Don’t Worry

Caro formatore, forse “Don’t worry” di Gus Van Sant non è un film da utilizzare in aula, ma è un film da vedere. Non tanto per i temi moralistici o sociopolitici, che farebbero di Gus Van Sant l’ennesimo follower leftist della “Leggenda del Santo bevitore”. La critica ha sottovalutato questo capolavoro interpretandolo un atto di amore per omosessuali, diversi, disabili, oppure come una versione riscaldata della zuppa americana: “Se ci credi ce la puoi fare…”.

l’attore Joachim Phoenix (a sinistra) ed il regista Gus Van Sant

Secondo Federico Gironi (Cooming Soon) la vicenda del fumettista tetraplegico Callahan “si tramuta in un incoraggiamento a fare ciò che tutti noi dovremmo fare per vivere una vita più felice e sentirci più realizzati: smetterla di lamentarci e sentirci vittime, trovare nel mondo che ci circonda stimoli e aiuti, la forza di perdonare e di avere rispetto per gli altri e noi stessi, sorridere di fronte ai problemi e agli impedimenti ed esprimerci liberamente, per trovare così soluzioni giuste, che sono sempre possibili.”

Gus Van Sant, che ne sa di cinema, ci racconta il percorso di redenzione di John Callahan (interpretato da uno strepitoso ed irreale Jaquin Phoenix) disegnatore umoristico nato nel 1951 e scomparso nel 2010. Dopo l’incidente, a ventuno anni, John inizia un percorso di liberazione dall’alcol e, nonostante la disabilità, riesce ad ottenere la pubblicazione delle proprie vignette, poco rispettose del “politically correct”, trovando anche l’idillio con una hostess svedese.

Rooney Mara e Joaquin Phoenix in una scena del film

Ma già nella scena iniziale Van Sant ci avverte esplicitamente che la vicenda è un pretesto per un’interrogazione sul senso della scrittura, del cinema, del destino umano, “che forse non ha un senso”.  Dunque non è un film sull’individualismo americano ma all’opposto un percorso di ricerca del senso attraverso i limiti dell’umano, creatura disabile per nascita. E ci deve essere un passato, un’origine, un qualcuno che ha scritto i 12 comandamenti (dell’Anonima Alcolisti)…!!!

E l’origine è chiaramente indicata da Danny Elfmann (Jonah Hill), lo sponsor dell’Anonima Alcolisti, il demiurgo che mette in ordine le cose, all’americana, passo dopo passo. I nonni ricchissimi di Danny hanno trasmesso la ricchezza ai suoi genitori che a loro volta l’anno trasmessa a lui, figura cristologica, sceso sulla terra dall’alto per salvarci. E il “dove” è al di fuori di noi, non sappiamo dove ma certamente da qualche parte ove si capisce che Danny sta ritornando. Non sono casuali le ripetute inquadrature della bocca, del fumo, di ciò che rimanda allo spirito, alla madre del racconto, ai “genitali”. E didascalica quindi la scena dei genitali sulla bocca. Un’omaggio a “Smoke” di Wayne Wang.

Harvey Keitel in “Smoke” (Wayne Wang 1995)

Ma dunque dove possiamo cercare le risposte? In un Dio ovviamente, che ci parla tramite gli angeli e i santi, che sono ovunque. Sono gli ex alcolisti del gruppo, sono i bambini, i passanti, basta saperli interrogare, anzi basta ascoltarli, senza giudicare, senza controbattere.

E nel percorso catartico del perdono universale e del ringraziamento John Callaghan ritrova il proprio professore di disegno. E guarda caso anche lui è una creatura divina, che capisce e perdona e ricorda che il manifestarsi del talento era già chiara all’epoca del Liceo. Tutto era già scritto.

Phoenix e Van Sant sul set

Dunque il talento, e questo si è un tema per la formazione, è la nostra cifra, la nostra radice personale, ciò che può dare i frutti nelle condizioni più estreme. Non si capisce perché, da anni, gli americani ci continuino a dire: “L’importante è il talento!”, e noi continuiamo a sentire: “L’importante è la motivazione!”. Ci vorrà tempo…

Luigi Rigolio

BOLIVIA – Chi ha incastrato Evo Morales?

Durante l’ultimo Festival di Cannes appena concluso, DNA srl ha chiuso un accordo per la distribuzione in Francia e in Brasile del controverso documentario “Un minuto de silencio” di Ferdinando Vicentini Orgnani, che mette a nudo la gestione del governo di Evo Morales in Bolivia.

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La lettura superficiale, spesso ideologica, della stampa Europea rispetto al “cambio” nella politica Boliviana, viene ribaltata dal regista con un’indagine condotta “sul campo” nell’arco di sei anni: nove viaggi in Bolivia e decine di interviste a tutti i protagonisti della politica boliviana degli ultimi vent’anni, oltre a un ricchissimo e inedito materiale di repertorio (fornito dal giornalista indipendente Carlos Valverde, ora costretto all’esilio in Argentina per la sua opposizione al regime).

il giornalista Carlos Valverde
il giornalista Carlos Valverde

Dopo l’uscita americana nel maggio del 2016, recensita dal NY Times, nei prossimi mesi il film si vedrà nella sale francesi con la distribuzione di TUCUMAN FRANCE e in quelle brasiliane con FENIX FILMES, ma ci sono altre trattative in corso per l’uscita in diversi altri paesi.

