IL MIO ULTIMO INTERVENTO

Dopo aver partecipato alle Giornate Professionali di Sorrento, la manifestazione più importante del settore, sicuramente più di qualunque festival, sento di dover interrompere la mia lunga vibrante critica alla legge, alle strutture e alla logica di Franceschini per lasciare che il nuovo governo, ben conscio degli errori commessi, svolga il suo ruolo di rinnovamento delle norme primarie e consenta al settore di ritrovare arte, libertà e onestà.
Ho parlato con la senatrice Borgonzoni e con il direttore Borrelli, che è persona esperta e capace, soprattutto se gli viene consentito di esprimersi.
Entrambi hanno recepito la profonda malattia delle strutture, e nonostante lo sdilinquimento e l’ipocrisia dei partecipanti al convegno sul ruolo centrale della sala, alcuni dei quali responsabili della crisi, hanno fatto comprendere agli esercenti che al di là dei contributi statali, qualcosa verrà fatto per riportare in equilibrio i meccanismi.
Nel concludere questo mio lungo periodo di contrasto a Franceschini, Nastasi, e a tutti coloro che hanno approfittato delle logiche verticistiche della sinistra, desidero riassumere sinteticamente gli interventi necessari per far uscire il cinema nazionale dal baratro secondo il mio giudizio.
TAX CREDIT: deve essere diminuito al 20%, abolito per le produzioni televisive, riservato ai film che abbiano una distribuzione vera in almeno 20 copie per una settimana intera durante tutto il giorno.
CONTRIBUTI SELETTIVI: le commissioni devono quantomeno essere composte dai rappresentanti delle categorie (attori/distributori/esercenti…) eliminando i “professionisti” dei contributi statali.
CONTRIBUTI AUTOMATICI: devono essere aggiornati e resi trasparenti. Ora sono una specie di concessione occulta e misteriosa.
LUCE/CINECITTA’: la struttura burocratica deve essere modernizzata e resa funzionante con persone adeguate che non torturino i produttori con richieste assurde.
CINECITTA’: deve essere riformato il Consiglio di Amministrazione con persone competenti togliendo questo disturbo a Bettini. Anche Maccanico va collocato in altra struttura di rappresentanza.
RAI CINEMA: il ruolo dell’azienda statale deve essere riportato a quello istituzionale di emittente e non di centrale produttiva. I dirigenti devono alternarsi per non creare sacche di convenzionalità e di favoritismi. Rai deve aiutare non determinare.
FICTION: anche la fiction, privata del tax credit, deve tornare ad essere un servizio per il pubblico e non un centro smisurato di potere.
MIC: la direzione cinema non può essere affidata ad altra persona che non sia Nicola Borrelli, in questo momento di rivisitazione delle metodiche. Meglio ancora se la signora Troccoli potrà collaborare, con il garbo e la sensibilità che ha sempre dimostrato aiutando gli indipendenti.
ANICA: Rutelli ha distrutto la struttura che è ormai attaccata da chiunque. Se ne allontanano anche alcuni produttori importanti mentre i piccoli l’hanno già fatto. Rutelli, se vuole, può intanto affittare le stanze e cercare un’altra collocazione.
APA: Leone non manca di amicizie influenti, ma i privilegi per l’associazione dovrebbero essere cancellati unitamente al suo stipendio.
CENTOAUTORI: l’associazione creata per sostituire ANAC è stata utilizzata da Franceschini in tutte le strutture ed è servita per zittire gli autori. In realtà non ha svolto alcuna funzione.
CONSIGLIO SUPERIORE: sovrastato da APA e ANICA con la connivenza di Centoautori, non ha svolto il proprio compito se non quello di favorire Franceschini.
AZIENDE STRANIERE: dovrebbero essere inibiti i contributi statali ad aziende italiane con soci esteri e favorite esclusivamente le nazioni che usano criteri di reciprocità.
PERCENTUALI DI DISTRIBUZIONE: le società straniere che distribuiscono i film delle loro major in Italia con una percentuale inferiore al 18% devono essere sanzionate, in quanto inviano tutti i ricavi all’estero.
FINESTRE: il tempo per la diffusione di un film cinematografico in televisione non può essere inferiore a 9 mesi e non limitato a 90 giorni.
PIATTAFORME: le aziende ormai padrone del territorio Sky, Netflix, Amazon devono poter essere raggiunte da tutti gli operatori del territorio, stabilire procedure standard per tutti ed agevolare il settore, e non soltanto società colluse e privilegiate.
BUDGET: i costi dei film devono essere riportati alla realtà.
PRODUTTORI INDIPENDENTI: è fondamentale che la definizione di produttore indipendente sia modificata in modo tale da riguardare i veri produttori indipendenti e non quelli che lavorano al 90% per una stessa ditta. I contributi devono essere concessi esclusivamente alle società che abbiano nel loro fatturato una percentuale di lavoro indipendente dalla stessa ditta di almeno il 40%.
PRODUTTORI: devono ricominciare a valutare l’interesse del pubblico e non solo il tax credit ed a valorizzare la professionalità.
DISTRIBUTORI: devono ricominciare a distribuire, come professione specifica, smettendo di correre dietro al tax credit. Il settore è in piena confusione e si sono moltiplicate le distribuzioni occulte “in service” che portano male al film.
ESERCENTI: devono rendere le sale attraenti e diverse, e non attendere solo i film di successo. In Francia l’esercente non è passivo ma imprenditore.

