Io, Vittorio Feltri

IO,VITTORIO FELTRI: IL GIORNALISTA CHE TUTTI CONOSCONO, L’UOMO CHE POCHI CONOSCONO.

Il 17 luglio il quotidiano Libero, fondato da Vittorio Feltri, compie vent’anni. Nell’occasione verrà presentato e offerto il film Io, Vittorio Feltri, (durata 65’) scritto e raccontato da me, diretto da Tiziano Sossi, prodotto e distribuito dalla Dna di Giovanni De Santis. Ne propongo una selezione.

Le vicende attuali, già troppo scritte e parlate, vengono sorpassate, qui si parla d’altro e di un altro Feltri.

Partirei da alcune delle guest star presenti nel cast.

Francesco Alberoni: sociologo scrittore: “E’ il giornalista più coraggioso e il più sincero. Ha un suo punto di vista che vuole comunicarti, con uno stratagemma apparentemente paradossale, ma te lo dice con grande chiarezza. E’ un amico che ti parla.”

Paolo Del Debbio, docente universitario conduttore: “Feltri o del piacere della lettura. Scrive in un modo originale, suo, bello, lineare, che va subito al nocciolo della questione.”

Michela Vittoria Brambilla, politica, conduttrice: “Innanzitutto devo ammettere che io adoro Vittorio Feltri, dunque in questo mio racconto sarò parziale. Ma così è…”

Angelo Stella, storico della lingua, accademico delle Crusca: “E’ il giornalista che sa parlare alle masse, con cui vado meno d’accordo ma che leggo più volentieri.”

Pietro Senaldi, direttore responsabile di “Libero”: “Ho voluto fortissimamente lavorare con Feltri, perché ritenevo che lavorare con lui fosse un investimento per la mia professione.”

Alessandro Sallusti, direttore responsabile del “Giornale: “Feltri è un caposcuola, ha inventato un genere. Ma nessuno può aspirare ad essere il suo erede. Il feltrismo rimarrà cosa sua.”

Pupi Avati, regista: “Caro direttore, nel finale, con quei ragazzi che le chiedevano un selfie, avrei voluto che il film continuasse, che lei continuasse a dirci di sé. Come d’altra parte farà da domani mattina.”

Rachid Benhadi, regista algerino, una delle maggiori personalità della cultura africana. Vive anche in Italia. “Un proverbio arabo dice: voi fermatevi all’apparenza, io scendo dopo, alla sostanza, che è il lato umano, sincero, profondo di Vittorio Feltri.”

Gabriele Albertini, già sindaco di Milano, europarlamentare. Ha esordito dicendo: “Se Montanelli è il principe dei giornalisti, Feltri è il duca.” Poi si è rivolto a Feltri: “Credo che tu sia i titoli dei giornali che hai diretto. Il Borghese… e guarda la tua storia, sei il borghese del novecento, quello di qualità. Sei “libero”: il tuo pensiero non si assoggetta alle compiacenze del momento né al rapporto col potere. Indipendente: hai sempre cercato di avere i lettori come tuoi padroni. Europeo: intendi l’Europa non come burocrazia, non come UE, ma come storia.”

Feltri è forse il giornalista più popolare del Paese. In questa epoca dove la comunicazione deve essere diretta come un pugno, dove la critica deve diventare un attacco, ha adottato quel suo linguaggio che non fa prigionieri che si attesta su una posizione liberale che guarda a destra ma è capace di criticare quella stessa posizione se è il caso. Nel tempo, ha perfezionato il suo segnale più identitario, il “politicamente scorretto”. Feltri ne ha fatto una bandiera. Il “direttore”, è notorio, è personaggio divisivo, amato e odiato. Una certa fascia lo attacca e crocefigge, altre fasce lo seguono con passione, anche se magari non lo confessano, come accadeva col Berlusconi politico. L’ uomo, nella sua imperfezione, nel suo dividere l’utenza per sgradevolezza e antipatia o per i loro opposti, funziona. Ma questa, visibile e prevalente, è soltanto una parte di Feltri. Poi c’è l’altra, nascosta, direi “privata per pochi” ed è quella dell’intellettuale capace di uno stile di scrittura da romanziere, di un’analisi di un testo da accademico, di un’umanità semplice e profonda. E’soprattutto di questo Feltri che racconta il film.

