Ogni tanto ci capita di scoprire un’opera straordinaria di cui non avevamo mai avuto notizia o che una conoscenza superficiale non ci aveva spinto ad approfondire. Impossibile compilare un inventario: la produzione di letteratura, musica, teatro, cinema, arti figurative e concettuali… ha accumulato un numero esorbitante di prodotti del genio creativo di chi ci ha preceduto. Inutile affannarsi quindi, possiamo solo andare avanti per la nostra strada rallegrandoci quando ci capiterà di incrociare uno di questi capolavori.
Un esempio perfetto di questa speciale categoria è “Il derviscio e la morte”, romanzo di Meša Selimović. Nel 1966, dopo una produzione letteraria senza particolari picchi di genialità, a 56 anni Selimović scrisse questo straordinario spaccato di un mondo perduto che dal passato ci parla con incredibile attualità.
La storia è ambientata in una cittadina di provincia della Bosnia verso la fine della lunga dominazione turca (1463-1878).
Lo sceicco Ahmed Nurudin, che gode del prestigio e della considerazione di tutta la popolazione, subisce un torto che lo fa precipitare in un incubo: suo fratello viene ingiustamente arrestato e a nulla valgono i suoi tentativi di liberarlo. La sua influenza e le sue pressioni risultano inutili, forse addirittura controproducenti.
C’è qualcosa che fa ricordare il rapporto del cittadino con il “potere” analizzato a fondo da Kafka, ma il passo di Selimović è molto diverso, meno analitico e astratto, più emotivo.
Quando nell’enigmatico romanzo “Il Castello” K si finge agrimensore, Kafka descrivendo la vicenda in terza persona svela che con l’azzardo di quella menzogna il suo alter ego ha lanciato una consapevole sfida al “potere”. Ed ecco che dai meandri del Castello la voce di un grigio funzionario lo chiama al telefono, confermandolo nel ruolo che non gli compete e accettando così quella sfida. Sullo sfondo della linea disturbata si ode un tappeto di suoni misteriosi e s’intuisce un complicato passaggio di direttive che nulla svelano delle gerarchie che le hanno generate, regole non scritte di un’organizzazione solida e complessa. La metafora della burocrazia impenetrabile che controlla e comanda la vita dei cittadini è la grande visione profetica di Kafka.
Nel romanzo di Selimović assistiamo a un “potere” che agisce in un teatro lontano nel tempo, alla periferia di un impero che non esiste più, ma in un conteso molto più realistico. Il monologo in prima persona ci fa vivere tutto il peso del dramma. L’arrogante Cadì (una specie di Prefetto che amministra arbitrariamente la giustizia) non accetta il benché minimo rapporto di mediazione con Ahmed Nurudin ma lo illude con la prospettiva di un “do ut des”: se aiuterà sua moglie in una delicata questione di eredità forse allora… Come in una beffa atroce, invece di dare allo sceicco il tempo di ottenere un risultato e senza alcun preavviso, il Cadì ordina l’esecuzione del prigioniero, che viene strangolato dai suoi carcerieri senza un pubblico processo né alcuna una possibilità di difesa.
La corruzione, l’intrigo e l’ingiustizia, che hanno accerchiato e ferito lo sceicco/derviscio, ben presto prendono il sopravvento, trasformando anche lui in un uomo vendicativo, pronto a sporcarsi le mani e la coscienza.
Avevo sentito parlare di questo romanzo avendo frequentato molto la ex Jugoslavia tra il 1997 e il 2003 per una parte delle riprese di due film che ho diretto (“Mare Largo” e “Ilaria Alpi: Il più crudele dei giorni”) ma la volontà di leggerlo è stata stimola in seguito dalla visione di un film di Alberto Rondalli “Il derviscio” (2001).
Il film racconta molto bene questa storia con rigore formale e narrativo in linea con l’atmosfera delle pagine di Selimović. Alberto è un amico ritrovato dopo anni di silenzio… una buona occasione per rivedere il suo film.
