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CONTAMINAZIONI n° 6 – Da CARANDIRU a FUORI FUOCO – in memoria di Hector Babenco

Nel gennaio 2017 ci sono state delle gravi sommosse in tre grandi prigioni brasiliane. La prima nel carcere Anisio Jobim di Manaus, Amazonia: 56 morti più altri 4 in una struttura vicina. La seconda a Boa Vista, nel penitenziario statale di Porto Velho, nello stato di Rondonia: 33 morti. La terza nel penitenziario di Alcacuz, Stato del Rio Grande del Nord: altri 30 morti. Il conto supera i 120 morti… torturati, decapitati o bruciati vivi, e quasi altrettanti detenuti evasi.

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Il motivo scatenante per questi tre episodi di feroce violenza è il controllo del narcotraffico. Due organizzazioni criminali si combattono quotidianamente per la gestione di un mercato miliardario: la Familia do norte (Fdn) e il Primeiro Comando da Capital (Pcc), la banda San Paolo. Le faide all’interno delle prigioni rappresentano l’ultima frontiera dello scontro.

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Il Brasile è il quarto Paese al mondo per popolazione carceraria con oltre 622mila detenuti a fronte di una capacità che, secondi i dati ufficiali, sarebbe al massimo di 371mila.

La maggior parte della cocaina consumata in Brasile proviene dalla Bolivia. I circa 3.000 km di foresta amazonica sul confine tra i due paesi sono difficilmente controllabili e rendono il traffico molto agevole. I dati ufficiali parlano di quasi tre milioni di consumatori abituali in Brasile… qualche tonnellata al giorno quindi, ma altre centinaia di tonnellate transitano dai porti brasiliani verso l’Europa, l’Africa e l’oriente. Ormai è ampiamente documentato che molte cellule terroristiche, anche quelle degli ultimi sanguinosi attentati nel cuore dell’Europa, si finanziano grazie al narcotraffico… La catena causa/effetto che parte dagli oltre 40mila ettari di coca coltivati in Bolivia, porta quindi a delle conseguenze piuttosto gravi e complesse anche a casa nostra.

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In territorio boliviano operano ormai diversi cartelli colombiani e messicani che, grazie alle connivenze nelle alte sfere del governo, lavorano quasi indisturbati. In pochi anni dalla presa del potere del presidente Evo Morales, l’economia legata al traffico della cocaina ha guadagnato una posizione predominate.
Quello che aveva tentato di fare Pablo Escobar in Colombia negli anni ottanta è successo in Bolivia con una progressiva trasformazione a partire del gennaio 2006.

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Un’organizzazione criminale molto capace (i “Cocaleros”, coltivatori di coca del Chapare) ha ben compreso che le rivendicazioni legate all’uso tradizionale delle foglie di coca (usta dei contadini dell’altopiano per resister alla fatica dell’altura) non erano una bandiera efficace con l’opinione pubblica internazionale. Molto meglio farsi carico delle rivendicazioni delle popolazioni indigene della Bolivia, la cui esclusione sociale per centinaia di anni è innegabile. In un decennio, il processo democratico è stato sostituto da un potere assoluto mascherato da democrazia che controlla il traffico della cocaina e ha portato la Bolivia su un cammino molto pericoloso.
Il Brasile, nonostante gli enormi problemi interni di questa fase, si comincia finalmente a rendere conto dell’emergenza cocaina in arrivo dalla vicina Bolivia.

Quando ho avuto notizia delle sanguinose rivolte nelle prigioni brasiliane, ho subito pensato al bellissimo film di Hector Babenco sulla rivolta nel carcere di “Carandiru” e la violenta repressione delle forze speciali che il 2 ottobre 1992 entrarono sparando ad altezza d’uomo con il risultato di 111 morti. Il film è del 2003, l’anno dopo la demolizione della prigione, ormai macchiata dal peggior massacro della storia carceraria dal paese.

