Circa sei mesi fa, nel tardo pomeriggio, uscivo da un cinema in una grande città americana… Un autobus bianco di medie dimensioni, con una ventina di persone a bordo, procedeva a velocità sostenuta sul lato opposto della strada e proprio quel movimento tra tanti, chissà perché, per qualche secondo aveva attirato la mia attenzione.
La panoramica del mio sguardo, da destra a sinistra, ha superato l’autobus fino a soffermarsi su una ragazza in scooter che usciva da una via laterale. Tutto dev’essere durato al massimo tre secondi, incluso il violento impatto. Per una strana combinazione cinetica, invece di essere sbalzata con la moto sul lato della strada, la conducente è finita davanti al veicolo che nonostante la frenata, per inerzia ha continuato ad avanzare per alcuni metri. Ricordo lo schianto parzialmente coperto dal rumore del traffico e il sinistro sobbalzo della massa dell’autobus che passava con le sue venti tonnellate sul corpo inerte della ragazza.
Consapevole della gravità di quanto avevo appena visto, mi sono allontanato per il disgusto di assistere al morboso accorrere dei curiosi.
In pochi minuti da ogni direzione sono arrivate almeno cinque auto della polizia a sirene spiegate e subito dopo un’ambulanza. Dalla coda di auto che aveva cominciato a formarsi anche nella direzione in cui mi stavo allontanando, si poteva intuire che l’intera zona era bloccata.
Più tardi ho cercato su Internet la notizia dell’incidente. Mi ero sentito in dovere di scoprire se la ragazza fosse sopravvissuta… non per curiosità, era come se non mi potessi esimere dal sapere, dall’andare fino in fondo, per l’intersecarsi delle nostre vite a soli venti metri di distanza, nella stessa città, in quella stessa strada, dove infinte casualità ci avevano portato a passare proprio quel giorno, proprio a quell’ora. Speravo in un “lieto fine” ma la ragazza era morta sul colpo. Solo poche ore dopo sulle newsgià era stata pubblicata una fotografia con il nome di una giovane donna di trent’anni, African American. Se fossi rimasto in sala a vedere tutta la sfilza dei titoli di coda non avrei visto l’impatto e la conseguente morte in diretta che ricorderò per il resto della vita… Se lei avesse tardato solo di pochi secondi, per un rallentamento nel suo percorso, per una telefonata ricevuta o per un’incertezza nell’accensione dello scooter, sarebbe ancora viva.
Ogni tanto l’immagine di quell’autobus che travolge il peso effimero e la vita di quella ragazza, mi torna alla mente.
Con il tempo mi sono accorto di aver completamente dimenticato il resto della giornata, quello che avevo fatto la mattina, dove ero stato a pranzo, chi avevo incontrato… e anche il film.
Ho provato a concentrarmi per recuperare almeno qualche frammento: niente, un vuoto assoluto, come se lo shockdi quella morte violenta avesse spazzato via tutto. Sentivo un forte disagio, quasi fisico, un senso di dolore per quella morte inutile, per lo speco di una vita dovuta a una disattenzione di pochi centimetri, forse a un freno non revisionato, oppure a qualche dettaglio all’apparenza insignificante che nella combinazione di cause ed effetti è risultato fatale.
Ma ecco che invece, pochi giorni fa, quando per un’associazione del pensiero mi è tornata alla mente la ragazza travolta dall’autobus bianco, mi sono accorto che quella spiacevole sensazione di disagio, di morte, s’erano come dissolti e quello che sentivo era qualcosa di paragonabile a una loro eco lontana. La memoria dell’evento era intatta ma il suo effetto non era più così disturbante.
Mi sono chiesto come mai… Forse per il passare del tempo che lenisce ogni cosa? Come per una delusione d’amore che di primo acchito può far provare un dolore fisico, chiudere lo stomaco, impedire il sonno… ma poi un po’ alla volta i brutti pensieri se ne vanno e torna la normalità.
