Conferenza stampa sui dati CINETEL 2017

Le Associazioni ANEC-AGIS, ANEM, ANICA e la Direzione Generale Cinema del MIBACT hanno tenuto ieri, presso la Sala Cinema della Presidenza Nazionale ANEC, l’annuale conferenza stampa sui dati CINETEL del mercato cinematografico 2017 .

Ascoltando la conferenza di presentazione dei dati cinematografici elaborati da Cinetel nascono due sensazioni: la prima è che le poche e confuse parole che vengono espresse siano quelle di quattro, cinque, sei anni orsono, le stesse identiche.

La seconda è che quella specie di comitato “bulgaro” che sovrintende alla presentazione stia prendendo in giro tutti, e nemmeno con uno sforzo apprezzabile.

Descrive lo scenario devastante del fallimento Borg, vale a dire colui che con la Universal ha guadagnato per conto degli americani le fette di fatturato perse dal nostro paese, e danno una loro interpretazione del momento storico i soliti Occhipinti e Cima, cui si legge in faccia che loro da questa crisi non sono nemmeno sfiorati, visto che quello che conta sono i rapporti televisivi.

da sx a dx Rutelli, Cima e Occhipinti

Rutelli poi non nasconde l’imbarazzo di dover parlare di una materia che non conosce e che probabilmente non gli interessa, e inanella discorsi vuoti di contenuto ma rassicuranti: il cinema è vivo.

La realtà è che il cinema è morente anche grazie al lavoro pessimo di questi signori e ad una legge che non è entrata ancora in vigore e che dubito potrà mettersi in moto tra esperti internazionali di chiara fama, una piattaforma che non funziona e richieste burocratiche da paese borbonico.

Dimettetevi, questa è l’unica implorazione e imprecazione che viene spontanea dopo la conferenza di ieri, nella quale si è parlato per la centesima volta di pirateria, di internet e dell’estate le vere colpevoli secondo loro della crisi.

Ma dire che il prodotto italiano è troppo modesto non è più regolare? Dire che questo cinema di Stato gestito da una sinistra cieca e faziosa ha mostrato i suoi limiti, non sarebbe segno di civiltà? Quanti soldi sono stati gettati dallo Stato, e quindi anche dalla Rai, con i tax credit, le agevolazioni, i contributi, in un buco nero che vale il 17,8% del fatturato nazionale?

Paola Cortellesi e Antonio Albanese alla presentazione del loro ultimo film “Come un gatto in tangenziale”

Quando un film ha un minimo di personalità, la gente va a vederlo: questa è la miserabile considerazione che si evince guardando i dati, e non c’è bisogno di capolavori, basta una commediola non deficiente con Albanese per dimostrare che il pubblico si accontenta di poco!

Ma non si è accontentata del nulla che è stato proposto nel 2017,  e qualcuno, in politica, nel governo, dovrebbe trarre, quanto meno, le conclusioni: il cinema di Stato quello determinato dalla televisione e dal Ministero, quello stabilito discrezionalmente nelle stanze dei potenti, non funziona, il cinema dei privilegi, non funziona. Il cinema è libertà e creatività: servono autori, testi intelligenti, attori credibili, produttori veri.

 

Avv. Michele Lo Foco

Membro Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo

 

Ridley Scott licenzia Kevin Spacey

A poco più di un mese dall’uscita del film sul rapimento di Paul Getty, prevista per il prossimo 22 dicembre la produzione dell’ultimo film di Ridley Scott intitolato “Tutti i soldi del mondo” caccia Kevin Spacey investito dallo scandalo molestie sessuali.

Andranno rigirate tutte le scene in cui compariva Spacey e la cosa non è banale e le segretarie di produzione sanno bene cosa vuol dire ricreare tutti i set con precisione ossessiva, mentre i registi sanno che sequel particolare pathos non sarà facile da replicare, ma l’etica è tutto o quasi e quindi non c’è altra scelta che ingaggiare un solido professionista come Christopher Plummer e rifare tutto quanto. Non sarà indolore sui conti della produzione

Spacey a sinistra e Plummer a destra

Le quattro società co-produttrici hanno storia più televisiva che cinematografica. La Scott Free Productions ad esempio è quella di “Numb3rs” e della serie “The Good Wife” mentre la Imperative ha prodotto la serie “Heroes reborn”. Nonostante non sarà indolore per i loro conti economici riconvocare altre star del cast come Mark Wahlberg e Michelle Williams per rifare le scene con Plummer, la loro è una scelta obbligata se vogliono continuare ad entrare nelle case degli spettatori con le loro serie TV.