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Un’opera potente e realista, quasi un docu-film, che segue alcuni detenuti e le loro vicende, prima e durante la rivolta.

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Hector Babenco

Era un po’ di tempo che pesavo di scrivere un piccolo omaggio a Hector Babenco, dopo la sua morte avvenuta a Sao Paulo il 13 luglio 2016. Ho avuto l’occasione di lavorare come suo assistente durante le riprese di un film a Venezia nel 1998, dove Hector dirigeva la seconda unità e faceva anche un ruolo da attore. “The Venice project” (regia di Robert Dornhelm) è un film curioso, non completamente riuscito ma interessante, con un cast stellare che comprendeva Lauren Bacall e Dennis Hopper.
Con Hector è nata subito una reciproca simpatia e siamo sentiti per anni… Al festival di Rio nel 2000, dove ero invitato con il mio primo film (“Mare Largo”), Hector mi ha portato a una memorabile cena con Julian Schnabel che con “Before Night Falls” aveva appena vinto il premio speciale della giuria a Venezia. Un film straordinario, che lanciò Javier Bardem in America. Avevo già incontrato Julian a Venezia e quindi ero molto contento, ma dispiaciuto di essere seduto a tavola lontano da lui. Vicino a me c’era un tipo magro e discreto che a un certo punto mi chiese come mai mi trovavo a Rio… Per educazione anch’io gli feci qualche domanda. Disse che scriveva canzoni e poco altro. Quando la mia amica Uta mi venne a prendere mi disse con rammarico: “Perché non mi hai detto che eri a cena con Caetano Veloso, sarei venuta un po’ prima…” Non lo avevo riconosciuto!

Caetano Veloso
Caetano Veloso

Dopo Rio, con Hector ci siamo persi, per poi incontrarci di nuovo anni dopo, per caso, e abbiamo mantenuto i contatti fino alla fine.
L’occasione di questo ricordo personale di un grande uomo di cinema, è legata ad altre coincidenze: la fine del montaggio di un documentario che ho seguito per circa due anni, realizzato con la “casa circondariale” di Terni (la prigione in parole povere) in collaborazione con Rai Cinema, concluso il 14 febbraio 2017, giorno di San Valentino, patrono di Terni.

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L’idea di Chiara Pellegrini, appassionata e lungimirante direttrice del carcere, era quella di “ridare la voce ai detenuti” con la responsabilità della loro immagine fuori dal carcere. Per la prima volta (credo nella storia) sono stati loro a realizzare le riprese da “autori”, scegliendo contenuti e linguaggio. Il cambiamento del punto di vista è la cifra del film.
Il progetto è partito grazie a Oreste Crisostomi, che a Terni aveva iniziato un cineforum con i detenuti. Dopo vari cambiamento di percorso ha poi finalmente trovato una sua definizione produttiva, grazie alla determinazione di Sandro Frezza, che con me l’ha prodotto.
Sei detenuti (selezionali in accordo con la direttrice e con il comandate del carcere Fabio Gallo), hanno avuto in mano una telecamera per alcune settimane allo scopo di documentare la loro vita, in piena libertà di azione da registi-operatori, ovviamente nei limite della loro condizione… chi nella sezione “comuni”, chi in quella dei “semi liberi”, chi ormai in “affidamento” fuori dal carcere.
Ottenere i permessi non è stato facile, anche per le procedure legare alla sicurezza che devono essere sempre rispettate. Rosario, Alessandro ed Erminio vengono dalla Campania. Thomas da Milano, ma è cittadino svizzero. Slimane dal Marocco. Rachid dalla Tunisia.
Sei storie e personalità molto diverse. Per tutti e sei, condanne piuttosto pesanti: omicidio, rapina, spaccio di droga.
Il titolo “Fuori Fuoco” è nato durante il seminario per l’apprendimento dell’uso della telecamera… un po’ per scherzo, perché all’inizio molte riprese erano sfocate, ma può anche far pensare che ora i sei registi-detenuti sono lontano dal “fuoco delle armi” e del pericolo delle loro vite precedenti.