In generale

Il cinema non è la televisione, è uno spettacolo specifico che crea emozioni e cultura se è capace di farlo con prodotti di buon livello. Il cinema è capacità di esprimersi se regna la libertà e non è oppressa dalla burocrazia e dai potentati.

Avv. Michele Lo Foco

La condivisione della colpa

Leggere che Carlo Verdone e persino Gianpaolo Letta, dopo un silenzio durato anni, si siano decisi ad avallare le mie considerazioni sulla legge Franceschini e sulla crisi del settore, mi riempie di soddisfazione e nello stesso tempo mi crea un istintivo pessimismo sulla lealtà delle persone e sulla prevalenza dell’opportunismo.
Letta ha sempre partecipato, ovviamente come protagonista, agli sviluppi del settore, potendo scegliere la politica di una azienda che non ha bisogno di nulla, in quanto ha alle spalle un gigante televisivo che può digerire nel suo corpaccione qualunque prodotto, bello brutto o pessimo.
Non voglio ripetere quello che ho già ampiamente descritto, ma torno a sottolineare che il settore dell’audiovisivo è stato sempre prerogativa di uomini politici potenti, che hanno valutato per i loro eredi i vantaggi di un ambito molto elastico, che non necessita di specializzazioni, che consente errori e che dà comunque autorevolezza. Non è un caso che si ritrovino tutti tra televisione e cinema, ma non da indipendenti, bensì da dipendenti, da capi, capistruttura, amministratori delegati, presidenti o cariche similari.
Per carità, nulla di sorprendente, ma anche questa è una delle caratteristiche che rende il settore spettacolo, in Italia, incapace di quegli adattamenti e di quella sensibilità necessari per anticipare e controllare i gusti del pubblico e per ottenere in sostanza i dovuti ricavi.
Se i fortunati personaggi sono comodi nelle loro poltrone, non c’è alcun motivo per loro di creare inutili agitazioni, e seguire la corrente e le indicazioni del ministro è certamente la strada più semplice.
Persino Rutelli ha capito che il settore era quanto di più accogliente potesse servire per un atterraggio morbido nella vecchiaia, e infatti l’Anica ha perso qualunque valenza rappresentativa vera, rimanendo una associazione utile per le formalità.
Ma se anche Letta si associa a Verdone nella critica più tardiva, vuol dire quantomeno che qualcosa è successo, che il disastro creato da Franceschini è finalmente visibile, che prima che il settore collassi è opportuno salvare la poltrona.
Verdone dice che i film si scrivono in sette giorni, e non è difficile sostenerlo se è vero che nei bandi, peraltro folli, destinati alle sceneggiature, ne arrivano quattro/cinquecento, che dovrebbero essere lette dalle apposite commissioni. La scrittura non conta, contano solo il tax credit e l’intervento statale.
Letta dice che abbiamo svenduto l’Italia agli stranieri: ma lo sa che gli stranieri comprano le società italiane che hanno rapporti intimi e collusori con le emittenti televisive? Vogliamo fare una scommessa? Se Rai e Mediaset smettessero di sovvenzionare queste società, quanti stranieri resterebbero in Italia? E vogliamo esaminare quante società italiane hanno ruoli determinanti all’estero? Quali sono gli Stati che concedono il 40% di tax credit ad una società posseduta da soci esteri italiani?
Solo noi abbiamo la capacità di dare in locazione quasi il 50% degli studi di Cinecittà ad una azienda straniera, che poi affitta gli spazi agli italiani!
C’è un eccesso di ipocrisia, di opportunismo e di impunità in quello che succede da noi: Letta chiede ancora soldi al ministro, Tozzi, uno degli ex dirigenti Mediaset, ex presidente di Cinecittà, che ha venduto parti della sua società a chiunque fosse straniero incassando ogni volta cifre sostanziose, dice che va bene così, che il prodotto deve essere “glocal”, internazionale, adatto alle logiche sopranazionali, e soprattutto agli algoritmi che Netflix e Amazon stanno dettando al mondo.
Non è così, Tozzi difende le sue strategie, ma Netflix, la superpotenza senza telefono, la società occulta, non è diversa da Technicolor o Kodak, che ai tempi sembravano colossi e sono scappate dall’Italia come ladruncoli: anche Netflix ha bisogno di prodotto interessante, attraente, e l’algoritmo non è capace di andare oltre la convenzione.
Noi, quando esistevamo, abbiamo avuto Fellini, che nella sua immensa libertà faceva fallire tutti i produttori, abbiamo avuto Giovanni Bertolucci e Leo Pescarolo incapaci di calcoli economici ma straordinari artisti, Adriano De Micheli che con i suoi “Profumo di donna”, “C’eravamo tanto amati”, ma anche con “Sapore di mare” non sbagliava un film, abbiamo avuto Cristaldi, Ponti, De Laurentis, ma anche Alabiso, Zingarelli, Martino e tanti altri che potevano essere definiti produttori indipendenti e lo erano realmente.
Bisogna sottrarre la settima arte ai burocrati, ai raccomandati e agli algoritmi, e soprattutto bisogna smettere di pensare che cinema e televisione siano fruizione dello stesso prodotto, perché non è vero.
Il cinema moltiplica il lavoro dei neuroni/specchio tramite il buio e l’immobilità, e permette una maggiore condivisione delle emozioni, ovviamente se ci sono. La televisione distrae, mortifica, tiene compagnia.
Il film pensato, scritto, diretto e interpretato con grande professionalità trova nella sala, nel buio, la sua migliore espressione e in televisione la peggiore: un film modesto può andare ovunque, ma al cinema, in sala, al buio, trova la sua peggiore utilizzazione.
Se poi, per concludere, vogliamo parlare proprio delle sale, bene è utile sapere che a Parigi ci sono circa 95 sale autonome, che sopravvivono tranquillamente alcune con le seconde visioni, alcune con i classici, alcune con i cibi e le bevande.
Anche l’esercizio deve trovare una sua indipendenza e professionalità, deve poter attrarre: troppo facile guadagnare solo con i film campioni d’incasso, che pur ci sono e ci saranno.
Ma basta con i contributi a pioggia, che sono veleno a lento rilascio, penalizzano le azioni e alla lunga uccidono.
Se una sala, per ubicazione, nuova urbanistica, dimensioni non funziona più va trasformata in qualcosa di utile per il quartiere.