La regia, che all’epoca mi era sembrata “classica”, dimostra oggi il coraggio della scelta di un ritmo che senza la fretta progressivamente imposta al cinema del linguaggio dominante della televisione, fa vivere il dramma con il giusto andamento. Un clima da tragedia greca accompagna l’amaro destino di Ahmed Nurudin, già scritto nelle stelle… ma lui non poteva vederlo, così impegnato a vivere un’esistenza sospesa in una dimensione quasi irreale, fatta dei suoi piccoli privilegi, impegnato ad adempiere con serietà e rigore a quel ruolo, fino a che il “reversal of fortune” che in qualsiasi momento ognuno di noi potrebbe incontrare dietro l’angolo, lo riporla alla realtà degli uomini.
“Il derviscio e la morte” fu immediatamente riconosciuto per quello che era: un classico. I due romanzi successivi di Selimović, “La fortezza” e “L’isola”, entrambi di altissimo livello, completano una straordinaria trilogia… ma “Il derviscio e la morte” fu accompagnato da un fenomeno di adesione totale e la sua stella fu irripetibile, tanto che diventò un testo diffuso nelle scuole della ex Jugoslavia, paragonabile per il suo peso specifico a “I promessi sposi” in Italia.
Come Kafka, che un ventennio prima di Orwell prevedeva lo scenario estremo di un mondo globalizzato, così Selimović nel suo microcosmo definisce le coordinate dell’egoismo e della ferocia nei rapporti, la corruzione cronica, lo spregio dei diritti umani. Un dramma personale di Selimović (la fucilazione di suo fratello) è stato rielaborato nel romanzo in una visione molto più ampia e universale che gli conferiscono l’autorevolezza di una visione profetica.
Le oligarchie economiche, le consorterie del potere che controllano il mondo non hanno più alcuno scrupolo e nelle guerre moderne sempre di più sono i civili a pagare un prezzo altissimo. Il lavoro dei giornalisti prima e degli storici poi, è davvero molto difficile perché le variabili e i possibili punti di vista sono sempre molteplici e le ragioni non sono mai bianche o nere. Si tratta sempre d’interpretazioni, di sintesi che non potranno mai dare un quadro completo ma possono però suggerirlo, indicando una direzione, limitando le possibili chiavi di lettura.
Ho visto di recente un bellissimo documentario, “The Vietnam War” di Ken Burns e Lynn Novick, dieci episodi per un totale di diciassette ore, che ripercorrono per intero tutte le fasi della guerra dai primi fuochi negli anni 50’ alla sua conclusione nel 1975. Costo di produzione 30 milioni di dollari, dieci anni di lavoro. L’incredibile sequenza di crimini di guerra perpetrati dagli americani è qualcosa d’inimmaginabile. Con le loro decisioni dettate dall’opportunità politica Kennedy, Johnson e Nixon si sono macchiati di delitti atroci contro l’umanità, con l’unica giustificazione possibile dell’ottuso spauracchio del comunismo nell’ottica deformata della guerra fredda.
Qualche anno fa a Londra, a South Kensington, sono stato ospite di Afdera Franchetti, un’ottantenne che conserva intatto il suo charme seduttivo e la sua bellezza. Il suo strano nome viene da un vulcano della Dancalia, un vasto territorio che comprende Gibuti, parte dell’Eritrea e dell’Etiopia, percorsa in lungo e in largo da suo padre Raimondo, grande esploratore, ricchissimo e illuminato. Afdera èstata sposata con Henry Fonda per una decina d’anni. A soli 23 anni è diventata così la matrigna di Jane Fonda che aveva solo sei anni meno di lei. “Sono stata una pessima matrigna!”mi ha confessato. Dopo dieci anni si era stufata di Henry Fonda “… un marito adorante e perfetto. Un santo!” Aveva incontrato un altro Henry, inglese, un uomo sposato con il quale aveva avuto altri dieci anni d’amore, pieno di drammi e di emozioni. Nella sequenza cronologica dei suoi uomini era stata poi la volta di un altro inglese, un giudice, con il quale si era trasferita a Hong Kong.