La risposta è in una sola parola: SEROTONINA.
Nella mia piccola riflessione/indagine mi ero chiesto che cosa fosse cambiato negli ultimi tempi da poter modificare la mia percezione di quell’evento traumatico e l’unica variazione era l’aver iniziato una cura a base di un particolare integratore alimentare su consiglio del Dottor Camillo De Felice, un caro amico farmacista, poeta, straordinario performer, originario di un paese alle falde del Vesuvio… In effetti Pamela, la sua fidanzata, aveva accennato a un possibile “effetto collaterale”, un senso di pace, un lieve distacco dalle cose del mondo, la sensazione che i problemi della vita siano comunque superabili, privi d’importanza e di peso.
Camillo mi ha spiegato che questo integratore alimentare contiene un mix di lipidi estratti dall’Olea Europea e dal Theobroma cacao, che aiutano a regolare la fluidità della membrana dei neuroni. Se la membrana neuronale risulta troppo rigida o troppo fluida, non riesce ad esprimere i recettori su cui va a legarsi la Serotonina, neurotrasmettitore che a livello del sistema nervoso centrale stabilizza l’umore (è comunemente detto “l’ormone del buon umore”). Metaforicamente, la serotonina rappresenta la chiave, il recettore la serratura: più serrature ci sono, più chiavi possono essere inserite e di conseguenza maggiore sarà l’effetto sull’umore. Quindi, una giusta fluidità della membrana, porterà a un maggior numero di recettori che legheranno un maggior numero di molecole di Serotonina.
Questo integratore si chiama “Serobrain”, agisce in modo naturale, non apporta sostanze attive ma ne regola l’utilizzo.
Il Serobrain contiene la Curcumina che ha azione anti-infiammatoria (i radicali liberi producono infiammazione)… l’Astaxantina e l’alfa-Tocoferolo che sono carotenoidi con azione antiossidante e anti-radicalica, fondamentali per sostenere l’asse intestino-cervello… la L-teanina, che aiuta a ridurre lo stress psico-fisico e facilita le funzioni cognitive. Infine le vitamine E, C, e B6, supportano l’efficienza e le funzioni dei neuroni. Il Serobrain quindi funziona come una specie di antidepressivo naturale che oltre alla sua funzione primaria di mitigare l’infiammazione latente nell’intestino e nel sistema nervoso centrale, contribuisce al buonumore.
La serotonina fu isolata per la prima volta nel 1935 da Vittorio Erspamer, un farmacologo italiano che inizialmente la classificò come un polifenolo. Due anni dopo venne chiamata “enterammina” e solo nel 1948 assunse il nome definitivo di “serotonina”.
Il nostro cervello è un organo estremamente complesso ed è facile capire dai nostri cambiamenti di umore quanto siano inspiegabili molti dei suoi meccanismi. Delle volte ci sentiamo benissimo, in equilibrio con noi stessi, con la sensazione di essere invincibili e pieni di energia… ma altre volte, in condizioni pressoché identiche, ci possiamo sentire molto giù, stanchi di impegnarci, soffocati dalla costrizione di dover agire per continuare a risolvere problemi e fastidi che inevitabilmente si presentano sulla nostra strada.
La serotonina è alla base di diversi psicofarmaci in commercio ma la sua assunzione diretta e “artificiale” (con un dosaggio sufficiente a ottenere l’effetto desiderato) provoca degli effetti collaterali, come ad esempio la perdita di libido, del desiderio sessuale, poiché a differenza di quella naturale, inibisce la sintesi del testosterone.
Il perché di questa differenza è ignoto.
Tutto ciò è descritto molto bene in “Serotonina” (pubblicato da “La nave di Teseo”) l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, scrittore abituato alle provocazioni di cui in passato avevo letto il folgorate romanzo d’esordio “Particelle elementari” (1999) e poi “Piattaforma” (2001). Mi sono perso “Sottomissione” (2015), un romanzo fantapolitico che ipotizza la vittoria del partito mussulmano alle elezioni presidenziali del 2022 in Francia… ma conto di leggerlo entro la fine dell’estate.