È bene riconnettere la parola cinema al concetto di cultura, ma non quella paludata, severa, che incute soggezione: è cultura conoscere personaggi, situazioni e ambienti, lo è ripassare la storia e le emozioni, lo è anche assorbire la bellezza che non si trova facilmente. Cultura è vivere serenamente un intrattenimento di buon livello che valga il prezzo di un biglietto.

Avv. Michele Lo Foco

I RISULTATI DEL FESTIVAL

Per smentire le parole del ministro Franceschini sul festival di Venezia, da Lui descritto come testimonianza dell’ottimo livello del cinema italiano, bastano i risultati dei primi giorni al botteghino: un disastro.

I film italiani vengono talmente trascurati che la riedizione di un vecchio colossal “Avatar” è il prodotto più visto, mentre il “Signore delle formiche” arriva stentatamente ad un milione di Euro, Crialese sfiora la metà ed addirittura “Siccità”, titolo orrendo, esordisce con 70mila euro.

Pertanto, pur pompati dalla stampa di sinistra e dalla televisione di sinistra, pur lanciati da Venezia, i nostri film cui lo Stato regala decine di milioni di Euro, non riescono a trovare la strada del pubblico, che forse si accontenta, a ragione, di vedere Elodie seminuda che è almeno una novità assoluta.

Il nostro cinema è malato, ha il lungo Covid, ed è sorprendente, quasi incredibile, che nessuno cerchi di comprendere come mai la legge Franceschini sia stata così velenosa e come sia ancora possibile buttare soldi su soldi in prodotti invisibili ed intimisti.