Entrare in un carcere, familiarizzare con un gruppo di detenuti e frequentarli per oltre due anni può riservare molte sorprese. Prima di tutto si rimane colpite dalle persone. L’intelligenza e la sensibilità dei detenuti che ho incontrato durante la lunga realizzazione di questo film mi porta a supporre che l’esperienza del carcere sia, nel bene e nel male, molto formativa.
“Chi galera non prova, libertà non apprezza!”
Una specie di proverbio che nel film viene pronunciato da Thomas, che si è formato e ha “lavorato” con gli ultimi componenti della banda Vallanzasca. La sua storia è particolarmente curiosa, perché viene da una “buona famiglia”. Non gli mancava nulla, ma fin da ragazzo si era sentito irresistibilmente attirato da una vita fuori dalle regole, una vita nel crimine. All’epoca, le bande operanti a Milano, avevano una specie di “codice d’onore” e le armi erano considerate un male necessario. Lo scopo era l’arricchimento, la violenza gratuita era impensabile.

La banda Vallanzasca durante il processo
La banda Vallanzasca durante il processo

Thomas aveva appena quindici anni quando cominciò a frequentare il bar dove alcuni personaggi della Milano criminale passavano il tempo, giocando a carte e ritrovandosi a bere. Erano rapinatori di banche della vecchia scuola, con una grande esperienza e un approccio quasi scientifico. Ben presto era diventato il “pinella”, il ragazzo di bottega che veniva mandato a comprare le sigarette e a fare piccole commissioni, ma niente di illegale. Per questo già riceveva delle mance, di molto superiori alla paghetta che i suoi genitori, del tutto ignari, gli passavano ogni sabato.
L’inizio della sua storia ricorda molto quella del personaggio interpretato da Ray Liotta in “Goodfellas” di Martin Scorsese.

Ray Liotta in "Goodfellas"
Ray Liotta in “Goodfellas”

Aveva iniziato facendo il palo, poi l’autista al cambio delle macchine… l’autista fuori dalla banca. Poi, siccome era molto giovane e aveva una faccetta d’angelo, i capi decisero di utilizzato per le “aperture”. Si presentava alla porta della banca prescelta, dove la guardia non esitava a farlo entrare… ma ecco che in pochi secondi arrivavano gli altri con le armi.
“Le rapine sono peggio della droga… perché ti danno una scarica di adrenalina, e ne vuoi sempre di più, al di la dei soldi.”
Thomas non è finito in galera per rapina, lo hanno fregato un po’ come Al Capone, con un accumulo di piccole pene in seguito a 23 controlli fatti a un indirizzo falso che aveva dato, dopo essere fuggito in Brasile mentre era in libertà vigilata. Quando è stato catturato, pensava ingenuamente di dover scontare un paio d’anni al massimo: ne ha avuti diciotto, ridotti poi a quattordici.

Al Capone
Al Capone

Rachid era in prigione per omicidio, pieno di rabbia e di rancore, ma un giorno aveva seguito il suggerimento di un educatore e si era messo a scrivere quello che pensava, trovando nella poesia la forma a lui più consona… nella sua lingua, ma anche in italiano, che orami parla con proprietà di linguaggio ed eleganza.
Nel film ci sono due poesie di Rachid. Una delle due è declamata da Gilberto, un altro detenuto: la sua voce su un montaggio d’immagini statiche.
Silenzio assordante
risiede nell’anima e nella mente.
Ne alba ne tramonto.
Ho visto momenti difficili
vissuti in angoli di buio
e giornate insignificanti.
Ho visto vite apparenti di esseri umani
sepolti vivi e morti viventi.
Ho visto draghi senz’ali, rassegnati,
inghiottiti dai cancelli.
Nel passeggio, pezzettini di carta
sotto il soffio del vento,
residui di urla interiori,
di una vita andata in brandelli.
Nel colloquio, fazzolettini
bagnati di lacrime,
da un’anima amareggiata,
e tanti, tanti baci, stampati
su quella maledetta vetrata.

