Il recente Toy Story 4 avvalora l’idea di come la Pixar sia ancora prepotentemente attiva e pronta a riscuotere un ulteriore immenso successo su scala mondiale. Da quando si è presentata al cinema nel lontanissimo 1995 con Toy Story, primo lungometraggio animato realizzato completamente con la Computer grafica, ogni sua nuova opera (o prodotto, essendo vincolato a un lucroso merchandising) genera fremente attesa negli spettatori – e finanche nelle file dei critici –, e i successivi enormi risultati ai botteghini dimostrano tale affezione che il pubblico, di fasce d’età trasversali, ha per questi innovativi cartoni animati.
Attenzione però, non solo grossi introiti, ma anche numerosi riconoscimenti vinti per l’ottima qualità di ogni singola opera realizzata. A tutt’oggi la Pixar ha raccolto ben 18 Oscar, di cui ben 10 statuette vinte come miglior opera d’animazione (per due cortometraggi e otto lungometraggi). L’istituzione dell’Oscar al Miglior Film d’animazione, nel 2001, è stata dettata prepotentemente proprio perché ormai non esisteva solo il colosso Disney, ma anche la magica Pixar, oltre all’agguerrita concorrente DreamWorks Animation. Per inciso, gli Oscar ottenuti dalla Pixar non sono stati dati solo per la superba tecnica, che migliora di pellicola in pellicola, ma anche per la qualità delle storie che narra. Dietro queste favole animate elettronicamente fuori (out), si celano dentro (inside) profonde riflessioni sui sentimenti, la società e gli individui. Tante gustose risate, certamente, ma anche momenti in cui sopravanza una toccante meditazione sugli stati affettivi.
Tralasciando l’aspetto industriale che finanzia queste suadenti fiabe, perché leggendo le cronache sul dietro le quinte della Pixar ha dei contorni molto shakespeariani (Re, cortigiani, sete di potere, vendette, uccisioni, etc.), è interessante soffermarsi sul percorso autoriale che la Pixar ha edificato nei primi venti anni cinematografici, cioè dal 1995 (anno del primo Toy Story) fino a Inside Out, pellicola salutata da molti come il lavoro più maturo, principalmente per quanto riguarda la resa emotiva, cioè l’inside. Anche perché il percorso produttivo successivo a Inside Out, escludendo l’incantevole e premiato Coco (2017), si potrebbe quasi definire involutivo, essendo composto da tre rimunerativi sequels (Cars 3, Gli incredibili 2 e Toy Story 4), da uno spin-off di sicura presa (Alla ricerca di Dory), e dall’inaspettato “fiasco” di In viaggio con Arlo. Però, andiamo con ordine.
La Pixar Animation Studios, come tale, fu creata il 3 febbraio del 1986 (da Steve Jobs), ma la semiglia di questa futura casa produttrice era già presente dentro la LucasFilm dal 1979, perché era una sezione che doveva occuparsi, sotto la direzione di John Lasseter, dell’animazione animata attraverso la computer grafica (la denominazione di questa divisione era “LucasFilm Computer Graphics Project”). Stando a questa primissima data, quindi, il modello Pixar ha ben quarant’anni. Otto lustri dedicati a una lenta ricerca al perfezionamento della tecnica (dopo l’acquisizione di Jobs, i primi anni come studio indipendente erano dedicati allo sviluppo di animazioni atte solo a promuovere gli hardware prodotti dalla Apple), e a una limatura emozionale delle storie. Già dai primi cortometraggi, e includendo anche il preistorico The Adventures of André and Wally B. (1984), quello che propone la Pixar è soprattutto un mondo al contrario, cioè i protagonisti della vicenda sono oggetti (i giocattoli della serie di Toy Story, per esempio) oppure animali (Alla ricerca di Nemo o Ratatouille, solo per citare i due più noti).
Le figure umane primariamente compaiono sullo sfondo, e nel mondo Pixar sono loro gli estranei (nel premiato cortometraggio Tin Toy del 1988, germe del futuro Toy Story, il neonato è visto come un temibile mostro). Quando sono al centro della vicenda, invece, come in Gli incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi (2004), Up (2009) o Ribelle – The Brave (2012) (oltre a qualche cortometraggio, tra cui il premiato Il gioco di Geri del 1997), gli umani sono delle caricature o delle parodie della realtà.
Nella serie Toy Story gli umani che comparivano sullo sfondo ricalcavano, come aspetto fisico e come carattere, le persone reali. Vent’anni dopo, quelle figure umane tratteggiate dalla Pixar e lasciate sullo sfondo, diventano il centro della vicenda, o per lo meno al 50%. Riley e la sua famiglia, benché creati con la “fredda” computer grafica, hanno silhouette e sentimenti profondamente umani. In Inside Out il mondo “al rovescio” pixariano è ugualmente presente, ed è rappresentato dalle cinque bislacche figure che gestiscono le emozioni umane.
Lo stacco evolutivo che c’è tra Toy Story e Inside Out non risiede semplicemente nella tecnica, ma principalmente nel saper costruire una variegata scala di emozioni. Dopo quattro lustri la Pixar certamente porta avanti la tematica dell’importanza dell’amicizia (l’ultimo Toy Story 4 lo conferma), ma con Inside Out ha raggiunto un’acuta riflessione umana sugli stati d’animo. Le opere della Pixar sono create per dare allegria e gioia, ma l’aspetto malinconico è stato sempre presente, basterebbe citare il mesto cortometraggio Il sogno di Red (1988).
La tristezza/nostalgia di un passato che non potrà tornare, è stata rappresentata “en passant” in differenti opere, come per esempio nei primi due Toy Story oppure con toccante narrazione in Up (la nostalgia insita nell’animo del personaggio di Carl Fredricksen), ma in Inside Out viene esaminata con profondità.
L’importanza di Inside Out sta proprio nel sapersi districare bene su due piani: dare emozioni (allegria e lacrimuccia) agli spettatori, e allo stesso tempo analizzare le emozioni di un umano (in questo caso una bambina pre-adolescente). La perdita dell’infanzia, rappresentata in Toy Story 2 dal racconto del giocattolo Jessie, in Inside Out viene simboleggiata con l’“evaporizzazione” di Bing Bong, l’amico immaginario di Riley. Oltre a questo, c’è in questo cartone animato anche un interessante tentativo di spiegare la depressione, tema, in pratica, mai affrontato in un cartone animato.
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