Dal 2006 a oggi, dopo oltre dieci anni di gestione da parte del presidente Morales, democraticamente eletto dal popolo, ci troviamo davanti alla dittatura soft di quello che oramai a tutti gli effetti è un “narco stato”. I “cocaleros” (i coltivatori di coca) un’organizzazione criminale, molto capace e lungimirante, dopo aver preso il potere con un presidente che in barba al conflitto di interessi ancora oggi è il leader del loro sindacato, si è dedicata a espandere in modo esponenziale la produzione di cocaina e allo stesso tempo a mantenere con ogni mezzo il potere politico. Tutti i leader dell’opposizione sono in prigione o costretti all’esilio. Come fu per Hugo Chavez in Venezuala (un paese ormai allo sbando) anche in Bolivia il Presidente Evo (già eletto tre volte con ardite modifiche costituzionali), si sta organizzando per mantenere il potere ad oltranza.

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I cartelli messicani e colombiani ormai operano liberamente in Bolivia, dove possono contare una grande tolleranza e il più delle volte su una complicità del governo. Migliaia di tonnellate di cocaina partono dalla Bolivia e, attraverso i porti brasiliani, raggiungono i mercati di tutto il  mondo. Si calcola che solo il consumo interno della cocaina boliviana in Brasile sia di tre tonnellate al giorno. Quello che Pablo Escobar tentò di fare in Colombia negli anni ottanta è di fatto accaduto in Bolivia sotto gli oggi bendati della maggior parte della stampa internazionale.

Il regista Ferdinando vicentini Orgnani
Il regista Ferdinando Vicentini Orgnani

Il regista, che ha subito delle minacce per questo lavoro, ha avuto la prova evidente del boicottaggio da parte del governo di Evo Morales quando il film, invitato a Madrid da “Casa America” è stato improvvisamente escluso per l’intervento dell’ambasciata boliviana in Spagna, episodio denunciato da El Pais.

Un silencio crítico de la reciente historia boliviana

Dal 2006 a oggi in Bolivia (un paese di circa dieci milioni di abitanti) ci sono stati oltre duemila morti per ragioni politiche oltre a una diaspora di oltre cinquemila boliviani costretti all’esilio. Violenze, linciaggi, brutalità, minacce, incarcerazioni sommarie senza processo, persecuzione ai familiari degli oppositori (cosa che nemmeno le dittature del “plan condor” avevano mai perseguito)… un sistema giudiziario ormai completamente al servizio del regime.

Per le prossime uscite in sala, i distributori hanno deciso un cambiamento sia nell’immagine del film che nella strategia di comunicazione, giocando con un’immagine ben nota nell’immaginario collettivo che paragona il Presidente Evo Morales a un noto cartone animato, con una paradossale satira che vuole richiamare l’attenzione sulla gravissima situazione della Bolivia.

Chi ha incastrato Evo Morales?

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Who framed Evo Morales?

Qui veut la peau de Evo Morales?

¿Quién engañó a Evo Morales?

CONTAMINAZIONI n° 6 – Da CARANDIRU a FUORI FUOCO – in memoria di Hector Babenco

Nel gennaio 2017 ci sono state delle gravi sommosse in tre grandi prigioni brasiliane. La prima nel carcere Anisio Jobim di Manaus, Amazonia: 56 morti più altri 4 in una struttura vicina. La seconda a Boa Vista, nel penitenziario statale di Porto Velho, nello stato di Rondonia: 33 morti. La terza nel penitenziario di Alcacuz, Stato del Rio Grande del Nord: altri 30 morti. Il conto supera i 120 morti… torturati, decapitati o bruciati vivi, e quasi altrettanti detenuti evasi.

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Il motivo scatenante per questi tre episodi di feroce violenza è il controllo del narcotraffico. Due organizzazioni criminali si combattono quotidianamente per la gestione di un mercato miliardario: la Familia do norte (Fdn) e il Primeiro Comando da Capital (Pcc), la banda San Paolo. Le faide all’interno delle prigioni rappresentano l’ultima frontiera dello scontro.

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Il Brasile è il quarto Paese al mondo per popolazione carceraria con oltre 622mila detenuti a fronte di una capacità che, secondi i dati ufficiali, sarebbe al massimo di 371mila.