Il termine è “direttore”, decisivo, quello che più identifica l’uomo. In sintesi estrema:

Feltri è stato un nomade delle direzioni, con corsi e ricorsi, con una costante non banale: assume una direzione e le vendite si moltiplicano, lascia le direzioni e le vendite cadono, viene richiamato e la testata si rilancia. Un dato che si è verificato in tutti i giornali da lui diretti: da Bergamo oggi, a seguire con L’Europeo, L’Indipendente, Il Giornale, Il Borghese, traiettoria che il film racconta nei dettagli.

Feltri parla della famiglia. Tanti particolari: il papà morto a quarantasei anni quando Vittorio ne aveva sei, la mamma, giovane vedova, che dovette subito lavorare duramente, i fratelli più grandi che lo tutelavano. Poi la prima moglie scomparsa giovanissima, poco dopo aver dato alla luce due gemelle e la seconda moglie, Enoe, madre di altri due figli, tanti racconti, anche fra sentimento e dolore.

La formazione e le passioni.

Feltri racconta dei suoi riferimenti letterari: i russi con predilezione per Dostoevskij e i romantici francesi, Stendhal e Balzac. Gli italiani che lo hanno segnato: Zeno e Berto fra gli altri. Ne parla da competente vero. La letteratura non è disciplina estranea a Feltri, parlo di quella personale. Se è vero che due suoi (molti) libri, Non abbiamo abbastanza paura e Il borghese sono nel catalogo degli Oscar Mondadori, collana nobile.

C’è un passaggio al ristorante “Carpaccio” specialità pesce, ma il direttore ha altre preferenze: il pizzocchero. Che gli viene servito.

Alla fine, il cameriere, gentile: “Direttore gradirebbe un caffè?” “Preferirei un whisky, torbato.”

Voglio indicare tre momenti del mio rapporto con Feltri. Lo conobbi quando, primi anni ottanta, ero direttore dell’emittente bergamasca Videodelta, la prima del network Rete 4, allora della Mondadori.

Enoe, moglie di Feltri, era la mia assistente. Un anno ero a Pontremoli, il mio romanzo La grande ambizione aveva vinto un premio Bancarella.  Feltri era lì a rappresentare Oriana Fallaci, sua grande amica, che era in America. Tre anni fa, tornato a dirigere Libero, mi telefonò chiedendomi se volevo collaborare. Da allora il rapporto è stato… assiduo.

In una delle sequenze finali gli dico: “C’è un momento in cui ti metti una maschera, indossi un costume e sali sul palcoscenico del piccolo schermo, e il pubblico ti applaude, sei attore di grande successo. Poi c’è l’uomo, che è diverso dall’attore… e forse è migliore.

Risposta: “Beh, se lo dice Farinotti devo credergli. Ma non del tutto.”

Quello che segue è la voice-over che accompagna l’ultima scena, dove Feltri cammina in mezzo alla gente in Galleria. Lo fermano continuamente, molti giovani.

“Vittorio Feltri non è lontano dai suoi primi ottant’anni. Ha molto operato in questa prima parte della sua vita. Si è fatto notare.  Non c’è dubbio che, uomo di ieri e di oggi, sarà anche uomo di domani. Quando gli è stato chiesto di dire il suo epitaffio ha risposto finalmente. Ma mentiva. Ha troppo vissuto e si è troppo speso per pensare di astenersi dalla vita. E’affezionato al suo ruolo “contro”, abrasivo, irriverente, non mollerà. E poi cosa farebbe senza i suoi lettori che si fidano di lui, della sua chiarezza e della sua onestà. E che sono, come Feltri dichiara, i suoi padroni.  Ed è corretto che questa storia finisca con l’attore, e l’uomo, nel suo scenario naturale, in mezzo alla gente.”