Che donna fantastica! Avrebbe fatto perdere la testa anche a me. Mi ha affascinato a ottant’anni suonati, figuriamoci se l’avessi incontrata negli anni d’oro! L’ultima sera Afdera suggerisce di andare a cena in una rosticceria vicino a casa, un posto semplice, ma molto famoso a Londra per i suoi polli arrosto, consegnati agli indirizzi più prestigiosi della città.
Quando usciamo dal suo palazzo c’è un portiere che non avevo ancora visto… ce ne sono cinque a rotazione.
“Questo è iracheno: sua nonna era la sorella di Saddam Hussein. Dice che era un genio, tradito e pugnalato alle spalle dagli americani.”
Poco dopo, alla rosticceria, incontriamo la proprietaria, una siriana. Afdera me la presenta come “ammiratrice di Bashar al-Assad, quell’orribile dittatore che ha ucciso migliaia di bambini”… e lo dice davanti a lei, apertamente, in inglese!
La siriana abbozza un mezzo sorriso rassegnato e suggerisce di cambiare argomento per evitare discussioni.
Meglio non inimicarsi il gestore di un ristorante dove stai per mangiare e intervengo anch’io, senza prendere una posizione su al-Assad, ma sapendo di farla contenta.
Il mio discorso, abbastanza scontato, diceva più o meno così:
“In duecento cinquant’anni di storia gli Stati Uniti hanno avuto solo diciassette anni di pace… I veri affari si fanno solo se ci sono delle guerre in corso. Ogni volta c’è una buona scusa, sostenuta da una potente propaganda… Salviamo questi poveracci da questa terribile dittatura!!! Il vero fine è quello di attivare una guerra: la popolazione civile e sempre sacrificabile, milioni e milioni di morti. Dopo aver causato l’ultima disastrosa crisi economica mondiale gli americani ne sono usciti benissimo, mentre l’Europa, ancora in un mare guai, è accerchiata da nuovi conflitti… e deve fare i conti con l’invasione di milioni di disperati che dalle guerre e dalla miseria cercano di fuggire… e con un integralismo islamico sempre più feroce e organizzato, infiltrato anche dentro i suoi confini.”
La siriana annuisce soddisfatta: il pollo arrosto è all’altezza della sua fama.
Al di la delle parole che in poche frasi possono spostare il baricentro della ragione… che cosa c’è dietro a un conflitto come quello scoppiato in Siria nel 2011? Un amico Siriano, trasferitosi in Italia per ragioni di lavoro sei mesi prima dello scoppio della guerra civile, mi ha detto che nessuno avrebbe mai immaginato la possibilità di una simile evoluzione. La solidità del regime non dava adito a una tale ipotesi… eppure l’interesse delle forze in gioco ha fatto partire un altro genocidio per il controllo di un territorio ricco in una posizione strategica.
I continui spostamenti del baricentro dell’informazione e la quantità dei dati che ci arrivano ci fanno dimenticare presto i singoli eventi. Ormai la “memoria corta della storia” è una condizione cronica che permette di far passare con relativa leggerezza anche la peggiore delle notizie, spesso già manipolata nella sostanza.
Quanti si ricordano che il 14 aprile 2018, una coalizione formata da Stati Uniti, Inghilterra e Francia, ha bombardato obbiettivi strategici in Siria come reazione al presunto utilizzo di armi chimiche da parte del regime di al-Assad…?
Un centinaio di civili vicini ai ribelli integralisti islamici, erano stati eliminati come topi, con il gas. Il bombardamento era quindi “giustificato e necessario”.
