E’ stato presentato oggi a Venezia, in anteprima mondiale il film inedito di Orson Welles. Più di 100 ore di girato montato da Bob Murawski e dal produttore originario del film rimasto incompiuto quando il maestro morì a metà degli anni ottanta.
Il protagonista è John Houston, una divinità assoluta della storia del cinema, e nella pellicola, girata in rigoroso formato academy, compaiono altri mostri sacri come Claude Chabrol.
Jake (Houston) è regista ridotto sul lastrico alle prese con la sua ultima opera rimasta (guarda caso) incompiuta a causa dell’abbandono del protagonista, fuggito dal set all’improvviso. Durante una festa organizzata per incontrare e convincere potenziali finanziatori a salvare la produzione, Jake proietta quanto è stato girato del film ad un eterogeneo gruppo di invitati. Le dinamiche tra il regista ed i partecipanti al party svelano pian piano il ritratto di Jake ed il segreto che sottende al rapporto tra lui e dil suo attore feticcio.
Singolare come l’ultima opera di Orson Welles sia profeticamente dedicata ad un’opera incompiuta. Si tratta di un mokumentary ante litteram sul mondo del cinema. Un film sul film. Una spirale autoreferzianle quale strumento per parlare non tanto della narrazione, ma del mondo del cinema stesso che viene qui ritratto come un manicomio (nella festa ci sono letteralmente nani e ballerine) che ruota attorno ad una storia, il film stesso, che senso non ha poco e spesso è noto solo al regista.
Mentre il film di cui narra la trama è a colori, le riprese della festa sono in bianco e nero. Dal punto di vista diegetico il fatto è dettato dalla mancanza di luce e dalla modesta qualità delle macchine da presa amatoriali, in realtà è funzionale a sottolineare la mancanza di vita , di colore appunto, dello squallido mondo della produzione e della finanza da cui in qualche modo il cinema dipende. In realtà le inquadrature e la fotografia è accuratamente studiata e per nulla casuale, anzi si vede l’impronta di Welles che anche in mezzo ad una fitta catena di dialoghi non rinuncia a parlare in realtà con le immagini. Lo stile appari oggi poco rivoluzionario e lo era in realtà già negli anni 80, con frequenti rimandi al Beat ed alla psichedelia, ma non era questo lo scopo dichiarato che rimane invece il parlare del crepuscolo e la decadenza di un certo cinema negli anni settanta. E’ anche una denuncia del cinismo imperante che è la vera causa del mondo in bianco e nero senza contenuti dell’industria di Hollywood.
Il tema è bene esplicitato nella prima ora di proiezione e francamente rimane il dubbio se Welles lo avesse montato proprio così. Lo spettatore esperto sa come bilanciarsi sulla poltroncina (che al palazzo del cinema di Venezia, nonostante la ristrutturazione rimangono particolarmente avare di spazio e comfort) per limitare i crampi e diminuire il rischio di trombosi. Indubbiamente un buon lavoro, ma forse non abbastanza per essere un capolavoro. Peccato quindi che fosse l’ultimo.
Brous Gandin
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