essa. Sono nato e cresciuto in una famiglia estremamente religiosa, in quella che le persone “comuni” non farebbero fatica a definire una setta. Fino ai miei 18 anni la mia esistenza è stata fortemente normata, disciplinata e forgiata da un’educazione molto rigida. Il mio carattere ribelle ha fatto sì che ne uscissi con conseguenze molto dure che perdurano a quasi venti anni di distanza da allora. Ad un certo punto ho intuito che il cinema, i film, erano come un singhiozzo per me. Un singulto da me e dalle mie pene e, al tempo stesso, un’emanazione di queste. Il cinema è la contemplazione e il dissolvimento nell’attimo presente, è viaggio sciamanico, è la piccola morte, è il dischiudersi del non-duale. Guarisce ed infetta, lenisce e divampa. É il dare voce alla coscienza del mondo nascosta in noi e alla coscienza nostra insita nel mondo. É cooperazione con le energie, è akasha, è śakti, è spirito santo, è kundalini. Ma è anche uno schifoso oggetto di consumo da collezionare, vomitare e defecare. Ha dunque potenzialità infinite. Insomma, tante chiacchiere per una risposta vaga.
FMM: Quando e come è nata l’idea di “Ananke“?
CR: “Ananke” è nato da una preghiera, dalla spossatezza di vivere. Invece di mangiare il peyote e fare domande ho deciso di fare un film e cercarle lì. E ha funzionato, poiché da “Ananke” tante cose sono cambiate nella mia vita. Io e Betty avevamo preso in affitto una casa, la stessa dove viviamo ora, senza luce né gas, né acqua calda. Era il 2011, a dicembre, con la neve ed il freddo. E, come al solito, senza il becco di un quattrino. Di per sé questa non era una condizione che poteva mettermi a disagio. Ma era abbinata ad una situazione esistenziale davvero infame. Avevo seriamente smesso di capire il prossimo, non ne capivo le azioni, non ne condividevo le esistenze. Non provavo empatia per nessuno, coltivavo l’insofferenza e il rancore, senza motivi precisi. Ero dunque ad un passo dal non essere nemmeno più un essere umano. Mi sentivo disgustoso, apatico. Quindi abbiamo deciso di fare “Ananke“, per capire se là fuori c’era ancora vita. Se è giusto quello che siamo e come decidiamo di vivere. Cosa significa ‘giusto’. Cose così. La lavorazione di “Ananke” è una costellazione di ingiustizie. Non so ancora cosa sia giusto, ma ho sicuramente imparato cosa non lo è. Sono molto contento di averlo fatto.
FMM: Quali sono state le maggiori difficoltà dal punto di vista tecnico nella realizzazione del film?
CR: Lavorare con un’emulsione fresca. “Ananke” era pensato per essere girato con pellicole Svema scadute da 40 anni, recuperate nell’ex Iugoslavia. Un film già vecchio e fragile ancor prima di essere montato. Poi è andata in modo diverso e abbiamo usato la Kodak Vision3, nuova. Ma ripensarlo con un’emulsione che restituiva un’immagine tanto diversa è stato molto difficile. Alla fine mi sono ritrovato per le mani un telecinema, che è una versione intermedia molto scadente, che di solito viene utilizzata per convenzione solamente per trasferire il film dall’emulsione al software di montaggio. Il master è ancora oggi un telecinema, poiché non ho il denaro per concludere la lavorazione presso il laboratorio. Dunque il master è tecnicamente molto scadente e conserva delle qualità molto interessanti, poiché è la scansione di qualità molto bassa di una pellicola di qualità molto alta. Dunque una involontaria povertà digitale in termini di nitidezza e definizione, che mi riavvicina un po’ all’idea iniziale, ma è completamente un’altra cosa. Un altro aspetto piuttosto impegnativo è stato realizzare la colonna sonora, suoni e composizione elettroacustica. Con Anthony Di Furia abbiamo optato per l’Ambisonics, uno standard che nel cinema non ha mai avuto fortuna, ma che è senza ombra di dubbio ancor più interessante ed espressivo dell’Atmos della Dolby.
FMM: Chi è stato il tuo braccio destro durante questo percorso?
CR: Betty naturalmente. In questo percorso come in tutti gli altri. Con lei ho creato la mia famiglia e creo i miei film, dunque siamo in comunione totale. Senza Betty e i suoi stimoli mi sarei già stancato del cinema e della vita.
FMM: Quali errori non dovrebbe mai commettere un regista in pre, in post e durante la produzione?
