Il tema dell’aldilà e dei morti è sempre stato al centro della filmografia di Tim Burton, si pensi a “Il Mistero di Sleepy Hollow” o a ” Bettlejuice” per tacere di “Nightmare Before Christmas” che produsse nel 1993; così come anche i temi della fabulazione, riguardo alla quale citiamo solo “Bigh Fish” e “La fabbrica di Cioccolato” ma altri ce ne sarebbero e le ambientazioni gotiche (a tal proposito sono emblematici “Batman” e “Edward Mani Di Forbice“), ma è ne “La Sposa Cadavere“, presentata fuori concorso alla 62a Mostra Cinematografica di Venezia, che i tre temi si fondono in una cuspide cinematografica “Burtoniana” che include anche il genere musical, anch’esso già abbondantemente praticato con “Sweeny Todd” e “La Fabbrica di Cioccolato“.
Si tratta di un’interessante elaborazione laica del lutto che tuttavia non è scevra di una profonda spiritualità. Già dalle prime immagini del film, quando ancora appaiono i titoli di testa in sovrimpressione, s’intuisce che la chiave di tutto è il ciclo della rinascita. Victor, il timido e sensibile protagonista maschile della storia sta difatti disegnando una farfalla, simbolo chiaro di trasmutazione e rinnovamento. C’è una simmetrica inversione tra il mondo dei vivi che è triste, cinico e grigio e quello dei morti che al contrario è colorato, gaudente e passionale. Una divisione che non è solo spirituale ma anche sociale, poiché il mondo dell’aldilà è simbolo delle classi sociali meno abbienti, degli esclusi dal potere, a cui però sembra appartenere la chiave dei sentimenti e quindi , in ultima istanza, della felicità. Nel mondo dei morti è fondante l’influsso e l’elaborazione delle questioni irrisolte. Ciascuno porta i segni della propria storia, come la spada ancora conficcata in corpo del nano, il cranio perennemente spaccato del saggio Gutknecht indizio di una morte violenta ma anche segno di intelletto straripante. Al contrario i vivi seguono l’apparenza esteriore, avulsi da ogni introspezione, impastoiati da riti sterili come la cerimonia nuziale, che come dice la canzone iniziale deve essere perfetta in ogni minimo dettaglio, dal protocollo che prevede lo scambio di visite, dai servitori in livrea, dai biglietti da visita e dal rigore dei titoli e infine dai comportamenti conformi e convenienti allo status di ciascuno. La differenza è sottolineata anche cromaticamente dal direttore della fotografia Pete Kozachik che divide le scene girate nei due mondi caratterizzando l’aldilà con vividi colori e l’al di qua con fredde dominanti grigie e blu.
E’ infatti un formalismo, ovvero la formula matrimoniale pronunciata correttamente, che lega per sbaglio Victor ad Emily, la sposa cadavere. Mentre è la ricerca e la forza dei sentimenti sinceri che potrà riparare l’errore e questo avviene nel mondo “sotterraneo”, ovvero nel mondo interiore, opposto a quello esteriore o delle forme vuote. Victor, involontario Orfeo, compirà così un percorso opposto al suo omologo salvando la propria amata Victoria dagli inferi dei vivi, prigioniera nel gelido mondo dell’avidità e delle convenzioni. E ci riuscirà grazie al sostegno ed al cuore di Emily che in contraccambio riceverà il dono di risolvere infine la sua tragedia e liberarsi da lacci e lacciuoli che le impedivano di rinascere a nuova vita che come già s’intuiva nella prima sequenza è simboleggiato nel finale da un volo di farfalle. Così Tim Burton chiude un percorso perfettamente circolare, che forse aveva già iniziato con “Beetlejuice“, in cui ci racconta la sua idea di redenzione, ricerca di sé e in fondo di speranza.
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