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Livre de chevet e film de chevet

Livre de chevet è una meravigliosa quanto suadente espressione francese che, tradotta letteralmente, significa “libro del capezzale”. Nel linguaggio corrente vuol dire “libro preferito”, ossia quello che si ha sempre sotto il proprio cuscino e, ampliando l’espressione: il libro che si porterebbe anche su un’isola deserta o, addirittura, nella propria tomba. Questo discorso può valere anche per un oggetto, un disco oppure per una pellicola, ed è usuale chiedere, per moti di curiosità, a una persona quale libro, disco, oggetto o film vorrebbe portarsi nella famigerata isola deserta; e, chiaramente, a volte possono essere anche più di uno. La passione verso un determinato libro, che può sconfinare nel fanatismo, è perché ci si rispecchia nella trama, perché quel testo diviene un’ancora di salvataggio in un momento critico della propria esistenza, oppure perché in quel libro si trova ispirazione per un cambio di rotta utile alla propria vita. Il piccolo principe (Le petit prince, 1943) di Antoine Saint-Exupéry, Il giovane Holden (The Catcher in the Rye, 1951) di J.D. Salinger e Sulla strada (On the Road, 1951) di Jack Keruac, solo per citare tre epocali testi narrativi del Novecento che hanno avuto un’immensa influenza sulla società di massa, si sono trasformati rapidamente in livre de chevet. Tra l’altro, libri talmente venerati e perfetti nella loro costruzione, che le versioni cinematografiche dei medesimi sono stati dei clamorosi flop, a livello di trasposizione e a livello di accoglienza presso il pubblico. Per fare un gustoso esempio visivo, che illustra bene la passione viscerale che si può avere per un libro, nell’episodio “Due amici molto speciali” della Sitcom Friends (stagione 3, episodio 13), Joey e Rachel si scambiano vicendevolmente i propri livre de chevet: Shining di Stephen King per Piccole donne di Louisa Mary Alcott. Ambedue gli amici spiegano all’altro il perché di quella passione, e quando cominciano a leggere i testi che si sono scambiati, (ri)trovano il piacere personale che l’altro aveva riscontrato nel libro.

In ambito cinematografico il “film de chevet” si potrebbe tradurre, per citare i cineasti, come quella pellicola che gli ha “sconvolto” la vita e li ha convinti a divenire registi. Per un’intera generazione di autori è stato il magniloquente Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles, e per altri il cine-autobiografico 8 ½ (1963) di Federico Fellini. Oppure, la folgorazione visiva può avvenire, come accadde all’ancora giovane spettatore Pier Paolo Pasolini, con l’austero La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928) di Carl T. Dreyer. Differente peso, invece, hanno avuto alcuni altri “film de chevet”, la cui importanza è rintracciabile nella citazione o addirittura nel rifacimento della stessa pellicola. Tanto per stilare una veloce lista delle pellicole più omaggiate: l’avvolgente La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock; Il nostalgico Il posto delle fragole (Smultronstället, 1957) e l’allegorico Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957), ambedue di Ingmar Bergman; il neorealista Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. E questa lista potrebbe essere ancora più sterminata, perché a volte in queste liste di “film del capezzale” ci sono dei Guilty Pleasure, come testimoniano i gusti cinefili particolari di Quentin Tarantino o anche quelli di John Waters; oppure le passioni dei giovani Jean-Luc Godard o François Truffaut verso il cinema americano di Serie B, poi riversata visivamente in molte loro opere.

Più interessante ancora il “livre de chevet” che unisce in maniera solida e diretta il libro con il film. Un’infinità di pellicole sono trasposizioni di testi letterari, e allo stesso tempo una vastità di libri, ordinariamente di carattere saggistico, si occupano di cinema. Senza ombra di dubbio il libro di cinema più amato, per la mole d’informazioni che contiene e per la sua scorrevolezza, è Il cinema secondo Hitchcock (Le cinéma selon Alfred Hitcock, 1966) di François Truffaut. Questa lunga chiacchierata tra Hitchcock e Truffaut è il modello per la perfetta intervista, ricalcata successivamente da molti altri autori. Testo, e prima ancora incontro tra due grandi registi, divenuto talmente mitico che Hitchcock/Truffaut (2015) di Kent Jones si basa su di esso per fare, attraverso un giro d’interviste a differenti registi fans di Hitchcock, un compendio dell’importanza di Sir Alfred e del medesimo libro. È proprio da questo documentario che si ha la conferma che La donna che visse due volte è stato, per loro, un film epocale, la punta massima raggiunta dal cinema hitchcockiano. Di altro significato il “livre de chavet” A Pictorial History of the Movies (1943) di Deems Taylor, che Martin Scorsese ritiene fondamentale per la sua prima cultura cinematografica. Nell’affettuoso documentario Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese (A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies, 1995) realizzato dallo stesso regista italo-americano assieme a Michael Henry Wilson, Scorsese a inizio pellicola ha questo grosso volume sulle ginocchia, per poi aprilo e mostrare qualche pagina fitta d’immagini di cinema con le relative didascalie. Questo lungo documentario attinge anche da quel volume, che è stato per Scorsese, ma sicuramente anche per altri, il primo approccio all’immagine cinema. Infine, per fare un altro paio di esempi di “livre (cinématique) de chevet” di carattere più biografico, c’è il fondamentale studio Chaplin – La vita e l’arte (Chaplin: His Life and Art, 1985) di David Robinson, da cui la pellicola Charlot (Chaplin, 1992) ha raccolto, traducendolo in narrazione cinematografica, molto materiale; e c’è il volume memorialistico Stanley Kubrick e me (2012) di Emilio D’Alessandro e Filippo Ulivieri. La particolarità di questo libro di ricordi, di un semplice uomo italiano che divenne dal 1971 al 1999 l’unico factotum di Kubrick, è quello di aver messo in luce uno Stanley Kubrick quotidiano, andando a colmare quel fitto mistero che avvolgeva la figura del grande regista, molto schivo ai riflettori dello spettacolo. Da questo libro di memorie, fitto di aneddoti divertenti, Alex Infascelli ha imbastito il suo S Is for Stanley (2015), nel quale ricostruisce, assieme a D’Alessandro, il Kubrick casalingo e l’uomo dietro la macchina da presa.

Roberto Baldassarre

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