CR: Quello di non cambiare idea, di blindarsi dietro a scalette, ordini del giorno e sceneggiature. Non deve smettere di osservare e lasciarsi guidare. E’ bene pianificare, o essere fedeli ad un’idea o ad un tema, ma non bisogna zittire il proprio intuito, la propria coscienza. Non vogliamo ammetterlo, perché altrimenti saremmo quasi tutti senza un lavoro, ma molte cose nel cinema non hanno niente a che vedere con i meriti umani. Una delle più grandi abilità di un cineasta è quella di annullarsi e mettersi in ascolto. Di suo deve solo mettere la capacità di non fare niente. Mettersi da parte, farsi attraversare da ciò che si filma, che si tratti di un albero, di un cane, di una sedia o di una persona.
Deve morire in quello che trova, non per quello che ha e che pensa di essere.
FMM: Rivedendo il film c’è qualcosa che cambieresti oppure l’attuale versione è un’autentica director’s cut?
CR: É inevitabilmente il frutto di scelte, è uno degli infiniti film possibili. A distanza di tempo, se dovessi farlo ora, sarebbe diverso, credo sia naturale. Ma “Ananke” è quello che doveva essere nel 2015, quindi è quello che deve essere ora. Dovrei vederlo in pellicola per rispondere alla tua domanda correttamente, è quella la versione definitiva del film. Versione che non ho mai visto né conosciuto, come dicevo poco sopra.
FMM: Cosa vorresti che notassero gli spettatori nella tua opera?
CR: Se stessi. In un uomo, una donna, una capra, una bimba e un albero. Vorrei che immaginassero cosa c’è fra un’inquadratura ed un’altra, fra gli stacchi di montaggio. Vorrei che abitassero quelle frazioni nere. É quello “Ananke“. Ed è quella la necessità del cinema.
FMM: Qual è il complimento più bello per un regista?
CR: Non so, un regista non dovrebbe mai ricevere complimenti. Il rischio è quello di illuderlo di avere meriti, mentre il suo compito è azzerarsi, annichilirsi. Si parla dello sguardo di questo o quel regista. La questione dello sguardo per me è semplice: non si tratta di decidere da che angolazione, posizione e in quale modo osservare e raccontare le cose, ma decidere la posizione dalla quale si sceglie di morire. Per me fare un film è inseguire un ricordo, un qualcosa che è già morto qui nel momento in cui si è manifestato. Ma anche da morto quel ricordo continua a manifestarsi; mediante un film, ad esempio, che è uno squarcio fra mondi. Il ricordo è una realtà parallela che vive di vita propria ed esiste altrove, come le anime dei morti. Ne cerco i riverberi nella “nostra realtà” filmabile e con essi tento di ricongiungermi. Come l’indio cacciatore, che con la rana si avvelena per vedere meglio di notte, nella selva. E alla fine solo io posso essere testimone di questa esperienza. Quello che dicono gli altri non ha nulla a che fare con questo.
FMM: Parlaci dei tuoi nuovi progetti.
CR: Con Betty ho da poco terminato “Incanto”, il nostro secondo lungometraggio. Si può considerare il sequel di “Ananke”, o il prequel di “Liebe”, non saprei proprio. Ecco, “Liebe”, probabilmente è il sequel di “Incanto”. É la scoperta dell’amore nell’aldilà, nel cinema e nella vita. Che poi sono tre modi diversi per definire la stessa cosa: l’esistenza che si dispiega sulle possibilità. Questo film è ancora in fase embrionale, non abbiamo ancora appoggi produttivi. Dobbiamo ancora individuare la strada da seguire, non sono molti (nessuno?) i produttori che ci appoggiano. Ma sia io, che Betty, siamo ottimisti.
FMM: Un augurio per un giovane autore.
CR: Di essere sempre umile ed umano, vicino a se stesso e a ciò che lo circonda. Di non sedersi mai e di aver fame e voglia di conoscere meglio i misteri che ci avvolgono, ovunque egli li individui. Di non essere avido, di non badare alle cose materiali. Di essere un buon vicino di casa, un buon cittadino, un affabile amico per gli sconosciuti. Di continuare a studiarsi e studiare, di cambiare sempre idea, di non essere mai coerente con niente e nessuno. Di avere rispetto, di non perdere tempo e di coltivare l’ozio e il silenzio. Di saper ascoltare i piccoli oggetti, gli animali, le persone vicine e lontane, la luna, il vento e la notte e le anime dei defunti. Di continuare ad amare fino all’ultimo alito di vita. Insomma, di essere felice.
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