Michelle Williams e Mark Wahlberg

Qualcosa però non quadra in questo moralismo. Quantomeno bisogna contestare una certa tempistica tardiva a cui si aggiunge una opaca mancanza di sincerità. Da sempre il pubblico ha un’immagine distorta degli idoli cinematografici, ma parimenti l’industria conosce invece ogni vizio privato che si cela dietro supposte pubbliche virtù. Nel 1955 quando la rivista “Confidential” (Siamo come avrete capito in piena atmosfera James Ellroy) stava per pubblicare i gusti sessuali di Rock Hudson, la Universal molto pragmaticamente pagò una somma per evitare che il sex simbolo maschile ne fosse distrutto. Sempre in perfetto clima noir si svolse la vicenda che coinvolse Robert Mitchum accusato di fare uso di stupefacenti e che indusse RKO, lo studio che aveva sotto contratto l’attore a quel tempo, ad imporre al proprio pupillo di fare pubblica ammenda.

Rock Hudson

Da allora nulla è cambiato, l’industria continua nella commistione tra immagine pubblica e ruoli d’attore. Tutti sanno tutto, ma si procede alla cacciata ed al ludibrio solo quando la macchia diviene di dominio pubblico. Se Kevin Spacey fosse degno o meno dei valori etici e morali della produzione del film di Scott era noto prima che scoppiasse lo scandalo  e se merita ora di essere ostracizzato altrettanto lo merita il regista e tutta la produzione. Se invece, come non sarebbe peregrino propendere, si volesse mantenere distinti gli attori ed i loro ruoli dalla loro vita personale (ché privata, se uno vuole fare il divo, non ce la può avere una vita) nulla osta affinché il cast concluda il film così come è partito. La seconda ipotesi è ovviamente pura utopia poiché è il pubblico che vuole confondere attore e personaggio e per dirla con un idolo che impersonò perfettamente tale fusione “Nessuno dovrebbe andare al cinema se non crede agli eroi” (John Wayne).

 

 

Non avete ancora sentito niente

Sono passati ormai 90 anni da quel 6 ottobre 1927 in cui Al Jolson, corifeo del vaudeville, fece sentire la propria voce nel ruolo del protagonista del film “Il cantante di jazz”. Prima di allora il cinema era muto, nel senso che non parlava, ma non era del tutto silenzioso, infatti è sempre stato accompagnato da musica dal vivo, oppure riprodotta con strumenti come il fonografo. C’erano persino attori che leggevano i dialoghi e riproducevano i rumori.

un kinetoscopio di Edison

Pioniere della sincronizzazione tra immagine e suono fu già Edison che trovò la maniera di far funzionare contemporaneamente il kinetoscopio, la sua invenzione con cui nacquero i nickleodeon theatres,  e il fonografo. Ma il kinetoscopio era un apparecchio ad uso individuale e per far fruire audio ad un pubblico in sala si dovrà attendere almeno fino al 1923 quando Lee DeForest brevettò il “Phonofilm”, la prima pellicola a contenere una traccia audio incisa su una striscia verticale a lato dei fotogrammi.  Segue la Western Electric che nel 1925 inventa il “Vitaphone”, un sistema basato sulla sincronizzazione di una pellicola e dei dischi. L’appena nata società dei fratelli Warner adotta il sistema Vitaphone e il 6 agosto 1926  proietta al pubblico il film di Alan CoslandDon Giovanni e Lucrezia Borgia” . Il sistema funziona, ma il film, girato per il muto e quindi senza dialoghi, presenta giusto la colonna musicale sintonizzata e la cosa non fa certo scalpore.

Al Jolson e May McAvoy

Neppure  “Il cantante di Jazz” presenta dei dialoghi, il lavoro di sceneggiatura non si è ancora adeguato al passo tecnologico, ma in quattro scene è sincronizzata la voce di Al Jolson mentre canta e in una di queste recita le celeberrime parole “You ain’t heard nothing yet” e indubbiamente, prima di quel momento, nessuno spettatore aveva ancora sentito niente di simile durante una proiezione cinematografica.

Gene Kelly in “Cantando sotto la pioggia”

La rivoluzione del sonoro non fu incruenta e molti divi dalla voce gracchiante o dall’eloquio deludente ci lasciarono le penne. I film risulteranno più statici perché i microfoni non sono molto sensibili e nemmeno direzionali, per cui funzionano poco e male, captando tutti i rumori del set. Non c’è la possibilità di avere tracce audio separate da mixare con comodo in studio per cui dialoghi rumori e musiche vanno registrati in contemporanea. Persino il rumore della macchina da presa diventa un problema e deve essere collocata in una cabina insonorizzata che ne limita grandemente in movimenti. Un trauma di tale magnitudo influenzerà per sempre l’industria di Hollywood e ancora nel 1951 Stanley Donen rievoca quel momento girando “Cantando sotto ls pioggia” con Gene Kelly e Lina Lamont, in cui i protagonisti, stelle del muto, si trovano a convertirsi in attori parlanti in corso d’opera mentre girano un film intitolato “Il cavaliere spadaccino”.

