Mi sono dedicato, in altra sede e tempo addietro, a descrivere l’evoluzione e all’involuzione di Cinecittà, struttura teatrale che occupa un posto di rilievo nell’ambito del settore cinematografico. Purtroppo vedo, recepiscono, che le mie analisi non hanno sortito l’effetto sperato, e pertanto torno sull’argomento, con la licenza che mi è concessa dall’essere stato per ben due volte nel Consiglio di Amministrazione della struttura in tempi e con modalità realmente differenti.
Come noto, durante la gestione rutelliana della cultura e con il robocop Blandini amministratore di Cinecittà, l’azienda teatri di posa fu ceduta ad Abete, che in quel momento coltivava la fallimentare ipotesi di un monopolio dei teatri, con Terni e Pomezia, al grido di “basta con i baracconi di Stato, arrivano i privati”.
Non fu esattamente una passeggiata di salute quella di Abete, e la struttura invece di rinascere con il privato, lentamente, ma non troppo, deperì per assenza di manutenzioni e di lavoro, accumulando milioni di euro di perdite, in parte dovute all’eccesso di personale.
Giunse però all’orizzonte l’ipotesi PNRR, e ogni Ministro, nel frattempo era Franceschini il nuovo gestore della cultura, cercò di formulare richieste giustificabili per ottenere denaro.
Il Ministro della Cultura, come si chiama ora, non aveva certamente strutture che giustificassero esborsi consistenti PNRR, e Cinecittà apparve, agli occhi superficiali di valutatori, l’unico complesso dotato di terra e di pareti sul quale costruire ipotesi industriali e commerciali. Pertanto fu necessario riacquistare di corsa l’azienda teatrale e impapocchiare una sorta di programma di sviluppo che giustificasse l’intervento internazionale.
Ad Abete non sembrò vero poter sbolognare di nuovo allo Stato una struttura indebitata e arrugginita, che da anni non pagava quanto dovuto alla casa madre, al grido di “finalmente Cinecittà torna in mano pubblica”, e si affrettò a cederla dietro lauto compenso, evitando di sottolineare che in più c’erano debiti fiscali di tali proporzioni da impedire che la società avesse un DURC regolare. Furono pertanto pagati anche i debiti fiscali, per presentare un oggetto industriale con un minimo di dignità.
Per gonfiare le prospettive fu addirittura annunciato che Cinecittà si sarebbe allargata in un terreno limitrofo acquistato dalla Cassa Depositi e Prestiti, ingigantendo la sua capacità di ospitare.
Tutto ciò ovviamente non si è verificato, in quanto il terreno non era limitrofo, il PNRR non prevedeva quel tipo di investimento e l’immobile non si prestava all’uso.
L’operazione era comunque decollata, e fu assunto come manager per consolidare il ruolo istituzionale del progetto Nicola Meccanico, che lasciava analogo ruolo in Vision, società di distribuzione cinematografica eterodiretta dall’estero, anch’essa già pesantemente indebitata.
Ma in questi movimenti strategici e politici i debiti sono un fattore trascurabile.
Maccanico cavalcò l’onda mediatica diventando in breve l’amministratore delegato più lodato del settore, nonostante la sua prima decisione fosse stata quella di affittare gran parte dell’azienda alla società straniera per la quale aveva lavorato per anni.
In realtà il programma industriale PNRR prefigurava un utilizzo dei teatri a mio parere già allora antistorico e vetusto, ampiamente superato dagli studios americani che da anni avevano rinunciato ad ingrandire gli spazi a fronte di investimenti nella tecnologia degli effetti speciali e della produzione di serie.
Nulla però impedì che i media, opportunamente sollecitati, esaltassero il ruolo dei teatri, inneggiando al fatturato miracoloso e alla corsa dei produttori ad occupare i capannoni.
Tra questi ha primeggiato ovviamente Freemantle che ha utilizzato gli spazi, in comunione d’intenti con le società del gruppo, continuando ad utilizzare a dismisura il Tax Credit generoso e incontrollato concesso dallo Stato italiano.
Come però è facilmente comprensibile, quando la mano pubblica interviene in modo incongruo nella gestione dei meccanismi lavorativi, il mercato ne risente non essendo mosso da istanze sane e naturali, e crea quella che viene definita “bolla”, cioè una artificiosa gonfiatura destinata nel tempo a sgonfiarsi se non ad esplodere. L’utilizzo abnorme del Tax Credit, applicato a film dal costo inventato e alle produzioni televisive, che ha dilapidato le sostanze del Mic costringendolo a non erogare più nulla a nessuno per un anno, ha riverberato i suoi effetti anche su Cinecittà, che non avendo particolari armi proprie, ma basando il proprio fascino prevalentemente sulle concessioni statali, ha cominciato a perdere clienti e fatturato al punto tale da costringere i vertici ad una nuova e forse più sana politica aziendale, anche in quanto sono venute a galla strane fatturazioni utilizzate per modificare i bilanci, che è speranza non siano prova di un metodo.
Se lo Stato decidesse di promuovere la vendita della nuova Panda accollandosi il 50% del prezzo, l’automobile diventerebbe la più venduta al mondo in breve tempo: ma questo fatto non migliorerebbe la valutazione tecnica dell’auto né salverebbe l’industria nazionale, mentre i fondi pubblici finirebbero nelle mani di chi non ne ha bisogno.
Così il cinema e così Cinecittà, che non ha bisogno di ulteriore Tax credit, ma di una iniezione di strategia per uscire dal pantano statale e rivivere in un settore riportato alla qualità e al mercato.
Michele Lo Foco
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