Eppure è chiaro che le Commissioni ministeriali sono eterodirette, se non totalmente condizionate, e che le scelte editoriali dei burocrati messi a capo delle strutture non fanno altro che riflettere la loro angustia mentale ed il loro desiderio di favorire i potentati del settore.

Gli indipendenti, quelli veri che studiano i progetti, che fanno riscrivere dieci volte le sceneggiature, che non mettono a recitare le loro amanti, che capiscono gli interessi dei giovani o del pubblico maturo, ormai sono pochi, e qui pochi danno fastidio. Una volta, se un film non aveva il successo sperato, tutti i partecipanti ne risentivano, andavano a piangere in un angolo.

Oggi, no, va tutto bene, nessuno protesta per il disastro di un film, anzi è colpa del pubblico se una storia non viene apprezzata.

Attori che collezionano flop uno dietro l’altro, se fanno parte del cerchio magico di qualche struttura continuano a lavorare e ad incassare, tanto chi paga è lo Stato, sempre e solo lo Stato.

Avv. Michele Lo Foco

Venezia e il cinema

Pensare, scrivere, pronosticare che il festival di Venezia sia una testimonianza del grado di sviluppo della cinematografia è non solo sbagliato, ma anche segno di una grande ipocrisia.

Tutti gli operatori sanno che i festival non sono sinonimo di incasso, e che addirittura le kermesse d’arte sono nemiche del pubblico, al punto tale che in molti casi la notizia della partecipazione viene nascosta.

Quando il settore home-video era in pieno fermento, la scritta “in concorso a Venezia”, veniva considerata un freno alle vendite.

Diverso è “l’evento”, cioè la partecipazione non è in concorso, valida come anteprima: in questo caso l’evento fa parte dei meccanismi distributivi per gonfiare il valore del prodotto.

Detto in termini semplici la partecipazione al festival sa di prodotto noioso, pretenzioso, certamente lento, e i minuti di applausi che tanto piacciono agli pseudogiornalisti cinematografici non costituiscono un voto probante al film, ma solo il riconoscimento che quel film è adatto ad un festival e soddisfa le persone che amano i festival e che sono una porzione di quel pubblico di nicchia che in questo periodo ha abbandonato la sala.

Infatti a Venezia non troveremo mai Mission Impossible o Bond o Batman, perché l’arte è altro spettacolo, l’arte è intimista, sofferta, l’arte è gay e confessione, è subconscio e pulsione.

Non a caso a Cannes quello che conta, oltre alla mondanità, è il mercato, che seppure ridimensionato da internet e dai rapporti di vertice, in parte anche dalla corruzione, resta una grande occasione commerciale, separata dal concorso, cui pure offre la mano, e una spettacolare vetrina di prodotto.

Venezia non ha mercato, e grazie ad una delle peggiori iniziative del ministro Urbani e al tradimento di Davide Croff, il nostro MIFED, la mostra mercato di Milano famosa al mondo, è stata cancellata per dare spazio al festival di Roma e ad un mercatino delle pulci denominato MIA.

Il festival di Venezia rimane però l’occasione, soprattutto per i burocrati che non pagano di tasca loro, ma non solo, per omaggiare una città straordinaria, piena di meraviglie urbanistiche e di capolavori, e pertanto non è Venezia ad ospitare il festival ma il festival ad accarezzare quel posto magico e carissimo che tutto il mondo ci invidia.

Quest’anno la manifestazione appare più modesta, come se risentisse della crisi del settore, ed in un certo senso più antica, un po’ anacronista.

I telegiornali fanno di tutto per esaltare le presenze e gli attori, ma in campagna elettorale i veri protagonisti sono i politici, ormai presi dal delirio delle dichiarazioni e delle promesse.

Di cinema, di cultura, non ne parla nessuno, contano solo il gas e l’elettricità: con la cultura non si mangia e non ci si riscalda!

Avv. Michele Lo Foco

UN PAESE PARADOSSALE

L’Italia, silenziosamente e grazie al pessimo lavoro dei partiti politici, si sta avviando verso una forma di stato sociale più simile a quella dello Sri Lanka che a quella di una nazione europea.

I sindacati, resi inoffensivi da Renzi e divenuti una specie di partito personale, hanno smesso di vigilare sulle condizioni di gran parte dei lavoratori, mentre gli Amministratori, incapaci di gestire, ma ben collegati con i leader dei partiti, hanno compreso che non fare nulla è meglio che azzardare mosse senza esserne consapevoli.