Un fotogramma di “Aurora” di Murnau

Il primo film pensato e realizzato peri sonoro sarà nel 1928 “Le luci di New York” di Brian Foy , seguito l’anno successivo dal primo musical cantato, parlato e danzato, “The Broadway Melody” di Henry Beaumont. Ormai il dado è tratto e si moltiplicano i sistemi di sincronizzazione, per cui la Fox adotta un suo stima chiamato “Movietone” molto simile al “Phonofilm” , utilizzato per esempio nella colonna sonora del famoso film di Murnau “Aurora”, anch’esso del 1927. Anche RCA realizza il proprio brevetto che chiama “Photophone” e questo proliferare di standard incompatibili tra di loro spingerà le cinque grandi MGM, Paramount, First National e Producers Distributing Co. a siglare un accordo per la pellicola prodotta dalla Western Electric, mentre il sistema a dischi resisterà sino al 1931 quando la Warner , la prima ad adottarlo, sarà l’ultima costretto ad abbandonarlo.

Entrambi editi e distribuiti da DNA sono disponibili in commercio i DVD de “Il cantante di Jazz”, pubblicato proprio questo mese per celebrare i 90 anni dalla sua uscita, e “Aurora” di Friedrich Wilhelm Murnau.

 

Il caso Weinstein

Il clamore delle accuse di violenza sessuale al ticoon della Miramax non accenna a diminuire, anzi aumenta con il moltiplicarsi delle rivelazioni. Ma al di là della sorte di questo personaggio, che oltretutto impersonifica fisicamente lo stereotipo del maialone grasso e sudato, di cui ci interessa ben poco, sorge naturale porsi il problema morale di quello che succede tra uomo e donna e di quanto siano distanti gli americani dagli italiani.
La donna, molto spesso, è cosciente del potere attrattivo che esercita sull’uomo e lo esalta, con vestiti, scarpe, atteggiamenti. Fa tutto parte della libertà individuale, ci mancherebbe altro, e il mondo dello spettacolo è composto anche di apparenza, se non prevalentemente, ma non c’è dubbio che l’uomo venga sollecitato nei suoi più bassi, originari, istinti da una supposta disponibilità della donna a farsi quantomeno guardare.
Nulla di strano, tutto abbastanza naturale, il desiderio è il motore della attrazione e l’attrazione spinge al rapporto e alla procreazione. Senza desiderio non ci sarebbe l’unione.

Jane Fonda prova i costumi del film “Barbarella”

La donna però, talvolta, utilizza il desiderio come un arma, e l’uomo utilizza in cambio il potere come arma.
Facciamo un esempio: la donna esercita il suo fascino esponendosi talvolta completamente, facendosi mirare, e l’uomo è un personaggio comune, senza potere, senza ascendente. Cosa succede in questo caso? Il nostro uomo è succube dell’immagine, diviene adorante, fan, si prostra, è pronto a tutto pur di avere una minuscola frazione del tempo di lei.
Oppure viceversa: lui è potente e ambizioso e lei vuole affermarsi, cerca spazio, è solo bella e sconosciuta, ha solo l’arma del desiderio, che è però affilata. Il nostro uomo, allora, esercita il potere, si afferma, concede i suoi servizi in cambio della bellezza, paga il rapporto con il lavoro. Orrendo, non c’è dubbio, ma capita tutti i giorni: le donne belle lo sanno, alcune sono incapaci di gestire il rapporto, altre ne approfittano, altre ancora si sposano l’uomo potente.

Harvey Weinstein e Rose Mc Gowan

Nel nostro paese di Weinstein ce ne sono centinaia, nello spettacolo, nelle televisioni in Rai, nelle aziende, ma noi siamo più tolleranti, una mano sul sedere non è nulla, una strusciatina è doverosa, una raccomandazione è naturale. Un celebre avvocato penalista disse: “se la Rai potesse utilizzare l’energia sessuale al posto di quella elettrica risparmierebbe miliardi”. Come ci si assicura un posto in prima fila? Così, ognuno combatte come può e con le armi che ha, gli uomini brutti e rattosi esistono, sono la maggioranza, e spesso sono potenti; donne belle ce ne sono, e non tutte sono intelligenti o capaci.