Pino Farinotti

Matares

DISPONIBILE DA OGGI 15 GIUGNO IN STREAMING su:

Amazon Prime Video, Chili, Vativision, www.e-cinema.it

MATARES è un film del 2019 di 90 minuti, scritto e diretto da Rachid Benhadj, interpretato da Dorian Yohoo (Mona), Anis Salhi (Said), Hacene Kerkache (Djaffar), Kobe Alix Hermann (Cedric), Rebecca Yohoo (madre di Mona). È prodotto da Nour Film (Algeria) e Laser Film (Italia), distribuito da 30 Holding, con colonna sonora di Said Bouchelouche, voce cantata di Tetty Tezano e direzione della fotografia di Karim Benhadj.  Mona è una bambina ivoriana di 8 anni, fuggita dal suo paese di origine per stabilirsi insieme alla madre a Tipasa, città costiera algerina fondata dai Fenici, successivamente conquistata dai Romani, di cui sopravvivono le suggestive rovine cimiteriali “Matares”. Mona è costretta dal contrabbandiere Cedric a vendere fiori ai turisti per racimolare il denaro necessario alla traversata del Mediterraneo così da riabbracciare il padre che vive in Italia. Nella medesima zona Said, bambino algerino di 10 anni alle dipendenze di Djaffar, vende fiori ai turisti. La collisione tra i due è inevitabile, l’iniziale scontro si trasforma ben presto in un tenero incontro, dove il sentimento puro di amicizia trionfa sulle questioni affaristiche, le differenti matrici religiose – cattolica lei e musulmano lui – e razziali. Mona si esprime attraverso monologhi, dialoghi e pensieri, il racconto di Adamo della Genesi dell’Antico Testamento  apre la narrazione filmica.

Il primo essere umano caduto nella storia a causa del peccato originale era in realtà un africano di pelle nera che, nella tragedia della mondanità fatta di fatica e dolore «… non capiva perché la gente lo chiamasse sporco negro e perché odiasse la sua pelle nera. Aveva una gran voglia di gridare a tutti che i primi uomini erano neri come lui, ma per evitare altri problemi, preferiva tenere per sé questa verità. Per non capire gli insulti che gli urlavano, Adamo si rifiutò di imparare altre lingue. Ad ogni modo anche quando era obbligato a parlare la lingua del posto, nessuno lo ascoltava. Più il tempo passava, più si sentiva triste e solo». Ed è una pelle nera che con lo sviluppo secolare dell’umanità diviene bianca, avviene una sorta di sbiadimento dei connotati essenziali dell’essere umano in linea con la progressiva trasparenza della società contemporanea, in preda alle nuove tecnologie, alla lucida follia del “like/don’t like” in cui è bandita ogni opacità, e in cui il colore cessa di esistere, anche nella memoria, innescando antinomie razziali incomprensibili, in quanto la fissazione di ogni desiderio nelle cose e nell’appagamento degli effimeri bisogni terreni non primari diventa il timone di ogni azione umana, un raggiro che scolora tutto, anche la pelle, e soprattutto la memoria della comune origine ancestrale.

Benhadj affronta la questione razziale in termini assolutamente originali, non occorre solo accettare l’altro che ha una differente pigmentazione della pelle sulla base di considerazioni socio-antropologiche votate alla pace tra i popoli e alla pacifica convivenza sul pianeta, ma occorre riconoscerlo come fratello, come essere umano tassello del mosaico dell’umanità, la quale ha una medesima origine e un eguale destino, con un’alfa e un’omega sancite dal tempo in cui l’uomo è piombato a causa del peccato originale e con un quid che è esterno a ogni dimensione spaziale e temporale la cui eternità si realizza solo con l’adesione incondizionata al Trascendente. Tale adesione è scelta dall’uomo in ogni sua azione, in ogni momento della sua esistenza decidendo di accorgersi o meno delle differenze razziali, così come di ogni altra differenza, che alla fine esistono solo nel suo immaginario figlio delle fuorvianti esperienze sensibili, nel tunnel degli ammiccamenti mondani che troppo spesso non riesce a identificare.