Siamo così giunti al baratro sociale, che tra breve porterà al collasso delle strutture e ad una forma di rivoluzione, peraltro assolutamente giustificata.

Il più schifoso dei lavori, il netturbino, diciamolo senza reticenze, è pagato più o meno milleduecento euro al mese, e comporta la perdita della dignità, minata da cattivi odori, condizioni atmosferiche, mezzi meccanici vetusti, disprezzamento sociale.

Un netturbino dovrebbe guadagnare il doppio, perché non solo è necessario alla qualità dell’ambiente, ma deve capire di esserlo, recuperando il proprio ruolo agli occhi degli altri.

Fabio Fazio guadagna duecentocinquanta volte al mese il corrispettivo dello spazzino per fare un lavoro divertente, di classe, riconosciuto socialmente, ma che non serve a nulla, non migliora l’ambiente, non crea lavoro.

In Italia lo stipendio di un top manager, che faccia bene o male, è di circa 700 volte lo stipendio più basso, e i Benetton, con 43 morti sulla coscienza, per aver gestito così bene le Autostrade, sono stati riempiti di milioni e non hanno ancora finito di incassare.

È un orrore vedere che un impiegato di banca guadagna circa 1.500 euro al mese, e non può sbagliare, mentre la Littizzetto incassa ventimila euro a puntata per parlare di organi maschili ed altre amenità sdraiata sulla scrivania.

È un orrore vedere che un primario ospedaliero, che salva vite o le migliora quotidianamente, guadagni tremila auri al mese e non può né sbagliare né assentarsi, mentre un dirigente della Banca d’Italia, o un dirigente Rai non prendono meno di duecento mila euro l’anno anche se non ci sono mai.

Calciatori, allenatori, manager affermati guadagnano in un anno quello che ad un postino, ad un giornalaio, ad un muratore basterebbe per due vite.

Alcune presentatrici, nemmeno straordinarie, incassano da decenni un milione di euro l’anno, e si permettono attici, vacanze, fidanzati, personal trainer ed assistenti di vario genere.

Tutto questo, sembra puro e semplice qualunquismo e lo è, ma la realtà è un’altra: se non ripristiniamo una forma di equilibrio sociale, gli spazzini continueranno ad ammalarsi, gli impiegati penseranno solo alle proprie necessità, gli addetti alle ambulanze saranno sempre meno, come gli infermieri, i vigili urbani diventeranno merce rara, e saranno sempre più pericolosi, e i poliziotti cambieranno casacca.

Abbiamo bisogno di servizi sociali, e possiamo fare a meno di De Martino, della Marcuzzi, della Hunziker; abbiamo bisogno di facilitare gli spostamenti, di migliorare il traffico, di purificare l’aria, anche a costo di pagare meno Conte e qualche altro figuro e di perderci Ilary Blasi, che certamente saprà come arrangiarsi.

Abbiamo bisogno di regole che siano coerenti con le nostre necessità strutturali, perché solo risolvendo i disagi esistenziali potremo dedicarci alle veline di “Striscia la notizia” senza sensi di colpa o preoccuparci del divorzio del Pupone.

Certamente non possiamo diventare, e lo rischiamo, come il Brasile, paese nel quale il Governo risolve i problemi montando attrezzi ginnici sulla spiaggia per far sfogare quei poveracci che abitano nelle favelas.

Avv. Michele Lo Foco

Cinema e libertà

Pupi Avati è certamente l’ultimo grande regista della vecchia scuola ancora in attività, e assieme al fratello Antonio è ancora in condizione di attirare alla prima di un suo film centinaia di persone tra le quali in primis il Presidente della repubblica.

Duea, la società degli Avati, fa parte della folta schiera degli indipendenti che ancora credono che fare un film sia un lavoro serio e non una speculazione sui contributi. Non ci scordiamo che Pupi Avati si dimise da presidente di Cinecittà quando si accorse che qualcosa non andava nel verso giusto e che Livolsi si occupava di finanza e non di cinema.

Andrea De Liberato, piccolo produttore super indipendente ma cinefile di alta classe, si è rovinato due anni di esistenza per produrre il film di Peter Greenway Walking to Paris .

E’ successo di tutto , la Rai lo ha aiutato e poi mollato, il Ministero anche , ma alla fine ,dopo aver superato in più una grave malattia , è riuscito a portare a termine la pellicola di nazionalità italiana più bella di questi ultimi anni. Racconto poetico ma non solo, crudo talvolta, sicuramente rivoluzionario.

