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FLY ME TO THE MOON

Hong Kong
Resista e sceneggiarice: Sacha Chuck
Cast: Wu Kang-ren. Sasha Chuck, Angela Yuen

European Premiere | In Concorso | Candidatura al White Mulberry Award
Trailer disponibile sul nostro canale YouTube.

Fly me to the moon è un film molto interessante sul problema dell’identità culturale e delle radici.

1997. Hong Kong, da sempre città di immigrati, non è stata particolarmente accogliente con gli immigrati arrivati dalla Cina continentale negli anni Novanta, quando sono state allentate le restrizioni per il passaggio di Hong Kong alla Cina. Per quanto siano all’origine di alcuni ottimi film pieni di empatia, le storie della diaspora cinese a Hong Kong sono state raccontate per lo più dagli hongkonghesi.

Ora che la generazione dei figli degli immigrati dal continente è diventata adulta, può raccontare l’esperienza dell’immigrazione a Hong Kong secondo la propria prospettiva.
La sceneggiatrice e regista Sasha Chuk appartiene a quella generazione e se è vero che il suo primo lungometraggio, Fly Me to the Moon – adattamento di un suo racconto breve del 2018 – è soprattutto un’opera di finzione, nella sua esplorazione dell’identità e delle radici attinge direttamente alla sua vita.

Il film racconta in tre atti la storia di una famiglia di immigrati nel corso di 20 anni. Nel 1997 la piccola Lin Tsz-yuen, di appena otto anni, arriva a Hong Kong per ricongiungersi con il padre, Min (un bravissimo Wu Kang-ren). Non solo Yuen si trova ad affrontare le difficoltà legate al suo essere una straniera che non parla una parola di cantonese ma in più Min è un tossicodipendente e un ladro, che passerà la vita dentro e fuori dal carcere.

Le cose però migliorano quando arriva in città la sorellina Kuet e la famiglia è di nuovo al completo. Il nucleo familiare è il tema dominante di questa sezione.
Il secondo atto, che è anche il più convincente, è ambientato nel 2007 e descrive le difficoltà adolescenziali delle due sorelle.
Il terzo atto chiude il cerchio sul tema dell’identità: mentre Kuet (Angela Yuen) è completamente assimilata nella sua patria adottiva come attivista per la conservazione del territorio locale, Yuen (interpretata dalla stessa Chuk) preferisce trascorrere il suo tempo all’estero come guida turistica, eternamente intrappolata in un limbo culturale, da cui non sa o non vuole uscire.
Chuk respinge abilmente la narrazione stereotipata della diaspora cinese, utilizzando le vite divergenti delle sorelle per mostrare come le loro radici non determinino quello che diventano da adulte.
Ma la parte altrettanto interessante del film è la narrazione del rapporto delle due sorelle con un padre debole e inetto vittima lui stesso di uno spaesamento sia personale nei rapporti con la famiglia sia sociale di fronte a un paese che non è comunque il suo e in cui non è mai riuscito a inserirsi.

Molto brava questa regista alla sua prima opera nello scolpire figure femminili decise anche se con fatica ad integrarsi e una maschile, il padre, debole e incapace di collocarsi in un luogo lontano da quello suo natale.

Un film sull’identità e il rapporto padre figlie decisamente interessante.
Da premiare.

Serena Pasinetti

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