Asia Argento in “Scarlet Diva” primo film lungometraggio scritto, diretto ed interpretato dall’artista romana

La scorciatoia del sesso, anche quello rubacchiato, quello nato dalla fantasia maschile, diviene l’autostrada per arrivare. Weinstein pretendeva, anche nelle occasioni italiane, che ci fosse merce fresca, aveva assunto un reclutatore Fabrizio Lombardo, oppure si accontentava di Asia Argento durante le vacanze festival: era fatto così, si era abituato così, e gli altri rispettavano le sue esigenze!
Non aveva remore, semmai ringraziava con una particina, che alle sue vittime però serviva.
Asia Argento non è la Duse, e come molte altre non vive di talenti naturali, non spicca nel gruppone delle attrici. Oggi si pente e guadagna la cronaca, ma quanto di calcolo c’era nel sopportare il porcone Weinstein, che lui si era in grado di valutare le capacità altrui? I ricatti sessuali intendiamoci, sono sempre da condannare e i colli di bottiglia professionali sono un attentato alla società: in Italia, nello spettacolo, ci sono solo colli di bottiglia, e talvolta a sorvegliare ci sono uomini meschini e pronti ad approfittare. Ma le donne di questa epoca lo sanno bene e rischiare è pericoloso e si può evitare.

Eleonora Pedron

Più di un anno fa, su “Il Borghese”, pubblicavo un articolo profetico dal titolo “La televisione sessuale” nel quale scrivevo…. “le donne scosciate all’inverosimile delle trasmissioni sportive che vanno per la maggiore, sono l’offerta televisiva che oggi paghiamo con il canone: le farfalline inguinali di donne votate a tutto, pronte a tutto sono l’esasperazione di annunciatrici incapaci dotate di corpi seducenti e di sguardi promettenti in un continuo superamento dei limiti cui sembra i dirigenti televisivi siano diventati succubi” e concludevo nel finale…. “l’uomo è quell’animale che nasconde a stento la sua impulsività e che ogni tanto si lascia andare ad una sottile libidine, con le dipendenti, con le passeggere di un autobus, con le ragazze al parco.” Non è cambiato molto da allora, ma l’America ha scoperto Weinstein con le mani nel sacco: ogni tanto una vittima fa bene, serve come esempio per un po’ di mesi.

 

Michele Lo Foco

Il mito del Low Budget

I cineasti sono generalmente colti da conati creativi che li inducono a produrre il loro film al di là della ragione e spesso al di la della convenienza. I più pragmatici si concentrano su soggetti che hanno perlomeno le caratteristiche per poter essere realizzati senza ingenti investimenti, ma i più visionari torcono la sceneggiatura sino a quasi spezzarla pur di perseguire il plot che hanno immaginato. La cosa sorprendente è che non vi è garanzia di qualità in alcuno dei due approcci. Una volta separato il grano dalla pula nella miriade di micro produzioni nazionali si trovano cose pregevoli sia nell’uno che nell’altro caso. Purtroppo se ne trovano poche, poiché la bontà di un film riposa in gran parte sull’originalità e, un po’ per ignoranza di chi ricalca in buona fede strade già percorse ed un po’ per l’avidità superficiale di chi vuol replicare i successi altrui, capita che proprio l’elemento di novità sia la materia più rara nelle produzioni indipendenti.

Un’immagine da “The Blair Witch project”

il celeberrimo “The Blair Witch Project”  diedero la stura ad una sequela di imbarazzanti horror girati con telecamera a mano che regalavano un’ora e mezza di noia a chi riuscisse a superare quella sensazione di mal di mare che iniziava già sui titoli di testa. “El Mariachi” di Robert Rodriguez ne costituisce invece l’analogo in chiave pulp dove i trucchi di Loyd Kaufman (quello della Troma per intenderci) sono ampiamente utilizzati per spargere di sangue una trama inesistente.

Roger Croman sul set di “La piccola bottega degli orrori”

Eppure nel passato del cinema ci sono stati eclatanti esempi di film low budget ingenerosamente chiamati B- Movie che sono poi diventati a pieno titolo dei classici della cinematografia di sempre. Un esempio imprescindibile è quello di Roger Corman a cui la scarsità di fondi non ha impedito di realizzare dei classici come “La piccola bottega degli orrori” o film quasi d’avanguardia come “Il serpente di fuoco“. In Italia poi fare distinzioni di budget è una questione di lana caprina poiché il nostro cinema, con poche trascurabili eccezioni, non è certo caratterizzato da grandi mezzi. Ciò non di meno in questo scenario così sparagnino sono sorti autori come Nanni Moretti che con “Ecce Bombo“, girato in 16mm partecipò in concorso al 31° Festival di Cannes, oppure come Davide Manuli che quasi vent’anni or sono girava con poche lire (c’era ancora il vecchio conio) “Girotondo giro intorno al mondo” co prodotto con Gianluca Arcopinto ed omaggiato , giustamente quanto tardivamente, durante i Venice days del l’edizione 2012.