Quasi nessuno si ricorderà che negli anni della guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) gli iracheni hanno spesso utilizzato armi chimiche i cui componenti venivano forniti da aziende europee e americane, uccidendo decine di migliaia di Iraniani… ma poiché all’epoca tutti i paesi occidentali e gli USA sostenevano Saddam Hussein, nessuno ha parlato. Paradossalmente l’unico paese ad aiutare sottobanco l’Iran fu Israele, ben consapevole del pericolo di un’eventuale vittoria di Saddam. Un’altra guerra quasi dimenticata quella tra Iran e Iraq, che in otto anni provocò circa un milione di morti.
La coscienza critica e la logica sono orami appiattite alla superfice delle notizie riportate dalla stampa: a distanza di poche settimane gli oltre cento morti gassati, come gli altri morti a causa del bombardamento, sono già nell’oblio.
Ormai non ci si pensa quasi più che nel marzo del 2003 George W. Bush, con la complicità di Tony Blair e altri, decise l’attacco al regime di Saddam Hussein in Iraq, dando inizio a una destabilizzazione del pianeta sulla base di una serie di menzogne ormai evidenti.
Azioni decise e perpetrate dal più forte, modalità di cui nemmeno ci si scandalizza più… E cosa dire dei Francesi, che dopo aver tramato con successo, forti dell’appoggio americano, per convincere il mondo ad agire contro il regime di Gheddafi con il conseguente disastro di dimensioni incalcolabili per le prossime generazioni di europei, si permettono di dare delle lezioni di etica sulla gestione degli immigrati mentre la loro gendarmerieprovvede ad intercettarli sul nostro confine rispedendoli sistematicamente in Italia con estrema durezza.
Nel caso della guerra in Iraq, come per il bombardamento in Siria, le dimensioni quasi epiche di queste guerre-spettacolo, trasmesse in diretta dalle TV di tutto il mondo, hanno zittito per un po’ i dubbi di chi normalmente si pone delle domande, con l’idea strategica che se proprio devi dire una bugia è meglio dirla grossa!
Donald Trump, Theresa May e Emmanuel Macron hanno sfoderato le loro certezze con l’abituale arroganza consigliabile ed efficace in questi casi a discapito di una logica che dovrebbe far sorgere dei dubbi.
Sarebbe il caso di tenere presente che…
- La Siria è l’unico paese arabo che non ha debiti con il Fondo Monetario Internazionale, con la Banca Mondiale, ne con chiunque altro.
- La Siria è l’unico paese arabo con una costituzione laica che non tollera i movimenti integralisti islamici, combattuti con metodi spesso estremi.
- La famiglia Assad appartiene alla corrente sciita minoritaria alauita, moderata e tollerante, e se pure in un regime duro e assolutista ha un’approvazione molto alta dalla popolazione.
- Le donne siriane non sono obbligate a indossare il velo e hanno gli stessi diritti degli uomini. La Sharia (la legge islamica) in Siria è anticostituzionale.
- La Siria ha vietato gli alimenti genericamente modificati (OGM), sia la coltivazione che l’importazione.
- E’ l’unico paese del Mediterraneo interamente proprietario del suo petrolio e non ha mai privatizzato le imprese statali. Riserve 2,5 miliardi di barili. Produzione 500mila barili al giorno.
- Circa il 10% della popolazione siriana è cristiano, presente nella vita politica e sociale mentre negli altri paesi arabi non raggiunge l’1% a causa delle persecuzioni e della poca tolleranza.
- La Siria era il solo paese pacifico della zona, senza guerre o conflitti interni, con un’apertura verso la società e cultura occidentale paragonabile solo a quella del Libano di un tempo e dell’Iran quando regnava lo Scià.
Per quale motivo al-Assad avrebbe ordinato l’utilizzo di armi chimiche quando stava sconfiggendo gli integralisti islamici? Perché offrire un simile pretesto rischiando una reazione giustificata da parte della comunità internazionale?
