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Locarno: il documentario al potere

Si è chiusa lo scorso sabato la 70^ edizione del festival di Locarno, più giovane di appena un anno rispetto a quello di Cannes è senzaltro uno dei quattro eventi cinematografici più importanti del vecchio continente (oltre a Cannes si aggiungano la Berlinale e la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, ahinoi sempre più distanziata), ovvero la quaterna riconosciuta come festival competitivo dalla Federazione internazionale delle associazioni dei produttori di film (FIAPF).

Una giuria composta tra gli altri da autori come Olivier Asayas ed il portoghese Miguel Gomes ha assegnato il pardo d’oro al regista cinese Wang Bing per “Mrs Fang” un documentario su un’anziana contadina ammalata di Alzhemier che il regista accompagna negli ultimi anni della sua vita sino all’inevitabile decesso.

Il premio speciale della giuria va a “As Boas Maneiras” co diretto dai brasiliani Marco Dutra e Juliana Rojas che narra di una storia dai toni saffici le cui protagoniste sono una governante dei sobborghi di San Paolo assunta da una donna misteriosa quanto ricca.

La miglior regia è assegnata a “9 doigts” del poco prolifico F.J. Ossang , essendo il suo precedente lungometraggio “Dharma guns” dell’ormai lontano 2010 (quello prima ancora “Doctor Chance” era addirittura del 1997).

Senza troppe sorprese il premio per la miglior interpretazione va a Isabelle Uppert, che vive ultimamente uno stato di grazia, per la sua parte in “Madame Hyde” una divertente commedia di Serge bozon.

Miglior interpretazione maschile è stata giudicata quella di Elliott Crosset Hove for “VINTERBRØDRE”, opera prima di Hlynur Pálmason.

Fermi al palo gli americani che pure presenziavano con una bella terna di opere tra cui un documentario “Did You Wonder Who Fired The Gun” di Travis Wilkerson.

L’unico film italiano in concorso era “Gli Asteroidi” di Germano Maccioni a cui va riconosciuto un certo coraggio nell’aver affrontato la desolazione che affligge la provincia italiana, forse con un taglio un po’ troppo totalizzante e con atmosfera di fine di mondo che più che un tributo a Wenders sembra un influenza di Lars von Triers. Risultato: nulla di fatto.

In definitiva anche Locarno non è alternativo all’irresistibile fascino che esercitano i documentari da qualche anno a questa parte. Non c’è nulla contro i documentari, anzi per carità più se ne facessero meglio sarebbe, e molti di essi riescono ad intrattenere come e meglio di certi film, ma il cinema ha caratteristiche altre. E’ definito come la macchina dei sogni, qualcosa che attiene alla fantasia, alla fabulazione, insomma al racconto. Si tratta di un modo di raccontare esplorando ed evocando aspetti della realtà in maniera spesso ancora più profonda e diretta di un reportage.

I documentari oltre ad essere lodevoli e pregevoli sono necessari, ma essi sono altro dal film e per questo dovrebbero avere festival o sezioni a sé. In verità già ci sono festival dedicati ai documentari e non è mai accaduto che in questi eventi vincesse un film di finzione, ma soprattutto nei documentari non è possibile aggiudicare premi ad attori protagonisti. Per fortuna a Locarno c’erano pure dei film così si è potuto premiare la Huppert che ormai non avrà più posto sulle mensole.

Si potrebbe strologare a lungo su questo aspetto inemendabile del cinema ma preferisco chiamare in aiuto due grandi registi. Il primo per ragioni dichiaratamente partigiane è Sergio Leone che ebbe a dire “Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito.” Ed il secondo, a cui va il primato della sintesi e dell’evocazione, è Alfred Hitchcock: “Il cinema non è un pezzo di vita, è un pezzo di torta”.

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