Altro tema trattato è il dialogo interreligioso, Mona è cattolica e Said è mussulmano, lei parla con Gesù, lui è identificato solo dall’etnia, dalla ricostruzione narrativa, non compie alcuna ritualità, è elemento di un sistema socio-culturale che lo identifica come tale, si realizza una sorta di metonimia che prende a base luoghi, discorsi, oggetti, un libro sul Corano consegnato a lei da Cedric affinché venda meglio, facendo emergere il  Credo del bambino algerino a contrariis, dall’intima violenza fatta a lei. D’altronde la dichiarazione Nostra aetate (1965) del Concilio Vaticano II parla chiaro. All’origine del dialogo tra le religioni c’è il dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, perché i vari popoli costituiscono una sola comunità, avendo una stessa origine e come fine ultimo Dio. La Chiesa Cattolica « considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini », guarda « con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno ». Un seme, questo, della Dottrina Cattolica che diventa foriero di altre non meno importanti “rivelazioni”, tra cui l’enciclica Redemptor hominis (1979) di Giovanni Paolo II in cui il grande Santo afferma che lo Spirito di verità opera in ogni ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane (cf. n. 6) e che lo Spirito soffia dove vuole (cf. n. 12).

Benhadj unisce nella storia Mona e Said con un amore fraterno che emerge spontaneo e che si scrolla di dosso velocemente tutti i pregiudizi terreni quali il colore della pelle, la Fede religiosa, la provenienza etnico-geografica, il genere sessuale, etc., confermando le parole del grande Papa sulla scia dell’evangelista Giovanni « Lo Spirito come il vento, soffia dove vuole » (Gv. 3, 8), sancendo, quindi, il necessario abbandono alla chiamata divina hic et nunc affinché l’uomo trovi la strada della Verità. Nel film c’è qualche colpo di scena, solo accennato da Benhadj, che non contraddice mai il suo stile fatto di sguardi discreti, di scenari naturalistici meravigliosi, di bellezza umana indagata con pudore, con “timore e tremore”, utilizzando le parole del filosofo danese Søren Kierkegaard. Said ruba i soldi di Djaffar, che lo punisce, Mona pugnala Djaffar per difendere Said dall’aggressione violenta, i bambini algerini cacciano Mona dandole della “sporca negra”, Mona, assoldata da Djaffar, è indotta a un incontro di prostituzione. Tutte miserie umane che, tuttavia, non riescono a “bucare il video” in quanto la spiritualità e l’intimità emozionale che guidano la narrazione filmica non diminuiscono mai, e in ciò gioca un ruolo fondamentale la magnifica fotografia di Karim Benhadj, figlio del regista, che recepisce bene gli insegnamenti di Vittorio Storaro, di cui è allievo virtuoso. Al termine della visione lo spettatore dimentica quasi la questione degli immigrati clandestini, probabilmente ha voglia di abbracciare teneramente un membro della sua famiglia o un caro amico, in quanto il film accende la voglia di amare il prossimo e il mondo, unica modalità per abbattere divisioni e tristezze umane.

MATARES verrà proiettato on line in mondovisione il prossimo 15 giugno 2020.

Marco Eugenio Di Giandomenico

Marco Eugenio Di Giandomenico è scrittore, critico dell’arte sostenibile, economista della cultura, titolare di prestigiosi incarichi accademici presso università e accademie di belle arti italiane ed estere tra cui l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano e l’ARD&NT Institute (Accademia di Belle Arti di Brera e Politecnico di Milano), creatore e curatore di mostre artistiche ed eventi culturali in Italia e all’estero. Per le sue attività è stato insignito di svariati premi e riconoscimenti, soprattutto con riferimento alla teoria della “sostenibilità dell’arte”, di cui è riconosciuto tra i principali assertori a livello internazionale.

www.marcoeugeniodigiandomenico.com

 

Matares

Cast: Dorian YOHOO (Mona) – Anis SALHI (Said) – Hacene KERKACHE (Djaffar)  Kobe Alix  HERMANN (Cedric) – Rebecca YOHOO (madre).

Sceneggiatura, montaggio e Regia di: Rachid BENHADJ

Cinematografia: Karim BENHADJ – Musica: Said BOUCHELOUCHE 

Cantante: Tetty TEZANO 

Produttori:

NOUR FILM (Algeria) – LASER FILM (Italia)

Distributore internazionale 3OHolding

FILMOGRAFIA

Rachid BENHADJ è nato ad Algeri (Algeria), si è laureato in architettura e poi in regia a Parigi (Francia). Ha diretto diversi lungometraggi con grandi attori: Gérard Depardieu, Vanessa Redgrave, Said Taghmaoui, Franco Nero e il direttore della fotografia Vittorio Storaro.

