Non è la solita storia. La pellicola nasce dall’ambizione del regista, Gilles De Maistre, di rappresentare sul grande schermo una storia tratta dal vero legame tra un bambino sudafricano e i leoni del suo allevamento. Il film è stato girato in tre anni, con lunghi periodi di pausa dalle riprese, facendo sì che l’intesa tra i due protagonisti, il leone, Thor, e la bambina, Daniah De Villiers, fosse vera oltre che verosimile.
Nel film, Mia e suo fratello Mick sono costretti a trasferirsi da Londra in Sud Africa, per seguire, insieme alla madre, il lavoro del padre zoologo. Lì la famiglia mette su un allevamento di leoni, verso il quale Mia non nutre alcun interesse fino all’arrivo di Charlie, un leone bianco con il quale instaura un rapporto di vera e propria simbiosi. I due crescono insieme finché non succede qualcosa che minaccia la loro unione fino a metterli a dura prova.
“Mia e il leone bianco” è un film che invita a riflettere sul rapporto uomo-natura, ancora prima che uomo-animale, e su quanto sia difficile insegnare il rispetto a una società improntata all’egoismo. La comunicazione non verbale tra Mia e Charlie sottintende l’autenticità di quelle intese silenti e istintive che non hanno bisogno di grandi dichiarazioni. I suoni della natura e il suo silenzio sono, non a caso, la colonna sonora del film e creano un’armonia generale, tra i rumori dell’acqua che scorre, le fusa dei leoni e il soffio del vento.
La chiave che apre la porta di comunicazione tra il mondo dell’uomo e quello afemico della natura, sono i bambini, intuitivi e scevri da sovrastrutture. In questa idea, che pervade le intenzioni comunicative del film, riecheggiano le parole di Giovanni Pascoli sul “fanciullino”, simbolo di quella parte dell’uomo ingenua e sapiente, in grado di comprendere il mistero del mondo e le mute connessioni che ne tengono strette le parti.
Secondo la leggenda, l’arrivo di un leone bianco avrebbe restituito l’ordine naturale al mondo, ribilanciandone gli equilibri. Con il suo manto candido, incontaminato, promette una possibilità: quella di disegnare un mondo migliore.
Il film, però, oltre che un inno alla purezza è anche un inno al coraggio e tocca da lontano alcuni di quei momenti della crescita in cui bisogna trovare la forza di tracciare i propri confini e macchiare la propria veste bianca di un sacrificio.
“Mia e il leone bianco” ricorda l’importanza di amare, perseverare e perseverare nell’amore: l’importanza di “prendersi cura”, in senso profondo e intelligente, di ciò che si vuole preservare. Un legame, una persona, un’idea.
Oggi la fiducia, la comprensione e il rispetto per gli altri, sono relegati ai confini del mondo e con questo film cresce la paura che un mondo “pro vita” possa esistere solo lontano dalla civiltà e che il vero Nulla non si espanda nelle zone disabitate della riserva naturale, ma dilaghi sotterraneo in ogni parte di terra calpestata dall’uomo.
Flaminia Potenza
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