Un’immagine tratta dal film d’esordio di Davide Manuli “Girotondo giro intorno al mondo”

Fare cinema non è solo questione di budget, anche se come in tante altre cose il denaro aiuta, ma è sempre stato soprattutto una questione di idee. Ai fratelli Lumière non difettava certo il soldo, eppure come prima ripresa non pensarono a nulla di meglio che riprendere i dipendenti uscire dalla loro fabbrica. Bisogna poi tener ben presente come le fonti finanziarie non connotano la qualità di un film, per cui i cineasti non dovrebbero presentare la propria opera permettendo che si tratti di un low budget, taluni vantandosene, altri quasi scusandosi, perché il termine di per sé non vuol dire niente. Ci sono solo buoni film e film trascurabili, ché di brutti, forse, in  ultima istanza non ce n’è.

Coproduzioni: forse non tutti sanno che…

La convenzione europea sulle coproduzioni cinematografiche è stata sottoposta ad una revisione ed una delle novità più importanti è che è stata estesa anche a paesi extra europei con tutti i vantaggi del caso che non sono solo finanziari ma anche commerciali e non ultimi culturali. A parte Kosovo e Bielorussia a tutti i paesi limitrofi al vecchio continente come la Turchia e gli stati caucasici è stato riconosciuto lo status di coproduttori eleggibili.

L’opera di revisione è cominciata nel 2011 incominciando con un sondaggio dello studio inglese Olsberg SPI e si è conclusa all’inizio di quest’anno con la redazione del nuovo testo portata a termine da un comitato di 15 esperti nominati dai 43 stati membri. L’adozione della nuova convenzione da parte del Consiglio di Europa si è perfezionata con la firma del testo modificato avvenuta il 30 gennaio nell’ambito della 46^ edizione del Festival Internazionale di Rotterdam.

Un momento della firma del nuovo documento al festival Internazionale di Rotterdam

A seguito della revisione sono variate le quote minime e massime di partecipazione finanziaria che passano rispettivamente dal 10% al 5% e dal 70% al 80%. Anche nel caso di un produzione di sue soli paesi le percentuali variano dal 80%-20% al 90%-10%. Mentre rimane invariata la quota massima del 30% in un progetto comunitario di un produttore di un paese estraneo alla convenzione (a patto che però i produttori di stati membri siano almeno 2).

Tra partecipazione finanziaria pura e titolarità dei diritti derivanti dall’opera c’è sempre stata la possibilità di un disallineamento che rispecchia la differenza tra un produttore che profonde in un film anche il lavoro tecnico ed artistico ed un soggetto che invece si limita al mero aspetto finanziario. In questi casi è previsto che la partecipazione del finanziatore puro non posa eccedere il 25% dell’investimento ed il medesimo non possa detenere meno del 10% della proprietà dei diritti.

Per evitare poi che la formulazione attuale della convenzione diventi presto obsoleta a causa delle spinte tecnologiche, è stato assegnato al Board of Management del fondo  Eurimages la funzione di monitoraggio e tutoraggio della convenzione, incoraggiando lo scambio tra i paesi firmatari e fornendo consigli sull’applicazione pratica delle norme oltre che recependo dai singoli stati membri richieste di emendamento alla Convenzione.

Tutto bene quindi? Purtroppo no poiché solo 10 stati, tra cui l’Italia, hanno ratificato il trattato e sino a che non avranno firmato tutti resta in vigore il testo della Convenzione pre revisione.

 

 

 

Miramax e la nuova gestione

La scimitarra dei nuovi proprietari arabi ha tagliato lo scorso mese 20 teste nella società che fu fondata nel 1979 dai fratelli Weinstein. La spending review a cui ha messo mano appena arrivato lo scorso aprile il nuovo CEO Bill Block (omen nomen) ha  fatto altre vittime. Giusto o sbagliato che sia non si può dire che abbia perso tempo o che si sia intimidito dalla lunga tradizione della società. Infatti una prima tranche di 25 impiegati fu licenziata già in maggio ad appena un mese dall’arrivo di Block. Venti duri quindi che quelli che soffiano dal Qatar ove ha sede Al Jazeera che acquistò Lo scorso hanno la società tramite la sua controllata beIN MEdia Group.

Bill Block

Bill Block non è un novellino , anzi è un veterano di Hollywood che ha sempre visto dall’alto l’industria americana. Sempre impegnato in progetti al top che lo hanno visto come produttore, finanziatore e distributore di centinaia di film, molti dei quali eccellenti ed alcuni pure innovativi secondo gli schemi americani come “District 9”, “Blair witch project” e “Buenavista Social Club”. Una professionalità indubbiamente capace di sperimentare oltre che gestire e che se è intervenuta così pesantemente sul personale c’è da supporre fosse veramente necessario e d’altro canto i numeri di troppi anni a questa parte non erano poi eclatanti.