IL ministro Franceschini, invece di preoccuparsi di accrescere la ricchezza dei ricchi, dovrebbe sapere che nel mare magnum dei prodotti inguardabili e invendibili che il tax credit ci sta consegnando, esiste una perla rara.

Solo i produttori indipendenti, lo ribadisco a chiare note, nell’Italia cinematografica che ci tocca subire, sono in condizione di far nascere qualcosa di nuovo, come in fondo è stato il documentario su Morricone di Andrea Occhipinti l’unico che ancora non ha venduto la società agli stranieri.

La burocrazia non produce arte, ma solo privilegi, e nel nostro paese abbiamo tanti privilegiati e pochi artisti.

Anche tra gli attori domina la burocrazia, o si fa parte di qualche parrocchia o nessuno ti chiama o peggio ti sperimenta.

Abbiamo assistito a attrici quasi comiche diventate ispettrici di Polizia, cronaca nera, di tutto e di più, senza alcun ragionamento commerciale.

Almeno prima Saccà aveva uno scopo preciso anche se non condivisibile, ma oggi manca anche quello.

Piccoli bellissimi film come My Italy del maestro Colella sono passati quasi inosservati mentre prodotti assurdi come il film di Mainetti sono stati realizzati nonostante il loro costo equivalesse al bilancio del Mali.

Ho sempre sostenuto che la libertà è un ingrediente indispensabile per la creazione di un’opera, e la borghesia, la convenzionalità, i cerchi  magici, le complicità, gli imbrogli, le speculazioni, limitano a tal punto la libertà da soffocare qualunque capacità, che è già dote rara indipendentemente da tutto.

Registi non si diventa facilmente, e ottimi registi raramente, ma occorre tanto lavoro, tanta predisposizione, carattere e immaginazione.

Fare il produttore non è un lavoro semplice, ci vuole coraggio, determinazione, senso comune, cinismo, pulsione interna, e se sei un contabile, un burocrate, un uomo disciplinato produttore non lo diventerai mai, o rischi di schiantarti alla prima prova.

Fare l’attore è un mestiere ancora più complesso devi avere personalità, ci devi credere e gli altri la devono subire. Diversamente sparisci.

Ma la regia, la produzione, il mestiere di attore possono anche diventare un modo per passare il tempo, e tutti alla fine diventano mestieranti, senza arte né parte, destinati a rifornire le piattaforme.

In fondo è sempre meglio che lavorare in miniera.

Avv. Michele Lo Foco

Come distruggere il cinema

Non so se il ministro Franceschini si sia accorto che passerà alla storia per aver distrutto il cinema nazionale! Temo che nessuno lo abbia avvertito.

Prima di lui era riuscito nell’impresa Walter Veltroni, con gli aberranti finanziamenti ai film d’interesse culturale che arricchirono gli artistoidi di sinistra e svuotarono le casse dello Stato, pur essendo teoricamente rotativi.

L’interesse culturale sta al cinema italiano come il tax credit sta all’audiovisivo italiano: il primo era riservato al cinema mentre il secondo comprende tutto ciò che è possibile, proprio tutto.

Il primo ha portato decine di prodotti nei magazzini di Luce/Cinecittà, prevalentemente inutilizzabili, inguardabili e talvolta impensabili, il secondo ha gratificato i produttori furbi e introdotti, ha arricchito molte società estere, ha moltiplicato le fatture false e ha riempito le library delle piattaforme o delle reti di prodotti modesti, bruttini, bruttissimi, evitati dal pubblico dei cinema.

Oggi siamo all’ossimoro cinematografico: i film italiani non incassano una lira e la produzione è aumentata, perché lo Stato si è sostituito al pubblico, una formula geniale di sperpero destinato a gravare sui cittadini per fluire nelle tasche di alcuni.

Non è un caso che la camorra abbia intuito prima di altri il potenziale criminale del sistema, definendo il cinema “il proprio strumento”.

“Un film può costare duecentomila euro ma anche cinquanta milioni di euro” dicevano i camorristi intercettati dalla Guardia di Finanza, e non avevano torto, in quanto con la legge attuale più il film costa e più riceve di tax credit.

Ovviamente la Guardia di Finanza non può controllare tutti i film e tutte le fiction: se lo facesse avrebbe molte sorprese.

Ma il peggior danno creato dalla legge Franceschini è che ai produttori il risultato del prodotto non interessa più, e questo è riscontrabile nella qualità e nelle tematiche, che sembra rigettino lo spettatore, o lo considerino un essere sottosviluppato.