Comunque… ecco che diciotto anni dopo ho ritrovato Houellebecq in piena forma, alle prese con una trama molto originale, dove il disegno e così imprevedibile, l’artificio è così ben nascosto da sembrare “vita reale”, salvo qualche eccesso che per questo scrittore è inevitabile poiché parte integrante del suo stile. La fidanzata del protagonista per esempio, giapponese e ninfomane (ben oltre “Tokyo decadence”), che non si accontenta delle orge nei club degli scambisti ma dimostra la sua estrema perversione intrattenendosi sessualmente con dei cani, non è specificato se consenzienti.
Il protagonista della storia è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura che ormai possiede un’esperienza e una lucidità tale da saper spiegare senza peli sulla lingua come le politiche europee abbiano dovuto fare delle scelte, discriminando alcune categorie a favore di altre o del “bene comune”, secondo equilibri planetari che inevitabilmente producono delle vittime sacrificali. In questo caso le vittime sono gli allevatori francesi che con le “quote latte”, com’è successo in Italia, sono finiti sul lastrico.
La messa in scena della “rivolta armata” di questa categoria che finisce con una strage è un’estremizzazione di Houellebecq, ma non lontana dalla realtà… lo abbiamo visto di recente anche in Sardegna, dove gli allevatori per protesta hanno rovesciato decine di ettolitri di latte sulle strade piuttosto che accettare un prezzo irrisorio che li porterebbe alla rovina.
La “caduta” del protagonista di questo romanzo a suo modo filosofico, si evolve nel giro di poco più di un anno, da quando si licenzia e inizia a vivere girovagando alla ricerca di un luogo dove poter vegetare, ma sistematicamente gli eventi lo costringono a doversi muovere, e ogni volta la situazione peggiora, il suo isolamento si fa più accerchiante e irreversibile. Il medico che lo assiste nel suo calvario post moderno accerta con sorpresa un altissimo tasso di “cortisolo” nel suo sangue, tale da rischiare di farlo “morire di tristezza” dopo averlo portato all’obesità e alle conseguenze fisiche di una degenerazione senza ritorno. Cerca di convincerlo a ridurre e poi interrompere l’assunzione di serotonina, ma il nostro anti eroe non lo ascolta.
Non riuscendo a ricordare il film spazzato via dallo shock dell’incidente, il mio pensiero va a un film che non potrò mai dimenticare, non perché sia un capolavoro, ma è un film francese molto speciale, tratto da un bellissimo romanzo breve di Antonio Tabucchi, “Notturno indiano”.
E’ del 1987, diretto da Alain Corneau, un regista interessante, che in questo caso ha scelto la via della fedeltà quasi assoluta al romanzo. Ci sono solo alcune trovate di sceneggiatura che si allontanano del testo originario, ma nella sostanza la storia segue passo passo la trama del libro, utilizzando anche le stesse didascalie che descrivono i luoghi.
Il viaggio del protagonista (interpretato da un delicato e sensibile Jean-Hugues Anglade) alla ricerca del suo amico portoghese Xavier “perso in India”, segue un percorso pianificato che progressivamente si va a modificare adattandosi alle casualità degli incontri, alle tracce, alle notizie frammentarie che riesce a scoprire strada facendo. A Bombay, una prostituta con la quale il suo amico aveva una relazione, gli rivela che negli ultimi tempi era molto cambiato, aveva un serio problema di salute… e poi che era in contatto con una misteriosa “società teosofica” di Madras. Anche lei non ha notizie di Xavier da più di un anno.
Rossignol, questo e il nome del protagonista della storia, si reca nel più grande ospedale della città, dove non riesce a trovare il suo amico, ma si intrattiene a lungo a parlare con un cardiologo che mentre cerca di aiutarlo nella ricerca tra i padiglioni del gigantesco e labirintico ospedale, gli spiega i paradossi del suo paese… lui stesso può essere considerato una paradosso, avendo studiato cardiologia a Londra, quando in India si muore di tutto ma non di cuore.