La maggior parte della cocaina consumata in Brasile proviene dalla Bolivia. I circa 3.000 km di foresta amazonica sul confine tra i due paesi sono difficilmente controllabili e rendono il traffico molto agevole. I dati ufficiali parlano di quasi tre milioni di consumatori abituali in Brasile… qualche tonnellata al giorno quindi, ma altre centinaia di tonnellate transitano dai porti brasiliani verso l’Europa, l’Africa e l’oriente. Ormai è ampiamente documentato che molte cellule terroristiche, anche quelle degli ultimi sanguinosi attentati nel cuore dell’Europa, si finanziano grazie al narcotraffico… La catena causa/effetto che parte dagli oltre 40mila ettari di coca coltivati in Bolivia, porta quindi a delle conseguenze piuttosto gravi e complesse anche a casa nostra.

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In territorio boliviano operano ormai diversi cartelli colombiani e messicani che, grazie alle connivenze nelle alte sfere del governo, lavorano quasi indisturbati. In pochi anni dalla presa del potere del presidente Evo Morales, l’economia legata al traffico della cocaina ha guadagnato una posizione predominate.
Quello che aveva tentato di fare Pablo Escobar in Colombia negli anni ottanta è successo in Bolivia con una progressiva trasformazione a partire del gennaio 2006.

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Un’organizzazione criminale molto capace (i “Cocaleros”, coltivatori di coca del Chapare) ha ben compreso che le rivendicazioni legate all’uso tradizionale delle foglie di coca (usta dei contadini dell’altopiano per resister alla fatica dell’altura) non erano una bandiera efficace con l’opinione pubblica internazionale. Molto meglio farsi carico delle rivendicazioni delle popolazioni indigene della Bolivia, la cui esclusione sociale per centinaia di anni è innegabile. In un decennio, il processo democratico è stato sostituto da un potere assoluto mascherato da democrazia che controlla il traffico della cocaina e ha portato la Bolivia su un cammino molto pericoloso.
Il Brasile, nonostante gli enormi problemi interni di questa fase, si comincia finalmente a rendere conto dell’emergenza cocaina in arrivo dalla vicina Bolivia.

Quando ho avuto notizia delle sanguinose rivolte nelle prigioni brasiliane, ho subito pensato al bellissimo film di Hector Babenco sulla rivolta nel carcere di “Carandiru” e la violenta repressione delle forze speciali che il 2 ottobre 1992 entrarono sparando ad altezza d’uomo con il risultato di 111 morti. Il film è del 2003, l’anno dopo la demolizione della prigione, ormai macchiata dal peggior massacro della storia carceraria dal paese.

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Un’opera potente e realista, quasi un docu-film, che segue alcuni detenuti e le loro vicende, prima e durante la rivolta.

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Hector Babenco

Era un po’ di tempo che pesavo di scrivere un piccolo omaggio a Hector Babenco, dopo la sua morte avvenuta a Sao Paulo il 13 luglio 2016. Ho avuto l’occasione di lavorare come suo assistente durante le riprese di un film a Venezia nel 1998, dove Hector dirigeva la seconda unità e faceva anche un ruolo da attore. “The Venice project” (regia di Robert Dornhelm) è un film curioso, non completamente riuscito ma interessante, con un cast stellare che comprendeva Lauren Bacall e Dennis Hopper.
Con Hector è nata subito una reciproca simpatia e siamo sentiti per anni… Al festival di Rio nel 2000, dove ero invitato con il mio primo film (“Mare Largo”), Hector mi ha portato a una memorabile cena con Julian Schnabel che con “Before Night Falls” aveva appena vinto il premio speciale della giuria a Venezia. Un film straordinario, che lanciò Javier Bardem in America. Avevo già incontrato Julian a Venezia e quindi ero molto contento, ma dispiaciuto di essere seduto a tavola lontano da lui. Vicino a me c’era un tipo magro e discreto che a un certo punto mi chiese come mai mi trovavo a Rio… Per educazione anch’io gli feci qualche domanda. Disse che scriveva canzoni e poco altro. Quando la mia amica Uta mi venne a prendere mi disse con rammarico: “Perché non mi hai detto che eri a cena con Caetano Veloso, sarei venuta un po’ prima…” Non lo avevo riconosciuto!

Caetano Veloso
Caetano Veloso

Dopo Rio, con Hector ci siamo persi, per poi incontrarci di nuovo anni dopo, per caso, e abbiamo mantenuto i contatti fino alla fine.
L’occasione di questo ricordo personale di un grande uomo di cinema, è legata ad altre coincidenze: la fine del montaggio di un documentario che ho seguito per circa due anni, realizzato con la “casa circondariale” di Terni (la prigione in parole povere) in collaborazione con Rai Cinema, concluso il 14 febbraio 2017, giorno di San Valentino, patrono di Terni.