Rachid ha pubblicato il libro delle sue poesie. Ormai è vicino alla fine della sua condanna, nel giro di un mese o due dovrebbe essere liberto.

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l’interno del carcere di Terni

Erminio faceva una vita apparentemente normale: una famiglia, un buon lavoro da trasportatore… ma poi, ogni tre/quattro mesi, lui e la sua banda, rapinavano un portavalori. Con la moglie e il figlio riusciva a giustificare un migliaio di euro in più ogni mese, con la scusa di qualche straordinario, e quindi qualche spesa extra, una vacanza, un regalino, qualche ristorante…
In realtà in cantina nascondeva centinaia di migliaia di euro: ogni mattina ne prendeva una mazzetta, tre/quattromila euro che poi consumava nel corso della giornata… donne, droga, gioco d’azzardo.
“Manie di grandezza, stupidità…”
La sua parte nell’ultimo bottino era di centotrentamila euro. Se avesse confidato alla moglie la sua doppia vita è certo che lei lo avrebbe lasciato e denunciato… ma quando l’hanno beccato (per una fatalità non prevedibile) è rimasta con lui e l’ha aspettato fino alla liberazione. In carcere ha scritto un libro in collaborazione con Gilberto, un altro detenuto, che è stato pubblicato dalla casa editrice AGA nel 2015: “Vademecum del detenuto. Manuale per sopravvivere in un carcere italiano”
Al momento delle riprese del film aveva già finito di scontare la sua pena e si trovava in una casa famiglia a Terni.

vademecum detenuto

Alessandro preferisce non parlare dell’episodio che l’ha portato a una lunga detenzione. Dopo una lite, era andato a casa a prendere la pistola. Era alterato, e aveva sparato con l’intento di uccidere… ma aveva sbaglio bersaglio, troncando la vita a una bambina che si trovava lì per caso. Il senso di colpa lo perseguita e non è un caso se nel suo percorso di riabilitazione abbia intersecato la vita di un ragazzo autistico, con il quale ha stabilito un rapporto molto speciale, con un reciproco sostegno, scambio di amicizia e affetto. Forse ha trovato la sua strada… sembra che abbia una vera capacità di relazione con questi ragazzi problematici e potrebbe continuare a lavorare in questo settore. Adesso è in semi libertà e ha trovato una ragazza con la quale spera di ricominciare.

Rosario ha un sorriso speciale, una stazza da rugbista, un carisma che si avverte ancora per un po’ nell’ambiente quando se ne va per tornare nella sezione dei semi-liberi… A Napoli ha una moglie e un figlio. Gli hanno dato 14 anni e 8 mesi per spaccio, quando aveva poco più di vent’anni.
E’ difficile comprendere la pesantezza di certe condanne quando sentiamo che fatti di cronaca con stupri, pedofilia e omicidi, spesso si concludono con pene molto più leggere. Chi non ha i mezzi per difendersi adeguatamente paga per tutti.
Rosario mi ha spiegato che il motivo della sua grave condanna è che aveva un fratello a Como… spacciatore anche lui.
“Ma non lavoravamo insieme… Ognuno per se.”
Ogni tanto si telefonavano per salutarsi e così gli hanno dato anche l’associazione a delinquere, con il relativo inasprimento della pena. Questa è la sua versione… Non ho letto gli atti del processo ma mi è difficile non credere alla parola di Rosario che sprizza simpatia, entusiasmo e speranza, nonostante la sua condizione.
A parte il rammarico di essersi perso dietro le sbarre gli anni della crescita di suo figlio, il suo ottimismo partenopeo lo porta verso un futuro che sono certo sarà migliore del suo passato.