Il produttore non ha bisogno del pubblico, guadagna in partenza, prima di presentare l’opera, ecco il segreto delle norme attuali!

Ma ci sono altre conseguenze, molto più tecniche, che caratterizzano l’anno zero del cinema, tra le quali desidero indicare il depotenziamento della distribuzione, la chiusura di molte sale, il moltiplicarsi di forme estorsive quanto inutili come il traileraggio, la moltiplicazione selvaggia delle sceneggiature, la riconversione di soggetti in serialità, la manifesta incapacità di molti attori, la elementarità delle tecniche di regia.

Cercherò di indicare in un prossimo articolo, quali secondo me sono i possibili rimedi, oltre quello di togliere dalla guida del settore gli incapaci e i raccomandati.

Avv. Michele Lo Foco

Il record negativo

Sarebbe il caso che qualcuno, oltre me, avvertisse il ministro Franceschini che il nostro cinema, che lui esalta ogni volta arrivi una medaglietta, è in realtà in coma, e viene tenuto in vita, artificialmente, da contributi fantasiosi e faziosi che non fanno altro che rendere ricchi pochi produttori e avvelenare le acque del settore.

Sarebbe il caso che qualcuno dicesse al ministro che il film che ha vinto un ex-equo a Cannes non è italiano, ma l’Italia è una partecipante non esecutiva tramite una società controllata da Sky (!!!), che non mi sembra azienda nazionale.

Sarebbe straordinariamente utile che qualcuno mettesse sotto il naso del ministro l’ultimo Cinetel, nel quale il disastro del settore è ampiamente illustrato dal risultato della distribuzione Rai/01 del film “American Night” che, uscito in più di duecento copie, ha realizzato sette (dico sette) euro a copia, che credo sia il livello più basso mai raggiunto da un film.

Certamente questo record verrà nascosto dal segretario generale Nastasi al ministro e nessuno andrà a spifferare a Franceschini che il Tar sta demolendo tutte le delibere della Commissione Selettivi sotto l’implacabile martellamento del Prof. Adriano Tortora, che sostiene a ragione che la discrezionalità deve avere un limite.

Ma “America Night” è solo un esempio: il tanto decantato “Nostalgia”, con un attore come Favino, bravo ma sempre improbabile e usato fuori contesto, ha realizzato 34.000 euro alla prima uscita, “Esterno notte” dopo due settimane duecentosessantamila euro, nonostante gli stucchevoli omaggi al vecchio maestro Bellocchio, “Settembre”, il film rivelazione di questo periodo, dopo quattro settimane ha realizzato duecentoquaranta mila euro.

Se dovessimo tirare le somme, quelle vere, quelle che si facevano una volta, le produzioni e distribuzioni italiane dovrebbero dichiarare fallimento e quantomeno ridurre la loro permanenza a Cannes, in alberghi di lusso, al minimo indispensabile.

E’ invece paradossale come la palese cancrena del settore, determinata da una legge sbagliata, da un uso improvvido dei contributi, da una inqualificabile presenza delle strutture pubbliche, da una vergognosa contraffazione della verità da parte dei giornali, venga ignorata totalmente dalle forze politiche che considerano i trecento milioni di euro, destinati a Cinecittà, come un obolo alla gestione della cultura, effettuata da persone che, come diceva il pescatore di anguille del film di Gianfranco Rosi, sono “gente che ce capisce poco…

Avv. Lo Foco Michele

Tanto tuonò…………

Ormai non ci vuole più un esperto per comprendere che la legislazione e le strutture cinematografiche attuali sono state le cause del fallimento dell’industria nazionale: basta guardare i risultati più recenti, da Brizzi agli “Idoli delle donne”, se non peggio, da “il muto di Gallura” a “America Latina” per vedere icto oculorum che il pubblico evita il prodotto nazionale e lo frequenta solo se pubblicizzato massicciamente.

Il motivo è molto semplice: se devo pagare per vedere un film modesto sia nella trama che nei contenuti, lo aspetto in televisione seduto sul divano di casa.

Come siamo arrivati ad un tale risultato? Lo dico da molto tempo, e sono considerato per questo un polemista ed un disturbo della quiete pubblica, ma quando vengono meno i presupposti di un’attività creativa, sacrificati all’altare della politica, del qualunquismo e degli interessi personali, il risultato di un’arte che richiede sensibilità, conoscenza profonda delle logiche e intuito, non può che essere disastroso.