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L’idea di Chiara Pellegrini, appassionata e lungimirante direttrice del carcere, era quella di “ridare la voce ai detenuti” con la responsabilità della loro immagine fuori dal carcere. Per la prima volta (credo nella storia) sono stati loro a realizzare le riprese da “autori”, scegliendo contenuti e linguaggio. Il cambiamento del punto di vista è la cifra del film.
Il progetto è partito grazie a Oreste Crisostomi, che a Terni aveva iniziato un cineforum con i detenuti. Dopo vari cambiamento di percorso ha poi finalmente trovato una sua definizione produttiva, grazie alla determinazione di Sandro Frezza, che con me l’ha prodotto.
Sei detenuti (selezionali in accordo con la direttrice e con il comandate del carcere Fabio Gallo), hanno avuto in mano una telecamera per alcune settimane allo scopo di documentare la loro vita, in piena libertà di azione da registi-operatori, ovviamente nei limite della loro condizione… chi nella sezione “comuni”, chi in quella dei “semi liberi”, chi ormai in “affidamento” fuori dal carcere.
Ottenere i permessi non è stato facile, anche per le procedure legare alla sicurezza che devono essere sempre rispettate. Rosario, Alessandro ed Erminio vengono dalla Campania. Thomas da Milano, ma è cittadino svizzero. Slimane dal Marocco. Rachid dalla Tunisia.
Sei storie e personalità molto diverse. Per tutti e sei, condanne piuttosto pesanti: omicidio, rapina, spaccio di droga.
Il titolo “Fuori Fuoco” è nato durante il seminario per l’apprendimento dell’uso della telecamera… un po’ per scherzo, perché all’inizio molte riprese erano sfocate, ma può anche far pensare che ora i sei registi-detenuti sono lontano dal “fuoco delle armi” e del pericolo delle loro vite precedenti.

Entrare in un carcere, familiarizzare con un gruppo di detenuti e frequentarli per oltre due anni può riservare molte sorprese. Prima di tutto si rimane colpite dalle persone. L’intelligenza e la sensibilità dei detenuti che ho incontrato durante la lunga realizzazione di questo film mi porta a supporre che l’esperienza del carcere sia, nel bene e nel male, molto formativa.
“Chi galera non prova, libertà non apprezza!”
Una specie di proverbio che nel film viene pronunciato da Thomas, che si è formato e ha “lavorato” con gli ultimi componenti della banda Vallanzasca. La sua storia è particolarmente curiosa, perché viene da una “buona famiglia”. Non gli mancava nulla, ma fin da ragazzo si era sentito irresistibilmente attirato da una vita fuori dalle regole, una vita nel crimine. All’epoca, le bande operanti a Milano, avevano una specie di “codice d’onore” e le armi erano considerate un male necessario. Lo scopo era l’arricchimento, la violenza gratuita era impensabile.

La banda Vallanzasca durante il processo
La banda Vallanzasca durante il processo

Thomas aveva appena quindici anni quando cominciò a frequentare il bar dove alcuni personaggi della Milano criminale passavano il tempo, giocando a carte e ritrovandosi a bere. Erano rapinatori di banche della vecchia scuola, con una grande esperienza e un approccio quasi scientifico. Ben presto era diventato il “pinella”, il ragazzo di bottega che veniva mandato a comprare le sigarette e a fare piccole commissioni, ma niente di illegale. Per questo già riceveva delle mance, di molto superiori alla paghetta che i suoi genitori, del tutto ignari, gli passavano ogni sabato.
L’inizio della sua storia ricorda molto quella del personaggio interpretato da Ray Liotta in “Goodfellas” di Martin Scorsese.

Ray Liotta in "Goodfellas"
Ray Liotta in “Goodfellas”

Aveva iniziato facendo il palo, poi l’autista al cambio delle macchine… l’autista fuori dalla banca. Poi, siccome era molto giovane e aveva una faccetta d’angelo, i capi decisero di utilizzato per le “aperture”. Si presentava alla porta della banca prescelta, dove la guardia non esitava a farlo entrare… ma ecco che in pochi secondi arrivavano gli altri con le armi.
“Le rapine sono peggio della droga… perché ti danno una scarica di adrenalina, e ne vuoi sempre di più, al di la dei soldi.”
Thomas non è finito in galera per rapina, lo hanno fregato un po’ come Al Capone, con un accumulo di piccole pene in seguito a 23 controlli fatti a un indirizzo falso che aveva dato, dopo essere fuggito in Brasile mentre era in libertà vigilata. Quando è stato catturato, pensava ingenuamente di dover scontare un paio d’anni al massimo: ne ha avuti diciotto, ridotti poi a quattordici.

Al Capone
Al Capone

Rachid era in prigione per omicidio, pieno di rabbia e di rancore, ma un giorno aveva seguito il suggerimento di un educatore e si era messo a scrivere quello che pensava, trovando nella poesia la forma a lui più consona… nella sua lingua, ma anche in italiano, che orami parla con proprietà di linguaggio ed eleganza.
Nel film ci sono due poesie di Rachid. Una delle due è declamata da Gilberto, un altro detenuto: la sua voce su un montaggio d’immagini statiche.
Silenzio assordante
risiede nell’anima e nella mente.
Ne alba ne tramonto.
Ho visto momenti difficili
vissuti in angoli di buio
e giornate insignificanti.
Ho visto vite apparenti di esseri umani
sepolti vivi e morti viventi.
Ho visto draghi senz’ali, rassegnati,
inghiottiti dai cancelli.
Nel passeggio, pezzettini di carta
sotto il soffio del vento,
residui di urla interiori,
di una vita andata in brandelli.
Nel colloquio, fazzolettini
bagnati di lacrime,
da un’anima amareggiata,
e tanti, tanti baci, stampati
su quella maledetta vetrata.