Non è più logico che qualcuno abbia tramato nell’ombra sacrificando un centinaio di civili per giustificare un’azione militare contro il regime siriano? Gli stessi integralisti sono quelli che avevano più da guadagnarci… Se non ci fossero la Russia e l’Iran a spalleggiare il regime siriano è probabile che avremmo già assistito a un epilogo simile a quello dell’Iraq e ci troveremmo con un altro paese integralista, totalmente instabile.
Il regime dittatoriale di al-Assad non è difendibile da un punto di vista etico, come non lo erano Saddam Hussein, Gheddafi o Mubarak… ma quali sono i rischi in un mondo globalizzato se i paesi di maggiore peso possono intervenire impunemente con la forza contro altri paesi più deboli? Perché nessuno è intervenuto a fermare i tanti massacri africani? Perché nessuno parla della guerra civile in Yemen scoppiata nel 2015 che ha già causato decine di migliaia di morti? Persino la guerra nei Balcani (1991-2001) scoppiata nel cuore dell’Europa, si è consumata sotto gli occhi del mondo, con 250mila morti, orrori indicibili, massacri e pulizia etnica… La risposta è semplice: quasi sempre gli interventi o gli aiuti militari concessi/imposti a una delle parti coinvolte in una guerra civile seguono l’interesse economico o strategico di chi li attiva.
La destabilizzazione del mondo islamico e del nord Africa, hanno portato a un indebolimento progressivo dell’Europa. Brexit non sarebbe stata pensabile in un contesto diverso.
Lo “scontro di civiltà” che ormai ogni giorno insanguina il mondo, come Samuel P. Huntington aveva previsto con largo anticipo, è motivato in superficie dall’identità religiosa ma certamente in profondità è radicato agli interessi delle grandi economie. All’inizio degli anni 90’ nel suo saggio “The Clash of Civilizations”, Huntingtonsostenevache le cose inizieranno a migliorare solo intorno al 2032.
La sua analisi basata sullo studio dei flussi migratori, le variazioni demografiche e gli spostamenti del baricentro dell’economia, all’epoca fu rigettata con sdegno e pesantemente criticata… ma oggi sappiamo che ci aveva visto giusto.
La propaganda anglo-americana continua ad attaccare, ben sapendo che il baricentro del mondo non è più in occidente e che ogni strategia sembra lecita per procrastinare il più possibile la decadenza. Le guerre sono il sistema più efficace perché cambiamo le carte in tavola, sono un affare miliardario che rigenera e indirizza i flussi economici permettendo un riassetto degli equilibri.
Un’amica Iraniana mi ha racconto che nel suo paese girava una voce: Saddam non è mai stato giustiziato e a fare una brutta fine al suo posto c’era uno dei suoi sosia. Non ci sono sull’identità del cadavere di Saddam che secondo questa voce vivrebbe da qualche parte in Italia.
E ancora: Edward Snowden, il “traditore” americano rifugiato a Mosca, ex agente dalla CIA che ha diffuso informazioni classificate sottratte alla National Security Agency (per molti un eroe che ha avuto il coraggio di svelare al mondo un’incredibile e illegale intromissione nella privacy da parte dell’intelligence americana) sostiene che Osama Bin Landen vive tranquillo da qualche parte a spese della CIA che gli passerebbe un appannaggio di 100mila dollari al mese.
Fantasia o realtà? Ovviamente non lo sapremo mai, ma per come va il mondo potrebbero benissimo essere storie vere.