Il display art di District 9

Sarà una deformazione tutta italiana ma l’immagine di 45 persone con gli scatoloni in mano traboccanti dei loro oggetti personali mentre lasciano gli uffici di Los Angeles smuovono la nostra empatia e ci fanno ricordare che i dipendenti, anche se vengono definiti a volte con termini tecnici quali “unità” o “risorse”, sono in fondo persone con tutta l’umanità che ne consegue. Sono fatti della stessa sostanza dei personaggi di cui parlano i film e sono anche i medesimi che i film li vanno a vedere. Non importa quindi che fosse inevitabile o se si tratta solo del trito cliché: “arriva il nuovo capo e si porta dietro il suo staff”, ma almeno la stampa dovrebbe dire le cose come stanno ed annunciare senza pudori che la nuova proprietà araba di Miramax ha licenziato 45 persone. Poi, al prossimo bilancio, vedremo se è stata una buona cosa o solo un atto di becero e sterile ripulisti. Beati i manager dell’industria che possono cambiare chi gli pare, perché nell’esercito invece i generali devono combattere le guerre con i soldati che hanno.

Tempesta nell’oceano Indie

Non è facile navigare nel mare della produzione e distribuzione di contenuti audiovisivi (potevo dire “cinema” ma avrei fatto torto a tanti altri media). Per le società indipendenti poi lo sta diventando ancor di più. Abbiamo appena dato la notizia delle difficoltà di Open Road e di IM Global passate entrambe sotto l’ala della Tang Media Partners, ma anche altri altrettanto blasonati operatori non se la passano meglio.


Broad Green ad esempio ha di recente chiuso la divisione dedicata alle produzioni licenziando una quindicina di dipendenti dopo una sfortunata serie di insuccessi durata per ben tre anni. Aveva esordito nel 2014 avendo alle spalle un miliardario di nome Gabriel Hammond e con progetti ambiziosi che includevano collaborazioni con maestri del calibro di  Terrence Malick per finire poi a rincorrere il botteghino con film di genere piuttosto mediocri come “Wish Upon” di John R. Leonetti (alla sua prima prova come regista e più noto come direttore della fotografia di “The Mask” e “Mortal Kombat”) che per fortuna in Italia probabilmente non arriverà mai.


EuropaCorp di Luc Besson ha accusato il colpo del modesto esordio dell’ultimo colossal di fantascienza Valerian e la città dei mille pianeti” (forse è la maledizione dei titoli troppo lunghi). Weinstein Company ha virato verso la TV riducendo considerevolmente i budget dedicati ai nuovi progetti cinematografici.


Relativity Media invece dopo il fallimento di due ani fa è risorta ridimensionata ed unicamente come casa di distribuzione. Eppure era sul mercato da undici anni, periodo non trascurabile per una casa di produzione indipendente, durante i quali aveva prodotto film di successo come il recente “Masterminds- i geni della truffa” , “L’ultimo dei templari” ma soprattutto il pluripremiato (tra cui due oscar entrambi per il ruolo di attori non protagonisti) “The Fighter” . Il suo fondatore Ryan Kavanaugh aveva dichiarato che un’accurata analisi dei dati consentiva alla società di violare i segreti di come funzionava il box office. Qualcosa si dev’essere guastato in quel formidabile algoritmo se alla fine la società è fallita con un buco da mezzo miliardo di dollari.


Lo scorso mese è toccato invece a Green Light international, i produttori di “Imperium” ed il più modesto “Urge” con un ormai sempre più decotto Pierce Brosnan, di dichiarare bancarotta dopo aver intascato anticipi dai distributori per 410 mila dollari per pagare stipendi ed una poco opportuna vacanza in Riviera dopo lo scorso festival di Cannes. Avevano lanciato la società appena due anni fa, hanno prodotto due film e co-prodotti altrettanti (“Custody” e “Antibirth”), prima di gettare la spugna ed scendere dal ring.


Società che chiudono ce ne sono sempre state nello show-biz ma la novità degli ultimi due anni è che non sono sorti nuovi soggetti del medesimo calibro di quelli che hanno abbandonato il campo. La dinamica a cui assistiamo è quindi una contrazione degli operatori, i quali rimangono schiacciati tra la potenza di fuoco delle major e la maggiore elasticità delle piccole società. Incapaci di competere con le une eppure troppo strutturate per mettersi alla cappa in caso di tempesta come fanno invece le altre.

Questa polarizzazione comporta la ritirata verso produzioni limitate dai generi di film. Un dramma o una commedia, al limite un horror, sono le piste battibili da piccole società, mentre la Sci-Fi, l’action, il colossal storico o fantasy rimangono appannaggio delle major. Un fenomeno che qui da noi è tristemente ben consolidato ormai da tempo. Un primato, almeno in questo settore, che avremmo volentieri mancato.

