Simon Daoud è un violinista disoccupato che ha perso passione per la musica. Privo d’ingaggi, accetta il posto d’insegnante in una classe di una scuola alla periferia parigina. Preparando gli studenti all’esibizione di fine anno alla Philharmonie, riscoprirà grazie ad uno di loro, Arnold, l’amore per il violino.
Il paratesto è uno dei problemi del cinema contemporaneo. È così elevato il numero d’informazioni di cui lo spettatore dispone prima di entrare in sala, che alcune dinamiche narrative o costruzioni estetiche perdono, inevitabilmente, parte della loro efficacia – si pensi, ad esempio, alle commedie che sprecano le loro cartucce comiche migliori nei trailers, ma che così facendo indeboliscono l’effetto di quelle stesse gag durante il film.
In questo caso, però, credo sia necessario sapere che l’opera prima di Rachid Hami nasce dall’esperienza diretta del regista con Démos; un «dispositivo di educazione musicale ed orchestrale a vocazione sociale; un progetto di democratizzazione culturale che si indirizza a bambini provenienti da quartieri particolari delle città o da zone rurali insufficientemente dotate di istituzioni culturali».
Dopo essere venuti a conoscenza di ciò, non si correrà più il rischio di considerare “La mélodie” una versione musicale de La classe – Entre les murs di Laurent Cantet (2008) – dal quale, tuttavia, il film riprende il tema del confronto alunni-insegnante in un ambiente socioeconomico disagiato – o il tentativo di adattare alla Parigi contemporanea il commovente esordio di Christophe Barratier (“Les choristes”; 2004) – con il quale condivide il personaggio di un uomo disilluso che riscopre la passione per la musica attraverso l’insegnamento a “ragazzi difficili”.
Messi da parte gli inutili paragoni con le pellicole di quello che a tutti gli effetti può essere considerato un nuovo sottogenere del cinema contemporaneo, una sorta di Bildungsroman sublimato nella musica – si veda, a tal proposito, “La famiglia Bélier” di Eric Lartigau (2015) –; il film di Hami riesce a “pizzicare” le corde giuste, con la sua semplicità – come la Sherazade korsakoviana eseguita dagli studenti – e il suo sguardo stupito – quello di grandi e piccoli ogni qual volta ascoltano Simon suonare. Mantenendo dritto “l’archetto” narrativo, il cineasta francese compone una melodia commovente che risuona, come le note nella cassa armonica del violino, nel cuore e nella testa del pubblico.
Con la stessa volontà dei protagonisti Chazelliani, ma senza la loro vocazione al sacrificio – “Whiplash”(2014) – Arnold trasforma il suo talento in dedizione, esercizio, responsabilità (verso i suoi compagni), appoggiando alla mentoniera del violino – che per lui, come per gli altri ragazzi, diventa oggetto sacro – il suo futuro.
Ed è tutto lassù, racchiuso nelle sequenze sui tetti delle banlieue– che visivamente non possono non ricordare le performance dello chagalliano Tevye de “Il violinista sul tetto” di Norman Jewison (1971) –, dove gli studenti suonano sognando Parigi; la città, così vicina eppure così lontana dal ghetto, che riusciranno a raggiungere solo “accordando” alle loro vite la stessa volontà e la stessa passione dimostrata sui banchi di scuola durante le lezioni del professor Daoud.
Alessio Romagnoli
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