Sognare Pasolini

Non basta averlo sognato. No: deve parlare bene, possibilmente come il Pasolini che fu. Parlerà un po’ da maestro e un po’ da spirito guida: dolcemente ma senza confidenza; non da amico – la frase di tutta la vita è sempre «io sono solo» – ma con l’aria dell’angelo. Sarà un angelo in senso puro, come chi annuncia e va via. Che cosa annuncia? Niente di troppo pubblico. Non dice più «io so i nomi», ammesso che li abbia mai saputi. Oggi annuncia altro: qualcosa di sé e di chi sogna.

Nella Terra vista dalla Luna l’ha scritto e filmato: «Essere morti o essere vivi è la stessa cosa». Poi c’è un giudizio su Sanguineti, in Empirismo eretico, anno 1972: «Insisto a fare il nome di Sanguineti perché è l’unico che sa in cuor suo (e lo sa perché tanto, lui potrà continuare) che l’avventura sta per finire». Morale: c’è chi finisce e c’è chi continua; chi continua è sano ed è anche furbo: sa di poter continuare e lo sa in cuor suo, e tace e aspetta. E anche la Madonna ha conservato i pensieri in cuor suo (Lc., 2, 19).

Sanguineti era un ateo di ferro e conservava in cuor suo la notizia della sopravvivenza: in cuor suo, proprio come la Madonna. E anche Pier Paolo, in cuor suo, si è sentito l’unico nome continuo, come Dante. Sarà stato sicuro di sopravvivere, non solo con le opere? Sì: con l’io postumo, se non con il corpo. Così l’avventura di chi sa qualcosa in cuor suo non finisce. Chi sa di poter continuare continuerà; non gli altri, e peggio per loro. E adesso i segni – i sogni – e i nomi.

DACIA MARAINI: «Di notte sogno spesso Pier Paolo che cammina sopra la mia stanza con i suoi stivaletti messicani; io mi alzo, salgo sulla terrazza condominiale e mi appare lui che mi dice: Questa morte mi è costata dieci chili. Pier Paolo era così, era soave». (www.dagospia.com, 8 novembre 2005). Ancora DACIA: «Sono salita sul terrazzo e ho visto Pier Paolo, in blue jeans, magrissimo, muscoloso perché giocava a calcio, con l’anello con lo scarabeo preso in Egitto. C’erano alcuni suoi collaboratori cinematografici. Che fai?, gli ho chiesto. Vorrei riprendere il lavoro, mi ha risposto. I collaboratori volevano che gli dicessi che era morto, ma io lo vedevo vivo anche se sapevo che era morto. Pasolini allora mi ha detto che sapeva di essere morto, ma che adesso stava bene. Un sogno di vita» («Gazzetta di Mantova», 9 settembre 2013).

NINETTO DAVOLI parla da anni di questi sogni. Nel 1998: «Al primo ne sono seguiti mille altri. Ogni settimana, almeno tre o quattro volte, io lo vedo e parlo con lui. Non mi si fraintenda, non mi si dia del visionario. Io ho veramente un contatto con Pier Paolo e ormai non posso più dire che si tratta di sogni, almeno secondo il significato che ai sogni siamo soliti attribuire» (Piero Poggio, Parliamo con l’aldilà. Ritrovarsi nella luce, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 173).

«Lo sogno spesso. Nella maggior parte dei casi lo vedo durante la realizzazione di un nuovo film o di un prossimo viaggio. Ogni volta che mi offrono un nuovo ruolo, gli chiedo col pensiero, prima di decidere: Pier Paolo, cosa ne pensi? È buono? Quando ho un qualsiasi dubbio cerco i suoi consigli... (www.pasolinipuntonet.blogspot.it, 17 agosto 2012).ENINETTO, di nuovo, sul«Fatto quotidiano», 11 gennaio 2013:«Pierpa’ me lo ripete sempre: “Nine’, de fa’ quello che te viene facile è capace qualsiasi stronzo, tu devi fa’ il contrario, devi sperimenta’». Nel 2016, NINETTO parla ancora di sogni: «Vive in me, con me. Lo interpello nei sogni, nei pensieri. Ci ho persino litigato: “A Pa’, ma nun eri morto?” e lui “Ma che stai a dì, Nine’?» 

(http://firenze.repubblica.it/cronaca/2016/02/18/news/ninetto_davoli_porta_in_scena_pasolini_io_e_pier_paolo_il_nostro_mondo_vive_in_me_-133666853/).

Poi Paola Gargaloni, cioè PAOLA PITAGORA, in due tweets di Twitter (4 novembre 2015): «Tanti anni fa ho sognato Pasolini – molti lo hanno sognato – I MIEI NEMICI MI CONSACRANO – mi diceva triste» e «Non lo conoscevo personalmente, è venuto in sogno tre volte, in primo piano. Poi lessi che era successo a Dacia Maraini e a qualcun altro».