Rachid ha pubblicato il libro delle sue poesie. Ormai è vicino alla fine della sua condanna, nel giro di un mese o due dovrebbe essere liberto.

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l’interno del carcere di Terni

Erminio faceva una vita apparentemente normale: una famiglia, un buon lavoro da trasportatore… ma poi, ogni tre/quattro mesi, lui e la sua banda, rapinavano un portavalori. Con la moglie e il figlio riusciva a giustificare un migliaio di euro in più ogni mese, con la scusa di qualche straordinario, e quindi qualche spesa extra, una vacanza, un regalino, qualche ristorante…
In realtà in cantina nascondeva centinaia di migliaia di euro: ogni mattina ne prendeva una mazzetta, tre/quattromila euro che poi consumava nel corso della giornata… donne, droga, gioco d’azzardo.
“Manie di grandezza, stupidità…”
La sua parte nell’ultimo bottino era di centotrentamila euro. Se avesse confidato alla moglie la sua doppia vita è certo che lei lo avrebbe lasciato e denunciato… ma quando l’hanno beccato (per una fatalità non prevedibile) è rimasta con lui e l’ha aspettato fino alla liberazione. In carcere ha scritto un libro in collaborazione con Gilberto, un altro detenuto, che è stato pubblicato dalla casa editrice AGA nel 2015: “Vademecum del detenuto. Manuale per sopravvivere in un carcere italiano”
Al momento delle riprese del film aveva già finito di scontare la sua pena e si trovava in una casa famiglia a Terni.

vademecum detenuto

Alessandro preferisce non parlare dell’episodio che l’ha portato a una lunga detenzione. Dopo una lite, era andato a casa a prendere la pistola. Era alterato, e aveva sparato con l’intento di uccidere… ma aveva sbaglio bersaglio, troncando la vita a una bambina che si trovava lì per caso. Il senso di colpa lo perseguita e non è un caso se nel suo percorso di riabilitazione abbia intersecato la vita di un ragazzo autistico, con il quale ha stabilito un rapporto molto speciale, con un reciproco sostegno, scambio di amicizia e affetto. Forse ha trovato la sua strada… sembra che abbia una vera capacità di relazione con questi ragazzi problematici e potrebbe continuare a lavorare in questo settore. Adesso è in semi libertà e ha trovato una ragazza con la quale spera di ricominciare.

Rosario ha un sorriso speciale, una stazza da rugbista, un carisma che si avverte ancora per un po’ nell’ambiente quando se ne va per tornare nella sezione dei semi-liberi… A Napoli ha una moglie e un figlio. Gli hanno dato 14 anni e 8 mesi per spaccio, quando aveva poco più di vent’anni.
E’ difficile comprendere la pesantezza di certe condanne quando sentiamo che fatti di cronaca con stupri, pedofilia e omicidi, spesso si concludono con pene molto più leggere. Chi non ha i mezzi per difendersi adeguatamente paga per tutti.
Rosario mi ha spiegato che il motivo della sua grave condanna è che aveva un fratello a Como… spacciatore anche lui.
“Ma non lavoravamo insieme… Ognuno per se.”
Ogni tanto si telefonavano per salutarsi e così gli hanno dato anche l’associazione a delinquere, con il relativo inasprimento della pena. Questa è la sua versione… Non ho letto gli atti del processo ma mi è difficile non credere alla parola di Rosario che sprizza simpatia, entusiasmo e speranza, nonostante la sua condizione.
A parte il rammarico di essersi perso dietro le sbarre gli anni della crescita di suo figlio, il suo ottimismo partenopeo lo porta verso un futuro che sono certo sarà migliore del suo passato.

Slimane è evaso, è fuggito in Marocco. Gli mancavano solo un paio d’anni e questa evasione è difficile da spiegarsi se non per l’inquietudine che lo accompagnava. Ogni tanto diceva di non farcela più… Il personaggio di Slimane apre e chiude il film.
Ormai aveva maturato il diritto a un permesso premio senza accompagnatore. Un cugino è venuto a prenderlo per portarlo a Perugia qualche giorno. Dopo essere andato alla caserma dei carabinieri a firmare, guadagnando ventiquattro ore, ha fatto perdere le sue tracce. Pensiamo che sia in Marocco, dove non esistono accordi per l’estradizione.
Non avrebbe senso per me giudicare le sue azioni, non ne so abbastanza, ma non posso che essere felice di saperlo finalmente libero, nel suo paese, con la sua famiglia.
La cosa straordinaria è che dopo la fuga, controllando il materiale da lui girato, abbiamo trovato una lunga ripresa notturna, fatta all’interno della sua cella. Con un notevole gusto dell’immagine e una “regia” davvero efficace, si è ripreso riflesso sul vetro della finestra che dà sul grande cortile interno della prigione, attraverso le sbarre. Un lungo monologo in arabo. Abbiamo chiesto a Rachid di tradurlo e il risultato è stato sorprendete. Slimane in quel momento di solitudine e disperazione racconta la sua storia. Alla luce delle decisioni che poi ha preso questa testimonianza rappresenta una specie di testamento spirituale, l’ultimo atto della sua partecipazione al progetto FUORI FUOCO. Un finale da brivido!
Da film maker a film maker: grazie amico.