Il 2 ottobre 2018 Jamal Khashoggi, giornalista saudita del Washington Post, critico nei confronti del regime del suo paese, è stato attirato in una trappola nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, dove avrebbe dovuto ottenere i documenti necessari al suo matrimonio. Lo hanno torturato, trucidato, fatto a pezzi e dissolto nell’acido per ordine diretto delle più alte sfere del regime saudita. Eppure contro l’Arabia Saudita e le sue immense riserve di petrodollari, nonostante una barbarie degna del peggior medioevo, nessuno si attiva per una condanna e delle pesanti sanzioni, che invece Donald Trump impone nuovamente all’Iran. Eppure in Arabia Saudita la situazione è ben peggiore di quella dell’Iran dal punto di vista dei diritti umani. A questo proposito è doveroso segnalare il coraggioso documentario di James Jones “Saudi Arabia Undercover”, dove grazie a una telecamera nascosta si entra in un modo sconosciuto e inquietante. Prodotto per Frontline PBS, questo documentario è stato realizzato nonostante il concreto rischio di arrestato e fustigazione sulla pubblica piazza di Riyadh, dove nel film vengono documentate le tracce di sangue di una delle tante esecuzioni sommarie per decapitazione.
Persino la musica è vietata in Arabia Saudita. Le donne non contano, non possono guidare una macchina e spesso sono oggetto di soprusi e violenza… ma senza un uomo che le accompagni non hanno nemmeno il diritto di fare una denuncia.
Anche per gli attentati dell’11 settembre 2001 i sauditi ne sono usciti “puliti” nonostante ben quindici dei diciannove terroristi coinvolti (e lo stesso Osama Bin Laden) venissero dall’Arabia Saudita. Gli interessi economici vincono sempre.
Non c’è dato di sapere cosa ci sia nelle registrazioni audio che i servizi segreti turchi hanno condiviso con USA, Francia, Germania e con il regime di Riyadh… ma quello che contengono ha costretto i sauditi a cambiare la loro prima versione dei fatti. Dopo avere mentito spudoratamente sostenendo che Jamal Khashoggi era uscito dal consolato vivo e vegeto, hanno ammesso che a causa di un “incidente” era deceduto all’interno del consolato… un interrogatorio “andato male”.
Peccato che le autorità turche avessero già identificato una “squadra della morte” composta da dodici persone partite da Riyadh, inviate a Istanbul allo scopo di assassinare il giornalista caduto in disgrazia, in esilio volontario da circa un anno negli Stati Uniti per paura delle conseguenze dopo che aveva apertamente criticato l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman.
E’ una fredda giornata di sole a South Kensington.
“Mi sento una sopravvissuta” dice Afdera poco prima della mia partenza. In quei pochi giorni di convivenza, stimolata dalla mia curiosità, si è trovata a ripercorrere il lungo cammino della sua vita e adesso si sente un po’ scombussolata, forse anche disturbata dall’intromissione consenziente nella sua privacy.
Il mio pensiero va alla sequenza di eventi della sera precedente: i racconti fantastici sul padre Raimondo esploratore in Africa, l’incontro con il portiere iracheno, con la ristoratrice siriana e il suo favoloso pollo arrosto…
Un pronipote di Saddam Hussein e una sostenitrice di al-Assad si ritrovano a poche centinaia di metri l’uno dall’altra in uno dei quartieri più esclusivi di Londra, come altri milioni di disperati sono finiti in ogni angolo del mondo, spinti dalle guerre e dalla miseria. Due storie, tra mille e mille, in questo caso collegate dalla conoscenza comune di una vecchia signora italiana, che dopo una vita privilegiata da giramondo si è ritirata a Londra per ritrovare una routine, un’esistenza tranquilla e serena per il tempo che le rimane. Quello che tutti cercano.
Ferdinando Vicentini Orgnani
PS
La fine agghiacciante di Jamal Khashoggi mi ha scosso nel profondo e non riesco a smettere di pensarci: un simile orrore non è compatibile con una civiltà che si avvale di organizzazioni internazionali nate per regolare e punire gli eccessi degli stati “canaglia”, aggressivi, retrogradi, spietati… ma questa categoria non compete a chi può contare su una riserva stimata in circa mille miliardi di petrodollari. A Jamal Khashoggi e alla sua famiglia dedico questo approfondimento.
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