A Madras l’incontro con una specie di guru, o gran maestro che sia della società teosofica, è uno scontro in punta di fioretto tra due culture. Alla fine, forse grazie alla condivisione di un aneddoto sulle ultime parole del grande poeta portoghese Fernando Pessoa, la reticenza è vinta e il misterioso “teosofo” mostra a Rossignol una lettera di Xavier che risale a un anno prima… dove viene svelata una nuova traccia che lo porterà verso la fine del suo viaggio, a Goa.
Il film ha un andamento lento ma avvincente e sorprendete, immerso in un mondo pieno di tangibile spiritualità, dove sembra che nulla accada per caso… dall’incontro con una specie di mostriciattolo, un nano deforme che si rivela essere una veggente, a un compagno di viaggio in un vagone letto che lo sfiora con la sua drammatica vicenda di morte e di vendetta…
La conclusione è poetica e “circolare”. Rossignol ha un’illuminazione e capisce perché non è riuscito a trovare il suo amico da nessuna parte.
Semplice: ha cambiato nome. Nella lettera alla società teosofica, scritta in inglese, aveva accennato tra le righe di essere diventato “un uccello che canta di notte”… Un usignolo quindi, in francese “rossignol”, come il protagonista della storia… in inglese “Nightingale”…
Mr Nightingale, ecco chi deve cercare! E’ infatti, come il suo sfuggente amico aveva rubato e tradotto la sua identità, il protagonista della storia comincia a seguire le tracce di Mr Nightingale, che tutti conoscono e rispettano, ma nessuno sembra sapere dove trovarlo, fino a che… ecco finalmente un indizio preciso, strappato con una mancia al cameriere di un vecchio albergo, elegante ma un po’ decadente…
“Una volta Mr Nightingale era un buon cliente qui… ma ora hanno aperto due nuovi hotel di lusso sul mare e non possiamo più competere.”
Il cameriere gli fa capire in quale dei due alberghi è più probabile che troverà quello che cerca…
In quello splendido hotel sul madre di Goa, Rossignol incontra una giovane donna, una bellissima fotografa francese e senza necessariamente cercare un’avventura, finisce per cenare con lei nel magnifico giardino, sul bordo di una grande piscina.
Ed è li che Rossignol finalmente intravede Mr Nightingale, il suo amico Xavier, dal lato opposto, nella penombra del lume di candela, oltre il rettangolo d’acqua che li separa. Anche lui è con una donna… La trovata geniale del film è lasciare che il pubblico s’immagini tutto, senza mai indentificare la figura sfuggente di Xavier… ascoltando le parole di Rossignol mentre racconta alla ragazza quello che sta effettivamente accadendo in quel momento, come se fosse la trama di un romanzo che sta cercando di scrivere…
Alla fine della cena, quando Rossignol chiede il conto, il cameriere gli comunica che un altro cliente dell’albergo ci ha già pensato.
La conclusione della storia coincide con quella dell’ipotetico romanzo e porta il protagonista a capire che, come Xavier non voleva farsi trovare, lui non ha più voglia di cercarlo… e un loro incontro nel mondo reale non avrebbe alcun senso in quelle circostanze. Le vite dei due amici si sfiorano, forse per l’ultima volta: con grazia e discrezione ognuno andrà per la sua strada.
La circolarità del racconto riporta idealmente alle ultime parole pronunciate da Fernando Pessoa prima di morire…
“Datemi i miei occhiali!”
Era molto miope e voleva passare dall’altra parte vedendoci meglio possibile, così come Rossignol, forte del cumulo delle esperienze di una vita con il catalizzatore di quel viaggio molto speciale in India, ha trovato un nuovo equilibrio, una “seconda vista”.
Ferdinando Vicentini Orgnani
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