Durante il festival di Cannes del 2010, poco prima della proiezione del film di Sabina GuzzantiDraquila – l’Italia che trema”, incontrai per l’ultima volta Hector Babenco. Erano passati dodici anni da quando avevamo lavorato insieme a Venezia, dieci dall’incontro a Rio.
Cannes riproponeva alcuni suoi film nella sezione “Classics”. Fui molto contento di quell’incontro fortuito, anche perché con un certo orgoglio gli potevo dire che ero invitato al festival come “produttore di un film della selezione ufficiale”.

Hector Babenco a Cannes
Hector Babenco a Cannes

Gli presentati Sabina e poi rimanemmo a parlare per un po’. Mi venne in mente, e glielo ricordai, una storia personale che mi aveva raccontato dodici anni prima a Venezia. Riguardava una donna che aveva lasciato un segno profondo nella sua giovinezza. Molti anni dopo l’aveva incontrata in Brasile. Hector era ormai un regista affermato, con una nomination all’Oscar. Inizialmente l’incontro era stato molto emozionante ma poi la cosa aveva preso una piega inaspettata. La sua antica fiamma gli aveva ricordato un episodio della loro giovinezza nel quale avevano fatto l’amore in modo particolarmente passionale e poi lui l’aveva accompagnata a casa con un vecchio pick up…
Già alcuni particolari del racconto non tornavano, ma a quel punto Hector aveva capito che, nel ricordo, il “grande amore della sua vita” lo aveva confuso con un altro. Lui non aveva mai avuto un pick up! E pensare che per quella donna aveva corso dei rischi gravissimi, ritardando la partenza dall’Argentina, suo paese natio: solo per una serie di fortuite causalità era scampato all’arresto ed era fuggito, prima in Italia, poi in Brasile dove sarebbe vissuto fino alla sua morte.

Dopo quell’incontro a Cannes ho ripreso i contatti con Hector, ma in due successive occasioni non siamo riusciti a incontrarci a Sao Paulo, quando fui invitato al festival nel 2013 (con “Un minuto de silencio”) e nel 2014 (con “Vinodentro”).

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La prima volta Hector non era in città, la seconda era in ospedale. Evidentemente non era destino che le nostre strade s’incrociassero ancora se non nel mondo virtuale della memoria che qui viene fermata e diventa una piccola storia.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

Ferdinando Vicentini Orgnani

CONTAMINAZIONI n° 1 La “legge nascosta” che connette arte e scienza

Il cinema APOLLO 11 (via Nino Bixio 80/A – ROMA) fa rivivere un’atmosfera d’altri tempi, quando i cineclub erano il luogo dove si andava a vedere il CINEMA. Per questioni anagrafiche, i miei ricordi in questo ambito partono dalla seconda metà degli anni 70’. In situazioni molto simili ho visto le rassegne dei grandi registi, film che all’epoca sarebbe stato difficile vedere in altro modo.
La sala è spartana ma accogliente e c’è una bella atmosfera.
Il fastidio della “tessera associativa”, con relativa compilazione dei dati personali all’ingresso, è ampiamente ripagato.
Un comodo divano, al centro, sotto lo schermo, suggerisce che dopo il film potrebbe esserci “il dibattito”.
In questo caso il dibattito è annunciato, poiché l’occasione è la presentazione di un film con la presenza del regista in sala.

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NESSUNO MI TROVERA’ è l’ultimo lavoro di Egidio Eronico, un documentario lungometraggio su un grande della fisica, Ettore Majorana, e sulla sua misteriosa scomparsa, o morte presunta, datata 27 marzo 1938. La vicenda è nota, ma per chi non la conoscesse sarà facile documentarsi.
Attraverso una serie di testimonianze, materiali di repertorio, fotografie e affascinanti ricostruzioni animate, lo spettatore s’immerge nella complessa personalità di un genio, seguendo un racconto tra interpretazioni e congetture, che caratterizzano il breve passaggio di Majorana in questo mondo.
Il film è abbastanza esaustivo sull’argomento e offre anche una serie di riflessioni etiche e filosofiche sul senso della ricerca, sull’ambizione, sulla natura umana e altro.
La colonna sonora di Riccardo Giagni lega il tutto con eleganza e guizzi di originalità.
La sala è piena. Alla fine della proiezione il regista spiega che cosa l’ha spinto a cimentarsi con questa complicata vicenda.
C’era qualcosa che non mi convinceva…” Si riferisce alle molte interpretazioni contraddittorie che hanno contribuito a fare di Majorana un personaggio sfuggente e inafferrabile.
Era partito con l’idea di farne un film di finzione, cosa che la realizzazione del documentario non esclude… Potrebbe essere un primo passo per cominciare a sbrogliare la matassa, facendo emergere una trama, un punto di vista, adatto a un film di finzione… possibilmente non da RAI 1, ma da CINEMA.