Open Road un’Avventura Indie

Ogni tanto qualcuno ci prova a sfidare gli studios e già questo da solo fa simpatia. Open Road era stata fondata nel 2011 da AMC Entertainment e Regal Entertainment per cercare di trovare una fonte di approvvigionamento alle proprie sale senza passare sotto le forche caudine delle major che, come è intuibile, hanno le proprie priorità spesso collidenti con le necessità degli esercenti e dei produttori indipendenti.

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La partenza era stata scoppiettante e sono seguiti anni di crescita costante almeno sino al 2015 ( $137 mil nel 2012 ; $150 mil nel 2013; $162 mil. nel 2014; $89 mil nel 2015 e $88M and 2016), anno della svolta che ha condotto sino al secondo trimestre di quest’anno in cui la società ha annunciato un a perdita di ben 179 mil di dollari, quando nello stesso periodo dell’anno precedente aveva registrato un utile di $24 milioni.

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Titoli fortunati non sono mancati come “The Grey” (questo magari è più furbo che bello), “Silent Hill” e “The Host“, ma la distribuzione è una gara di fondo che si misura nel tempo e ci vuole, come è risaputo, costanza di prodotto. Inoltre le major hanno i loro piani ed un’uscita concomitante ad un blockbuster vanifica in un week end l’intero budget di lancio di un film indipendente.

Tom Ortenberg e Michael Keaton all'anteprima di Spotlight
Tom Ortenberg e Michael Keaton all’anteprima di Spotlight

Eppure il CEO Tom Ortenberg aveva né più né meno attuato la strategia che aveva fatto crescere Lion Gate, da cui proveniva, sino ai livelli attuali. La ricetta era quella di acquisire (anzi preferibilmente pre-acquisire quando i costi sono molto convenienti) e produrre un mix di generi in cui l’action dedicato ad un giovane pubblico maschile aveva la quota maggiore, seguito da qualche horror come “The Hounted House” e solo occasionalmente pochi dramma di qualità come “Snowden” e “Spotlight“, quest’ultimo vincitore dell’oscar come miglior film e miglior sceneggiatura.

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I numeri degli ultimi anni hanno fatto recedere AMC dalla partnership e l’ammontare dei debiti di Open Road impedisce la prosecuzione dell’attività e così si fa avanti la Tang Media Partners, azienda di proprietà di Donald Tang, un personaggio il cui cognome tradisce un origine cinese tanto quanto il suo nome di battesimo richiama una certa sgradevolezza procedurale. Sì perché Tang è quello che si è comprato IM Global lo scorso giugno per 200 milioni di dollari e a preso a calci in culo il suo fondatore e CEO Stuart Ford.

Donald Tang, una carriera maturata ai vertici della Bear Stearns & Co
Donald Tang, una carriera maturata ai vertici della Bear Stearns & Co

Una miglior sorte è toccato per ora a Ortenberg che continuerà ad essere a capo della Open Road che è stata acquistata da Tang all’esorbitante prezzo di un dollaro, ma con l’impegno di evitarne il tracollo accollandosene i debiti.

Stuart Ford fondatore ed ex CEO di IM Global
Stuart Ford fondatore ed ex CEO di IM Global

A ben pensarci tutto ciò non è poi una gran notizia, ma serve a confermare come il cinema sia il modo più rapido ed infallibile per perdere un’immensa fortuna incontrando nel contempo degli autentici squali dall’appetito più grande del loro portafoglio. Inevitabile l’accostamento analogo con esperienze italiane più o meno lontante come il CIDIF o la Distributori Associati , ma l’idea che la produzione incontri direttamente gli esercenti rimane affascinante e merita che un giorno possa trovare una prassi vincente. In fin dei conti ogni esercente non solo conosce il cinema , ma conosce il pubblico molto da vicino. Forse in futuro si assisterà anche in Italia ad un soggetto in cui confluiranno le professionalità migliori provenienti da esercizio, porduzione e distribuzione. Sì perché, anche a costo di usurarlo, vale ricordare l’antico adagio “Ofelé fa el to mesté”.