Poi GIANCARLO MARINELLI: «Faccio un sogno. Pasolini vestito da Cristo in mezzo ai binari, che ad ogni treno che giunge alza il braccio destro e fa esplodere i primi cinque vagoni. Questo con il primo treno, poi con un secondo, con un terzo, e via di seguito» (Amori in stazione, Guanda, Parma 1995, p. 16). Dopo la strage, questo Pasolini sale su un treno a forma di arca, tra gli animali, in mezzo a trombe e tromboni: è un «bel sogno senza senso», ma non è vero. Il senso c’è, ed è un misto di lamentazione (treno, thrénos, canto funebre), di onnipotenza e di allegria, alla fine. Come nel sogno di Salvatore Maresca Serra, su Facebook (1° febbraio 2012): «Sognai ragni corpulenti che lottavano con serpenti, cianfrusaglie d’ogni tipo che avanzavano come eserciti inesorabili, cani rabbiosi che m’inseguivano abbaiando a più non posso, sognai mio padre che stava su un’altalena gigantesca che spariva tra le nubi, sognai Pasolini che mangiava le sue pellicole e poi le sputava in faccia ai miei compagni di terza media».

Poi GIUSEPPE D’AMBROSIO ANGELILLO: «Dormivo là, nella mia soffitta di Lambrate e sognavo. Lui venne e mi portò una lettera. Io la lessi ma non mi ricordo niente di quel che diceva» (Partita a calcio con Pasolini. Racconto, Acquaviva, Acquaviva delle fonti 2011, p. 23)

Anche PINO PELOSI ha sentito Pasolini dopo il 1975. Ovviamente Pelosi si prende con le pinze, da sempre. Simula bene e assimila meglio, perché – davvero – è il più pasoliniano di tutti: il vero erede di Pasolini e Pino, volente o nolente (e volenti o nolenti noi, gli altri). È ambiguo come il maestro e sa sperimenta’ con le parole. Ha imparato in carcere o è un poeta nato? O Pier Paolo – da vivo e da morto – l’ha rieducato come il Gennariello delle Lettere luterane? È successo tutto questo, insieme. Ecco la visione di PINO: «Sento delle voci che urlano Pelosi, Pelosi!… Sono convinto che sia Pasolini. Ma che vuole da me? Ormai sono quasi distrutto, mi ha distrutto…» (Io, Angelo Nero, Sinnos, Roma 1995, p. 106). DACIA commenta a p. 12 del libro, perché ha capito la situazione: «Dobbiamo ringraziare il fantasma di Pasolini che ha avuto la buona idea di andare a trovarlo in carcere… Infine gli ha fatto capire che uccidere è come sposarsi: non ci si libera più di chi si è cacciato dalla vita, diventa una parte di sé». Tanto che Pino scrive poesie, e ne pubblica due a p. 132 del libro.

Pino è obbligato all’ambiguità, ma Ninetto deve essere chiaro. Non è ambiguo, e nemmeno un esegeta dell’ambiguità: è un dolcissimo animale umano, e per questo è puro. Parla con la costanza di chi non è poeta – quindi ha un solo stile –, ed è l’unica forma possibile, per lui. Dice: Pier Paolo me lo ripete sempre. Sempre è sempre: anche oggi, ogni giorno, non c’è un minuto senza Pier Paolo. E poi si torna al Ciappelletto del Decameròn, libro e film: santi non si nasce, ma si diventa. Non solo: ci si può anche ricostruire santamente, per forza di teatro e di parole. E la pratica funziona, perché – questo vale per Pasolini – l’importante è l’effetto e anche un falso santo può fare miracoli. Se Pasolini torna, torna per dire che lavora sempre – quindi non è morto – e per insegnare, o per dire che ha una certa potenza simbolica.

C’è una disperata passione didattica, che non si nega mai allievi, più o meno informali. E forse c’è una fede, la più fantastica delle fedi: lavorare – a dismisura, all’infinito, senza l’ossessione del guadagno – è più interessante della vita e della morte, che sono uguali. Si agirà più sottilmente, anche nei sogni degli altri, fedeli al santo. I fedeli stanno già «in cuor suo», nel cuore di chi annuncia. Il fatto è bello, molto. E l’avventura di Ciappelletto non sta per finire, come per gli altri: «Vorrei riprendere il lavoro» e si fa «un nuovo film», è chiaro?

Massimo Sannelli

THE HOUSE THAT JACK BUILT

Jack può fare tutto: trascinare un cadavere sulla strada e avere un temporale che cancella ogni traccia; uccidere due bambini davanti alla madre; farsi un portafogli con una mammella; trasportare decine di cadaveri in piena città e non essere visto.