 In anteprima mondiale dal 15 Giugno, disponibile in streaming, in esclusiva su queste piattaforme:

Amazon Prime video, Vativision, Chili cinema, www.e-cinema.it

Diretto dal regista algerino Rachid Benhadj,  Matares è la storia della piccola Mona, di otto anni, che dalla Costa d’Avorio ha raggiunto l’Algeria con la sua famiglia. Il padre è riuscito a varcare il Mediterraneo per dare a moglie e figlia almeno una sopravvivenza, in attesa di essere raggiunto. Mona, che è cristiana, per raccogliere il denaro vende fiori ai turisti, che non mancano nella zona di Matares. L’incontro con Said un bambino algerino è l’inizio di un percorso di odio e amore, fatto di innocenza e pregiudizi, di intolleranze culturali e religiose, di amicizia e sincerità.  

Già dalle prime immagini del film è evidente la magnificenza della fotografia, che esalta il territorio Algerino nei suoi più intimi angoli. Affidare una sceneggiatura di così grande portata storico/sociale a due bambini Mona e Said, è stata una scelta coraggiosa ma efficacissima. Raccontare la povertà, il dolore, le difficoltà di un popolo con gli occhi dell’innocenza, ha donato al film una dolce ferocia che arriva fino in fondo all’anima anche di chi come noi, quella realtà può soltanto immaginarla.

Le prime parole sono di Mona, voce fuori campo sono: “C’era una volta un uomo che si chiamava Adamo. Lui ed Eva vivevano in paradiso, avevano tutto ciò che desideravano, ma un giorno fece una stupidaggine bella grossa. Credo che avesse rubato una mela. Quando dio venne a saperlo si arrabbiò e cacciò entrambi dal paradiso. Sulla terra la vita non era facile. Adamo ed Eva dovevano lavorare per poter vivere. Ma un giorno Adamo fu costretto a lasciare la sua Africa, sua moglie e anche i suoi bambini. Andò altrove per trovare qualcosa da mangiare. Cercò per interi giorni ma non trovò cibo per la sua famiglia. Decise di riposarsi, dopo di che si rimise in viaggio”. Una metafora che ci accompagnerà per tutta la storia, tenendo per mano i due protagonisti e noi spettatori. Adamo per Mona era un uomo di colore, poiché la fede, l’amore, la speranza portano il volto e il colore di chi le serba in cuore,perché  rappresentano la più alta manifestazione dell’Io a cui affidiamo le nostre preghiere. Ma da sempre, in realtà,  l’unico colore che unisce le nostre razze, è il rosso sangue.

“Il film si ispira alla storia dei 13mila emigranti africani espulsi dal territorio algerino negli ultimi due anni. La piccola Mona e sua mamma hanno fatto parte di un gruppo di donne e bambini che sono stati espulsi, abbandonati senz’acqua né cibo al sud del Sahara. Tra gli altri rifugiati africani che hanno partecipato a questo film, alcuni hanno pagato con la vita il loro sogno e riposano nel fondo del Mediterraneo. I più fortunati, malgrado abbiano visto la costa italiana, si sono visti rifiutare l’entrata”. Laggiù in Africa, il grande viaggio verso la felicità non è mai stata un’opzione ma una necessità.

Della piccola Mona, dopo le riprese del film, non se ne è saputo più nulla.

Matares rappresenta una potente dicotomia; da un lato, i grandi che sfruttano, puniscono con violenza, impongono politiche e religioni che frammentano la società, dall’altro ci sono i bambini, lo specchio di questo nefasto spettacolo. 

Ma se una bambina ivoriana di otto anni è riuscita a dare lezioni di storia, di vita e di bontà al  mondo, a questo stesso dovrebbe essere chiaro da che parte iniziare a ruotare! Quella giusta…

Un film ASSOLUTAMENTE da non perdere.