Gli incassi di “Bla bla baby”, di “Mancino naturale”, di “Giulia”, titoli sconosciuti ai più sono in realtà figli di una legislazione a dir poco cieca, nella quale i sostegni vengono dati al buio, su valutazioni a dir poco discrezionali ed ormai senza alcun riguardo per le reali possibilità artistiche o commerciali del prodotto.

Cosa vuol dire fare un sequel di “Come un gatto in tangenziale” o di “C’era una volta il crimine”? Possibile che appena un film supera la decenza dell’incasso venga progettato, sul nulla, un sequel?

Prodotti modesti, il cui contenuto è stato del tutto esaurito nel contesto del film, non tollerano un sequel, come nel caso del Padrino?

Inoltre, lo ripeto qualora a qualcuno non fosse arrivato il messaggio, un tax credit politico, creato solo per compiacere i giornalisti e gli operatori televisivi, nato per supportare il cinema, è in realtà veleno per le strutture produttive, che aumentano artatamente i costi per aumentare il credit, e che non si occupano più della bontà del prodotto, ma solo di guadagnare in corso di realizzazione, fregandosene, mi consento questo termine, del risultato commerciale. Il tax credit dato ai produttori televisivi è poi un vero e proprio regalo, ingiustificato, immeritato, un’offesa ai cittadini italiani. Se a tutto questo aggiungiamo l’eccesso di burocrazia, il fatto che lavorano solo alcuni attori, che alcuni di costoro sono invisi al pubblico, che le aziende americane ci considerano un loro protettorato, che le sigle sindacali sono state zittite o con posti o con regalie, che i partiti hanno trovato singolarmente i loro personalissimi vantaggi, che i capi dei capi delle strutture pubbliche sono statuine che si muovono a comando, se aggiungiamo ognuno di questi elementi, sui quali potrei scrivere libri interi, se poi ipotizziamo, malignamente, che qualcuno stia facendo gli interessi delle piattaforme per eliminare il cinema, bene, non credo sia difficile comprendere, e torno alla domanda iniziale, perché molte sale prima o poi dovranno chiudere.

Avv. Lo Foco Michele

Le pillole dell’avv. Lo Foco

Fulvio Abate, con la Sua solita sincerità applicata ad una forma semplice di sociologia, ha messo in risalto quanto Roma sia diventata la tomba della mondanità e del movimento urbano.

Ha perfettamente ragione anche nell’individuare quale custode del cimitero Walter Veltroni, che con le Sue occhiaie, l’aria stanca, e io aggiungo con i Suoi film e documentari, ha contribuito molto al risultato attuale.

Veltroni ha oltretutto fatto scuola, liberando sul territorio i Suoi allievi preferiti,  Melandri, capace di demolire un museo centrale ed avveniristico come il Maxi (che Lei tratta come fosse il Suo salotto di casa),  e Bettini che da dall’antro oscuro del consiglio di amministrazione di Luce Cinecittà prepara l’assalto ai fondi europei. Roma è senza spunti culturali perché nessuno si occupa di cultura; ed è priva di mondanità  perché finita la dolce vita ed il sequel dei playboy si è ritrovata priva di personaggi veri e capaci e piena di gente inutile che non sa fare nulla, nemmeno divertirsi.

Quando l’amministrazione di una città come Roma riesce a massacrare Via Veneto e Piazza di Spagna, quando il Plaza all’angolo di Via Condotti chiude, quando metà dei negozi del centro storico non reggono l’affitto, quando non c’è iniziativa di livello nazionale, quando gli attori famosi evitano la città ed il festival/festa di Roma, vuol dire che la politica non è stata capace di individuare un nome, uno solo, che avesse  a cuore questa città. Gli assessori alla cultura si sono avvicendati uno dopo l’altro e nessuno se  ne ricorda il nome: eppure ai tempi hanno lavorato Battistuzzi, Nicolini, Gatto, gente che aveva idee e carattere, che ha lasciato qualcosa.

La Roma goduriosa è sulle foto di Barillari, che oggi non sa dove sbattere la testa e non può continuare ad immortalare la Federici, con quel Suo sorriso impostato e perenne, perché non interessa a nessuno. A Roma non vengono più nemmeno i personaggi inutili, i vuoti a perdere, i riccastri, le donnine allegre, le pornostar: dobbiamo accontentarci della Boschi, di Salvini, di Sgarbi che talvolta vanno a cena fuori e potremmo incontrarli li se siamo fortunati.

Avv Lo Foco Michele