il regista Egidio Eronico
il regista Egidio Eronico

Egidio Eronico non è nuovo a rigorose interpretazioni fiction della realtà. Un suo film precedete (My FatherRua Alguem 5555 – del 2003), racconta la storia vera del figlio di Josef Mengele, che raggiunge il padre nascosto in Brasile per incontrarlo un’ultima volta.
Uno straordinario Charlton Heston nel ruolo dello spietato scienziato nazista, che (per quanto ci possa stare un po’ antipatico per il suo sostegno incondizionato a National Rifle Association) con il suo “peso specifico” e la scelta di un’interpretazione fredda, gelida, distaccata, ci regala un personaggio indimenticabile, superiore persino a Gregory Peck che interpretò lo stesso ruolo ne “I ragazzi venuti dal Brasile”, di Franklin Schaffner (1978).

il produttore Andrea Stucovitz
il produttore Andrea Stucovitz

Dopo un colorito intervento di Andrea Stucovitz, giovane produttore del film, Egidio presenta Valerio Rossi Albertini, un fisico del CNR, che si sofferma a definire il possibile orizzonte di una mente superiore, di un genio, quale appunto Majorana è considerato quasi universalmente. Per spiegarlo, parla di Albert Einstein e del fatto che la sua precisa intuizione di cento anni fa sulle onde gravitazionali, solo recentemente è stata dimostrata. L’arco temporale di un secolo suggerisce che il “genio” è colui che vede lontano.

Valerio Rossi Albertini
Valerio Rossi Albertini

Anche Ettore Majorana, a distanza di circa ottant’anni tiene ancora gli scienziati con il fiato sospeso per la teoria secondo la quale neutrini e antineutrini sarebbero due manifestazioni della stessa particella, come le due facce di una stessa medaglia: la transizione tra materia e antimateria risulterebbe allora possibile. Questo fenomeno, seppur raro, potrebbe essere stato frequente nell’universo primordiale immediatamente dopo il Big Bang, e avere determinato la prevalenza della materia sull’antimateria.
Un complesso esperimento, attualmente in corso, tra qualche anno svelerà se il neutrino e la sua antiparticella coincidono, e quindi se Majorana ci aveva visto giusto.
Sarà uno di quei rari casi, come lo è stato per le onde gravitazionali di Einstein, in cui la scienza pura troverà spazio sulle prime pagine dei giornali. Aspettiamo e leggeremo…

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Sull’onda della conversazione che nasce spontaneamente dal film a proposito del complicato rapporto e della rivalità tra Fermi e Majorana, si alza una voce che, se pure apparentemente lontana, è invece molto presente.
Mario Pieroni, è in prima fila con la moglie Dora. Nel 1979 avevano aperto una galleria d’arte proprio a via Panisperna, davanti alla facoltà di fisica, inaugurandola con una mostra di Gino de Dominicis, Jannis Kounellis e Ettore Spalletti.

Mario & Dora da un ritratto di MIchelangelo Pistoletto
Mario & Dora da un ritratto di Michelangelo Pistoletto

Negli anni, molti grandi artisti sono passati di li: da Gerhard Richter a Michelangelo Pistoletto, da Gilbert & George a Carla Accardi… La presenza di quel passato mitico, come una “legge nascosta”, si mescolava con l’arte contenuta tra le mura della galleria di Mario e Dora.

Michelangelo Pistoletto
Michelangelo Pistoletto

La contaminazione tra arte e scienza viene facile, ancora di più se si pensa all’atteggiamento di Majorana, polemico e provocatorio per natura, che ricorda quello di alcuni artisti.
Da Caravaggio a Francis Bacon, da Luigi Ontani a Thierry de Cordier… la biografia e il carattere creano un contrappunto che contribuisce a dare al lavoro una luce diversa, diventandone un elemento imprescindibile. Lo stesso accade in letteratura: basti pensare a Oscar Wilde, Pier Paolo Pasolini, Cormac McCarthy, John Maxwell Coetzee…
L’aspetto di Majorana che a Mario preme sottolineare, è la sua volontà di sottrarsi a certe forme di attenzione, di celebrazione, mettendosi consapevolmente e volutamente “conto” il sistema, come quando a sorpresa si presentò a un concorso a Roma, disturbando i piani del potere accademico. Per toglierlo di mezzo, Fermi gli fece conferire una cattedra per “meriti speciali” a Napoli.
Con le dovute proporzioni, pensando in parallelo al mondo dell’arte, Majorana in certi suoi atteggiamenti può ricordare Emilio Prini, uno degli artisti più misteriosi e inafferrabili del nostro tempo… oppure Vettor Pisani che, se pure più affabile, era incapace di allontanarsi da un cronico pessimismo cosmico che l’ha portato a togliersi la vita, come potrebbe aver fatto Ettore Majorana.