Francesca Bochicchio

La Sfida – #Oltrelefrontiere

Presso il Circolo Canottieri Roma si è tenuta la proiezione in anteprima esclusiva del film Matarés del regista Rachid Benhadj . L’appuntamento si inserisce nell’ambito dell’evento di solidarietà “La Sfida – #Oltrelefrontiere”: tre giornate dedicate allo sport, alla cultura e allo spettacolo i cui fondi saranno destinati alle attività del Consiglio Italiano per i Rifugiati a favore di uomini, donne e bambini in bisogno di protezione in Libia.

Rachid Benhadj, Roberto Zaccaria,

L’incontro si è tenuto grazie all’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria ed al Circolo Canottieri Roma, proprio nel centesimo anno della sua nascita. Alla presenza di numerosi convenuti è stato dato un premio al regista Rachid Benhadj per la sua ultima opera dedicata al dramma dei migranti e del razzismo, un film che sarà distribuito al cinema nel 2020 dalla società 30 Holding ed in home video da DNA srl :

Il film racconta la toccante storia di Mona, una bambina ivoriana che fugge dal suo paese con la madre per raggiungere il padre in Italia. Tra l’inferno della Costa d’Avorio e la terra promessa, l’Italia, Mona deve passare per l’Algeria e lì trovare i soldi sufficienti a pagare il trafficante che le permetterà di arrivare a destinazione. Lo fa vendendo graziose coroncine di fiori ai turisti di Matarés, una località costiera algerina rinomata per le sue rovine romane. Mona non è la sola, anche Said, un bambino algerino, cerca fortuna con la stessa attività e per questo si trovano a scontrarsi. Ben presto il loro animo puro li porterà a diventare amici nonostante il contesto crudele e meschino. Non è un caso che la narrazione si svolge tra le rovine di un antico cimitero romano ove venivano sepolti i bambini per poterli venerare e ricordare. Segna un evidente contrasto con un presente dove l’infanzia è sfruttata, abusata, nella migliore delle ipotesi ignorata.

Un’alfa lontano, calato in un’era mitizzata ed un omega attuale in cui l’adulto non è più risorsa ma minaccia. Matarés il luogo dove qualcosa dell’infanzia muore per non risorgere più.

I lunghi applausi al termine della proiezione del film hanno sancito la non comune capacità di Benadji di trattare con profonda sensibilità i temi drammatici del nostro contemporaneo, un afflato poetico che solo l’interpretazione dei bambini protagonisti (autentici nel film poiché interpretano la loro vita reale) potevano trasmettere. Il messaggio unanime della platea, espresso in molti interventi, è stato l’auspicio che un film così toccante non esaurisca il suo percorso solo nel circuito cinema, ma che prosegua anche nelle scuole dove possa trasmettere agli alunni dalle elementari fino alle superiori i valori della solidarietà e dell’inclusione come imperativo di umana accoglienza.

Brous Gandin

GUARDA LA PRESENTAZIONE STAMPA:

La Sfida – #Oltrelefrontiere

Presso il Circolo Canottieri Roma si è tenuta la proiezione in anteprima esclusiva del film Matarés del regista Rachid Benhadj . L’appuntamento si inserisce nell’ambito dell’evento di solidarietà “La Sfida – #Oltrelefrontiere”: tre giornate dedicate allo sport, alla cultura e allo spettacolo i cui fondi saranno destinati alle attività del Consiglio Italiano per i Rifugiati a favore di uomini, donne e bambini in bisogno di protezione in Libia.

Rachid Benhadj, Roberto Zaccaria,

L’incontro si è tenuto grazie all’ex presidente della Rai Roberto Zaccaria ed al Circolo Canottieri Roma, proprio nel centesimo anno della sua nascita. Alla presenza di numerosi convenuti è stato dato un premio al regista Rachid Benhadj per la sua ultima opera dedicata al dramma dei migranti e del razzismo, un film che sarà distribuito al cinema nel 2020 dalla società 30 Holding ed in home video da DNA srl :