Slimane è evaso, è fuggito in Marocco. Gli mancavano solo un paio d’anni e questa evasione è difficile da spiegarsi se non per l’inquietudine che lo accompagnava. Ogni tanto diceva di non farcela più… Il personaggio di Slimane apre e chiude il film.
Ormai aveva maturato il diritto a un permesso premio senza accompagnatore. Un cugino è venuto a prenderlo per portarlo a Perugia qualche giorno. Dopo essere andato alla caserma dei carabinieri a firmare, guadagnando ventiquattro ore, ha fatto perdere le sue tracce. Pensiamo che sia in Marocco, dove non esistono accordi per l’estradizione.
Non avrebbe senso per me giudicare le sue azioni, non ne so abbastanza, ma non posso che essere felice di saperlo finalmente libero, nel suo paese, con la sua famiglia.
La cosa straordinaria è che dopo la fuga, controllando il materiale da lui girato, abbiamo trovato una lunga ripresa notturna, fatta all’interno della sua cella. Con un notevole gusto dell’immagine e una “regia” davvero efficace, si è ripreso riflesso sul vetro della finestra che dà sul grande cortile interno della prigione, attraverso le sbarre. Un lungo monologo in arabo. Abbiamo chiesto a Rachid di tradurlo e il risultato è stato sorprendete. Slimane in quel momento di solitudine e disperazione racconta la sua storia. Alla luce delle decisioni che poi ha preso questa testimonianza rappresenta una specie di testamento spirituale, l’ultimo atto della sua partecipazione al progetto FUORI FUOCO. Un finale da brivido!
Da film maker a film maker: grazie amico.

Durante il festival di Cannes del 2010, poco prima della proiezione del film di Sabina GuzzantiDraquila – l’Italia che trema”, incontrai per l’ultima volta Hector Babenco. Erano passati dodici anni da quando avevamo lavorato insieme a Venezia, dieci dall’incontro a Rio.
Cannes riproponeva alcuni suoi film nella sezione “Classics”. Fui molto contento di quell’incontro fortuito, anche perché con un certo orgoglio gli potevo dire che ero invitato al festival come “produttore di un film della selezione ufficiale”.

Hector Babenco a Cannes
Hector Babenco a Cannes

Gli presentati Sabina e poi rimanemmo a parlare per un po’. Mi venne in mente, e glielo ricordai, una storia personale che mi aveva raccontato dodici anni prima a Venezia. Riguardava una donna che aveva lasciato un segno profondo nella sua giovinezza. Molti anni dopo l’aveva incontrata in Brasile. Hector era ormai un regista affermato, con una nomination all’Oscar. Inizialmente l’incontro era stato molto emozionante ma poi la cosa aveva preso una piega inaspettata. La sua antica fiamma gli aveva ricordato un episodio della loro giovinezza nel quale avevano fatto l’amore in modo particolarmente passionale e poi lui l’aveva accompagnata a casa con un vecchio pick up…
Già alcuni particolari del racconto non tornavano, ma a quel punto Hector aveva capito che, nel ricordo, il “grande amore della sua vita” lo aveva confuso con un altro. Lui non aveva mai avuto un pick up! E pensare che per quella donna aveva corso dei rischi gravissimi, ritardando la partenza dall’Argentina, suo paese natio: solo per una serie di fortuite causalità era scampato all’arresto ed era fuggito, prima in Italia, poi in Brasile dove sarebbe vissuto fino alla sua morte.

Dopo quell’incontro a Cannes ho ripreso i contatti con Hector, ma in due successive occasioni non siamo riusciti a incontrarci a Sao Paulo, quando fui invitato al festival nel 2013 (con “Un minuto de silencio”) e nel 2014 (con “Vinodentro”).

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La prima volta Hector non era in città, la seconda era in ospedale. Evidentemente non era destino che le nostre strade s’incrociassero ancora se non nel mondo virtuale della memoria che qui viene fermata e diventa una piccola storia.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

Ferdinando Vicentini Orgnani

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