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Al mio fianco, c’è Alessandro Variola, detto “Opo”, un vecchio amico di Udine (nato in Brasile nel 1966). Anche lui è un fisico, ma non interviene durante il dibattito, credo per rispetto del suo collega, invitato dal regista.
Di lui so quasi tutto per l’affetto che ci lega da diversi decenni.
Anche mio padre era fisico, ma per ragioni di salute era stato costretto ad abbandonare la ricerca. La sua grande passione era dare lezioni di matematica a me, mio fratello e ai nostri amici, tutti somari. Opo è l’unico che ha fatto tesoro di quelle lezioni e ben presto ha preso il volo.
Dopo la laurea a Trieste ha fatto il dottorato di ricerca all’Università di Parigi Sud. Poi è andato al CERN di Ginevra per lavorare, tra le altre cose, sull’acceleratore LHC.
Per mio padre Opo era come un altro figlio, e per noi un fratello acquisito.
Nel 2014 è stato richiamato dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) con la legge per il rientro dei cervelli in Italia. Attualmente dirige il programma di sorgente di fotoni gamma ELI NP ai Laboratori Nazionali di Frascati (LNF) dell’INFN. Insegna fisica degli acceleratori all’Università di Parigi Sud e Fisica Moderna alla Sapienza di Roma.
Sono molto contento che sia approdato a Roma, così ci si potrà vedere più facilmente.
Fuori dal cinema, nonostante le domande che gli facciamo, un po’ si trattiene, Opo non è proprio autocelebrativo… ma poi cede alla passione e comincia a parlare, cercando di farci capire il suo mondo e le sue proiezioni.

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Alessandro Variola

Quali sono le sfide della fisica del futuro?
Quali le grandi questioni alle quali dare una risposta?
La prima è capire il motivo dell’asimmetria materia-antimateria nell’universo. E’ evidente che il nostro universo è composto essenzialmente di materia ed è per questo che possiamo esistere. In un mondo costituto da materia e antimateria in egual misura, si avrebbero continui fenomeni di disintegrazione e di creazione di particelle, una condizione di totale instabilità.
Eppure, nei momenti successivi al big bang, una “legge nascosta” ha rotto la simmetria materia-antimateria data dall’eleganza delle leggi matematiche che regolano i fenomeni fisici. Meccanismi di violazione delle simmetrie sono stati già scoperti, ma la loro intensità non è sufficiente per giustificare il dominio della materia sull’antimateria nell’universo conosciuto.

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La seconda grande questione, è quella di conoscere l’origine della materia oscura. Per molti decenni le misure cosmologiche (e non) per conoscere di cosa è costituito il nostro universo, sono diventate sempre più precise e i modelli associati sempre più raffinati. Con “materia”, nell’universo noi definiamo quindi tutto ciò che è regolato dai meccanismi della fisica a noi conosciuti e che quindi permette di essere rivelato, ma tramite diverse misure dello stato “dinamico gravitazionale” dell’universo si può dedurre che solo il 5% della materia dell’universo forma galassie e ammassi stellari. Quasi il 30% invece contribuisce alla dinamica gravitazionale ma non interagisce con le forze elettromagnetiche e quindi è definito come “materia oscura”. Con questo termine individuiamo un tipo di materia che ancora non siamo in grado di inquadrare nei modelli fisici.

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Queste due grandi questioni si possono riassumere in una domanda: “Quali sono i limiti di validità del modello standard?”
L’ingegno di pochi è riuscito a fornire un modello delle interazioni tra particelle che si è dimostrato incredibilmente preciso e verificabile sperimentalmente. Nonostante abbia un intrinseco alto livello di complessità, riesce a descrivere con estrema precisione le diverse particelle, i loro comportamenti e, sempre tramite leggi di simmetria, le particelle che gestiscono le interazioni. Ma le due domande precedenti dimostrano che ci deve essere qualcosa al di la del modello standard, qualcosa di più generale e complesso…
Forse la realtà deve essere descritta da un modello più generale, di cui il modello standard non è altro che una parte che ne descrive un dominio limitato in energia, come ad esempio la gravitazione di Newton è una parte approssimata della relatività di Einstein.
Eh sì, c’è ancora molto da fare…

Ecco… Questo e altro può accadere se una sera decidiamo di uscire di casa e andare al CINEMA.

Ferdinando Vicentini Orgnani

Ferdinando Vicentini Orgnani
10 giugno 2016