Il film racconta la toccante storia di Mona, una bambina ivoriana che fugge dal suo paese con la madre per raggiungere il padre in Italia. Tra l’inferno della Costa d’Avorio e la terra promessa, l’Italia, Mona deve passare per l’Algeria e lì trovare i soldi sufficienti a pagare il trafficante che le permetterà di arrivare a destinazione. Lo fa vendendo graziose coroncine di fiori ai turisti di Matarés, una località costiera algerina rinomata per le sue rovine romane. Mona non è la sola, anche Said, un bambino algerino, cerca fortuna con la stessa attività e per questo si trovano a scontrarsi. Ben presto il loro animo puro li porterà a diventare amici nonostante il contesto crudele e meschino. Non è un caso che la narrazione si svolge tra le rovine di un antico cimitero romano ove venivano sepolti i bambini per poterli venerare e ricordare. Segna un evidente contrasto con un presente dove l’infanzia è sfruttata, abusata, nella migliore delle ipotesi ignorata.

Un’alfa lontano, calato in un’era mitizzata ed un omega attuale in cui l’adulto non è più risorsa ma minaccia. Matarés il luogo dove qualcosa dell’infanzia muore per non risorgere più.

I lunghi applausi al termine della proiezione del film hanno sancito la non comune capacità di Benadji di trattare con profonda sensibilità i temi drammatici del nostro contemporaneo, un afflato poetico che solo l’interpretazione dei bambini protagonisti (autentici nel film poiché interpretano la loro vita reale) potevano trasmettere. Il messaggio unanime della platea, espresso in molti interventi, è stato l’auspicio che un film così toccante non esaurisca il suo percorso solo nel circuito cinema, ma che prosegua anche nelle scuole dove possa trasmettere agli alunni dalle elementari fino alle superiori i valori della solidarietà e dell’inclusione come imperativo di umana accoglienza.

Brous Gandin

GUARDA LA PRESENTAZIONE STAMPA:

MATARES

Regia di Rachid Benhadj

Cast: Dorian Yohoo – Anis Salhi – Hacène Kerkache

L’Algeria è un limbo che separa l’Inferno, la Costa d’Avorio devastata da guerre, dal Paradiso, l’Italia, dove molti scappano verso una promessa di ricchezza e benessere, lontano dalle loro famiglie, ma in fin dei conti per il loro bene. Molti ivoriani lasciano a fatica il loro Paese nel cuore dell’Africa Nera per finire in un altro, all’apparenza più sicuro e occidentalizzato, ma in realtà altrettanto meschino: l’Algeria.

Come un Adamo alla ricerca del suo Paradiso perduto, la piccola protagonista di questa storia, Mona, si muove in un universo di crudeltà e perversità, miseria e decadenza, con la speranza di guadagnare il denaro necessario per permettere a lei e alla madre di raggiungere l’Italia, dove il padre è lì ad aspettarle. Per riuscire in questa impresa deve sottostare alle crudeli imposizioni dello zio, che la vuole ogni mattina al porto a chiedere l’elemosina insieme alla madre, pure lei insensibile ai bisogni della figlia. Girovagando per le rovine di Tipasa, tra turisti e stupendi scenari assolati, Mona fa la conoscenza di Said, un altro bambino che come lei è costretto a lavorare alle dipendenze di un uomo senza scrupoli. I due inizialmente si fanno la guerra, vendono infatti fiori nei medesimi luoghi e sono costretti a rubarsi la clientela. Presto però il loro animo puro, l’innocenza e un’inspiegabile forza che li attrarre trasformano le angherie e i dispetti in un solido e profondo sentimento di amicizia. I due si scopriranno tenere l’uno all’altra.

Un film forte e toccante, scritto e diretto da Rachid Benhadj, che si svincola dall’essere retorico e scontato e racconta una bellissima storia di amicizia, pura e inaspettata. A tessere come un filo le trame del racconto è la voce della piccola Mona, che tuttavia ci conduce attraverso una storia sempre più oscura e triste. I momenti di spensieratezza che catturano i protagonisti in uno splendido luogo (bagnato dal mare, ombreggiato dagli ulivi e punteggiato di resti archeologici), dove i due si incontrano, si affrontano, si cercano, corrono, si rifugiano in posti segreti e finiscono per giocare insieme, viene via via corrotto da una vicenda che assume contorni scurissimi. Con una scelta registica accorta, le violenze e i soprusi peggiori a cui i due piccoli sono condannati vengono lasciati intendere in modo sottile, ma ciò li rende forse ancora più terribili e inaccettabili. Il contesto in cui i due protagonisti si trovano a vivere cozza terribilmente con l’atmosfera fiabesca e idilliaca che si portano dietro, facendoci piombare crudelmente in una realtà peggiore di quella che ci aspettavamo.