Si vede che Jack è come un regista: indiscutibile e magistrale, padrone o master del suo campo. Solo una cosa gli è negata da Von Trier, che è il regista del regista: uccidere sei persone con un solo proiettile. Prima perché il proiettile non è un full metal jacket, e bisogna cambiarlo (questo implica una perdita di tempo); poi perché il mirino del fucile non mette a fuoco il bersaglio, che è troppo vicino (questo implica non sparare più).

A questo punto si apre la seconda porta e appare Verge, cioè Bruno Ganz. Ganz è stato l’angelo umanizzato del Cielo sopra Berlino e ora è Virgilio, con gli abiti ottocenteschi di una specie di Dr Watson. Jack – che ha già indossato una cappa vermiglia per l’ultima strage – diventa un perfetto Dante. A questo punto inizia la catabasi, ma è un altro discorso. Jack può fare quello che vuole, in modo simbolico e paradossale – cioè impunemente –, come Christian Bale in American Psycho.

Ma perché il regista – regista del regista, architetto dell’architetto – gli nega l’ultima strage? Guardiamo meglio. In realtà c’è un’altra cosa che sfugge a Jack. È proprio the House. The House viene costruita e demolita più volte, all’aperto, nella forma di una casa classica. The House sarà costruita solo alla fine, con i cadaveri congelati, e non all’aperto. Sarà paurosa e non classica; e sarà paurosamente simile ad un igloo di Mario Merz (e uno dei grandi igloo di Merz ha come insegna un cadavere: un cervo). Di fatto è un’installazione museale. Un’opera di Merz (per la forma) e di Spoerri (per la materia organica). Ed è facile pensare che sia volutamente un’opera museale, che sta al chiuso, in una cella frigorifera (prima destinata alle pizze: parodia e secondo nome delle grandi bobine di pellicola). In pratica: la grande cultura è roba da frigorifero, preparata maniacalmente e destinata a rimanere al chiuso.

All’esterno di questo Museo Ghiacciato, Jack è un fallito, ed è un fallito proprio nella sua missione artistica. Quindi: Jack fallisce come architetto all’aperto e vince come architetto al chiuso; vince come massacratore di una persona alla volta (all’aperto), ma perde come stragista (al chiuso). Quando perde come stragista (al chiuso), vince come architetto (sempre al chiuso), e quando perde come stragista e vince come architetto, allora si manifesta Verge (che c’è sempre stato, con il suo stile da Watson, in secondo piano; ma non si è mai fatto vedere, né all’aperto né al chiuso: non era il suo tempo). Quando si manifesta Verge, Jack diventa Dante. Quando tutti e due si manifestano – uno come duca e uno come poeta – il film rallenta. Rallenta, letteralmente: nelle immagini e nel suono, fino all’abominio di Hit the Road, Jack rallentata nei titoli di coda. Il rallentamento implica che siamo nel campo dei Novissimi.

Torno alla domanda fondamentale: perché Jack può tutto ma non può uccidere sei persone al chiuso, con un colpo solo? Vediamo: sei individui sono stati catturati singolarmente, e sono le prime prede vive di Jack. In altre parole: Jack sbaglia a portare la vita dentro il suo museo, per ucciderla; la vita deve essere uccisa fuori e portata, morta, al chiuso; la vita deve essere uccisa con una certa improvvisazione, e non con troppa programmazione; anche the House all’aperto viene costruita con un eccesso di programmazione, e non può essere mai finita.

Al chiuso – tra le pizze, nel gelo, senza Sole, e quindi in una specie di casa del Vampiro – the House è fattibile, ma – attenzione – può essere fatta solo con materia morta. Nessun vivo può essere ucciso in questo luogo chiuso. Nemmeno lo stesso Jack può morire nel Museo Ghiacciato, e – a quanto pare – Jack scende all’inferno da vivo. Adesso ci siamo. Jack è il solito genio, uno di noi professionisti. E sbaglia quando vuole essere contemporaneamente vivo e creativo, improvvisatore e programmatore. Sbaglia quando vuole agire da artista nel mondo (all’aperto), e sbaglia quando vuole agire da umano nel museo (al chiuso).

È uno schema molto semplice, un po’ come l’amico di Tonio Kröger che si chiude in un locale quando arriva la primavera inesorabile. All’esterno del Museo, il vampiro può solo cercare prede, ma non può innalzare una casa tradizionale. Nel Museo, si può costruire l’igloo di Merz, ma non è the House tradizionale. Ammetteremo, da creativi, di essere un po’ mostruosi? Ma certo. Se lo fa Von Trier possiamo farlo anche noi. Che poi ci si senta in colpa, isolati e isolabili, contemporaneamente vincenti e perdenti – e che tutto questo non piaccia – è un altro discorso. In fondo, a noi vampiri, ci piace un po’ di autocritica, stimolata da gente che vediamo al nostro Livello: Virgilio, per esempio, con il viso di un grandissimo Ganz. Niente di meno? Niente di meno.

Massimo Sannelli