La legge di riforma del settore audiovisivo e la cenerentola dell’audiovisivo

E’ ormai imminente l’emanazione del decreto attuativo della legge 14 novembre 2016 n. 220 “disciplina del cinema e dell’audiovisivo”. Non solo riguarda i tanto attesi contributi automatici a sostegno della produzione nazionale di audiovisivi, ma contiene anche finalmente un corpus di definizioni finalmente specifiche che connoteranno i contratti che regolano i rapporti tra gli operatori del settore. Si tratta non tanto di una rivoluzione bensì di un’evoluzione comunque epocale. Nasce ad esempio il concetto di “opera web“, è definita la nozione di “videogioco” che assurge infine con piena dignità ad opera audiovisiva. Nel novero delle imprese cinematografiche o audiovisive sono ora ricomprese non solo i distributori di tutti i canali (cinema, internazionale e dei supporti audiovisivi), gli editori dell’audiovisivo (definiti senza imbarazzi xenofobi con il termine inglese home entertainment), ma anche i laboratori di postproduzione ed ovviamente gli esercenti delle sale cinematografiche (sembra incredibile ma prima non lo erano, come se vendessero bucce di mela anziché proiettare film). Addirittura sono normate le nozioni dei processi quali la produzione, sviluppo, realizzazione, distribuzione, insomma un vero conforto per manager e loro legulei.

mibact

Complimenti sinceri sono dovuti al Ministero ed al Consiglio Superiore del cinema e dell’audiovisivo, il nuovo organo introdotto dalla legge n.220 composto da tecnici che sono in grado di consigliare il Ministero in un’industria della cinematografia che evolve secondo linee niente affatto note e secondo modelli articolati e sempre inediti.

univideo

Meno chiaro è il ruolo svolto da quella che è sempre stata immeritatamente la cenerentola delle associazioni di categoria del settore, ovvero l’Univideo. Nonostante i non trascurabili volumi di giro d’affari che dagli anni 90 e sino alla fine degli anni 2000 ha rappresentato è sempre stato un organismo dominato dalle major americane contente di trarre per se ogni possibile beneficio (ad esempio il bollino SIAE generico per non dover stare ad impazzire nei loro stabilimenti di duplicazione per lo più collocati all’estero) e piuttosto insensibili ai bisogni del sistema Italia ed in particolare delle piccole imprese nazionali che vi operano. Il sistema di rappresentanza e voto è notoriamente ancorato a livelli di ricavi che generano un’ abnorme sperequazione tra le major ed il resto del mondo, come se i problemi e i bisogni fossero proporzionali al fatturato, invece essi impattano su grandi e piccoli in maniera inversamente proporzionale.

Davide Rossi
Davide Rossi

Un epifenomeno del contrarsi del giro d’affari complessivo e del conseguente abbandono dell’italia da parte delle case americane è stato un cambio nella governance che ha visto finalmente affermarsi delle volenterose presidenze italiane con Davide Rossi e Roberto Guerrazzi. Oggi al vertice c’è un valente e giovane manager, Lorenzo Ferrari Ardicini, espressione di una casa dalla lunga tradizione e che eredita il marchio storico di Cecchi Gori.

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Lorenzo Ferrari Ardicini

Se vi è un appunto da muovere è relativo alla comunicazione ed al coinvolgimento. Sì perché se qualcosa è stato fatto per far valere le ragioni del comparto presso gli estensori della legge 220 non si sa bene però che cosa in particolare. Né si è assistito ad un tentativo di coinvolgere quel 5% che ostinatamente si mantiene fuori dalla associazione ed al quale varrebbe la pena rivolgere la domanda circa il perché di questa persistente titubanza. Bene il commissionare uno studio sull’ Home Entertainment a GFK ed organizzare eventi interessanti come il PRESS PLAY – TRADE MEETING 2017 (sempre a cura di GFK), ma intanto l’Italia è ancora e sempre condannata al bollino SIAE fisico da applicare su ogni supporto, per citare solo una delle molte vessazioni ancora agenti. Insomma i nodi cruciali rimangono lì e neppure sorgono nuove iniziative come corsi di formazione o aggiornamento dedicati ai dipendenti delle aziende del settore, piuttosto che servizi (anche a pagamento al limite) che aiutino le aziende più piccole con le istruttorie per finanziamenti italiani ed europei, giusto per tirare fuori qualche idea propositiva. Al limite aggiornare il logo che con il suo mondo stilizzato a ricordare uno schermo in 4:3 con le sue brave righe interlacciate rimane a vestigia di un media ormai vetusto e praticamente scomparso nel mondo dei mega schermi a 16:9 e 5K.

immagine della campagna Univideo contro la pirateria
immagine della campagna Univideo contro la pirateria

E’ vero che il budget è sempre più stringato, ma un’associazione che non ha mutato i propri criteri di adesione e di rappresentanza e non si produce in iniziative e servizi utili per i propri associati e destinata a spegnersi a poco a poco. Era lecito pensare che un giovane (ma nel frattempo non più giovanissimo) presidente desse una svolta significativa ad Univideo e invece tutto continua più o meno come prima nella quiete delle mura degli uffici di C.so Buenos Aires a Milano, come fosse il palazzo delle Blacherne a Bisanzio nel maggio del 1453.