Nonostante si tratti di bambini, il regista algerino articola bene le personalità complesse dei due protagonisti: se lei è sveglia, scaltra e baciata dalla fortuna – forse per la sua devozione a un suo “Gesù” e per un naturale fiuto per il pericolo ¬– lui è nei guai di continuo e poco avvezzo al lavoro che tuttavia è costretto a fare. Ma ciò che li differenzia di più e li rende complementari è la tenacia di Mona a non voler scendere a compromessi, il suo essere combattiva e furba che fa da contraltare all’arrendevolezza di Said, il quale in modo disilluso accetta suo malgrado le punizioni e le botte, come una realtà a cui non può sottrarsi. Queste premesse vengono tuttavia ribaltate nell’evolversi di una pellicola dove gli adulti sono il male a cui neanche il sodalizio dei due bambini potrà contrapporsi e salvarli.

Prossimamente al cinema

Jessica Sottile

La Stella Di Algeri

sceneggiatura di Rachid Benhadj e Aziz Chaouki

Tratto dall’omonimo romanzo “La stella di Algeri” di Aziz Chouaki (premio Flaiano 2005)

Dopo il successo di “Pane nudo” e “Profumo d’Algeri”, Rachid Benhadj presenta a Milano in anteprima al festival Africano Asia e America Latina dal 19-26/marzo 2017,  il suo ultimo lavoro.

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Stella di Algeri” è una ballata musicale sulla dura quotidianità in cui vive il nostro protagonista Moussa Massy, un giovane cantante algerino, affascinato dal rock e dagli idoli della pop music internazionale, vuole diventare il Michael Jackson della musica algerina e araba, in un Algeria lacerata dal terrorismo islamico.

Mussa vive con sua famiglia composta di 14 persone in un piccolo d’appartamento di tre stanze in un quartiere popolare.

Malgrado tutte le difficoltà per farsi conoscere nell’ambiente musicale, Moussa e il suo gruppo si fanno strada, prima nelle feste di matrimonio, e subito dopo nei locali notturni, di secondo ordine, della vecchia Casba d’Algeri.

Salma, la sua fidanzata è innamorata del cantante contro la volontà dei suoi genitori che lo considerano un cialtrone, come tutti i cantanti e artisti, senza arte né parte.

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Grazie al suo talento, pian piano Moussa riesce ad imporsi e uscire dei locali di second’ordine per entrare nel mondo vero della musica algerina.

“Il Triangolo”, il locale più “in” della città, lo assume. Un produttore discografico gli propone un contratto, un giornalista lo vuole intervistare per un noto giornale.

Moussa è entusiasta, e lavora al suo progetto musicale alacremente.

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Ma, il primo duro colpo per il ragazzo viene dalla fidanzata, che per liberarsi dall’ostracismo dei genitori, lo lascerà per sposare il cugino ingegnere, l’uomo scelto dal padre. La notizia, non fa piacere a Moussa che furioso  cercherà di riprendere contatto con la ragazza, ma invano.

Dopo questa notizia, Moussa scopre che il fatidico, così detto produttore, risulta un delinquente. Senza interpellare il cantante, l’uomo pubblica le sue canzoni.

Sorpreso, Moussa non riconosce il suo lavoro alla radio, la melodia è completamente destrutturata, con pessimi arrangiamenti.

A questo spiacevole episodio si aggiunge il dramma, l’assassinio del giornalista che voleva scrivere un articolo su di lui.

Il paese sprofonda lentamente e inesorabilmente nel caos, e il sogno di Moussa di   diventare la stella di Algeri è cancellato dalla follia dei islamisti che stano invadendo le strade di Algeri per imporre la “Sharia” la legge islamica.