Han Solo a Cannes

Non è la prima volta che un film della saga di guerre stellari è presentato al festival di Cannes, nel 202 toccò a “Star Wars – Episode II – Attack of the Clones” e nel 205 fu la volta di  “Star Wars: Revenge of the Sith”. 

Alla 71^ edizione sarà proiettato fuori concorso “SOLO : A Star Wars Story” diretto da Ron Howard e sceneggiato da Lawrence e Jonathan Kasdan. Ci saranno oltre ovviamente a Solo, interpretato da Alden Ehrenreich, e Chewbecca anche Lando Calrissian, il Millenmium Falcon e i droidi in un cast che come la saga è veramente stellare ed annovera Woody Harrelson (No Country For Old Men , 2007), Emilia Clarke (Terminator Genisys , 2015), Donald Glover (The Martian , 2015), Thandie Newton(Jefferson in Paris, 1995), Phoebe Waller-Bridge (The Iron Lady , 2011), Joonas Suotamo (Star Wars VIII: The Last Jedi , 2017) and Paul Bettany (Dogville , 2003).

Ron Howard

La scelta conferma se ma i ce ne fosse bisogno che il festival di Cannes non ha falsi pudori e negli anni ha ospitato accanto ai più raffinati autori, anche film di cassetta (citiamo ad esempio il “Robin Hood” del 2010 di Ridley Scott, quello con Russel Crowe) e perfino film scomodi in patria come fu “Apocalypse Now”  di Francis Ford Coppola sino ad includere addirittura in concorso le produzioni di Netflix come “Okja“.

Insomma il festival di Cannes è veramente la festa del cinema, quella che non riesce ad essere quella di Roma, ed anche quest’anno il Festival si preannuncia con l’iniziale maiuscola.

 

 

 

 

WONDER WOMAN

In sintesi possiamo dire che la Marvel può dormire sonni tranquilli. Dopo “Suicide Squad” la DC esce con l’atteso “Wonder Woman” che prelude all’altrettanto atteso “Justice League“. Nonostante le premesse, tra cui l’ingaggio di una grande regista come Patty Jenkins (quella di “Monster” che valse un oscar a Charlize Theron) alla fine è venuto fuori uno zibaldone che non solo non appassiona, ma rischia più volte di far crollare il capo (tra le altre cose).

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Le origini di Diana, al secolo Wonder Woman, ed il suo esordio come paladino dell’umanità durante la grande guerra era una promessa che lasciava ben sperare. La bella ed atletica israeliana Gal Gadot è perfettamente in ruolo e Chris Pine è il perfetto belloccio da film d’azione e avventura collaudato nel franchise di Star Trek. Per sopramercato, ad impersonare le sorelle a capo delle amazzoni, si è voluto scomodare Connie Nielsen e, rullo di tamburi , Robin Wright che in questo film pare persino più alta. Aggiungiamoci poi due bravi comprimari come Danny Huston (un cattivo doc che tutti ricordano nella parte di Stryker di “Wolverine“) e David Thewlis (il “coda liscia” di Harry Potter, qui doppiato dal bravissimo Stefano Benassi) ed una manciata di caratteristi come Saïd Taghmaoui (“American Hustle” e “Three Kings“) ed Ewen Bremner (“The Snatch” ed il recente “T2 trainspotting”). Cospargiamo il tutto con un budget imponente ed è lecito aspettarsi che non ci siano problemi. E invece no.

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Non che ci sia pregiudizi per i fumettoni, ma un conto è Indiana Jones e un altro è un’accozzaglia di personaggi senza spessore né un reale scopo nella trama. Non a caso la metafora culinaria, riferita alla scrittura che vede ben tre autori ed uno sceneggiatore da coordinare, evidentemente da forza al famoso detto per cui “troppi cuochi imbrattano la cucina”. E continuando a fil di metafora possiamo dire che la storia è difatti un colabrodo che fa acqua da tutte le parti. Discontinuità logiche e temporali, interventi  fuori contesto, paradossi inutili e parentesi noiose (tipo “Wonder Woman suffragetta archetipica” e “Elementi di nuova cosmogonia greca DC Comics”) non godono neppure del conforto di scene spettacolari di combattimento che invece sono girate nell’assoluta mancanza di originalità e non sfuggono, come prevedibile, ai cliché di genere con tanto di speech finale del cattivone che termina con il trito (e rieccoci con la metafora culinaria) “Io ti distruggo”.

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Eroi così così circondati da gregari così così, che combattono cattivi così così, che hanno creato una minaccia neppure tanto catastrofica, in un film pieno di “spiegoni” che tradisce l’imperativo “Show don’t tell”.  Ah , quasi dimenticavo, il messaggio etico e morale del film è: “la soluzione ai mali del mondo è l’amore”. Sorpresi? No!? Immaginavo. I soldi potete buttarli tanto vanno e vengono, ma il tempo quello no risparmiatelo.

ALIEN COVENANT

Già dai tempi di Stanley Kubrick con il suo “2001 Odiessea nello spazio” si sospettava che intelligenza artificiale, viaggi interstellari e criogenia non andassero d’accordo. E’ un concetto ribadito più volte nella fantascienza sin dal primo “Alien” del 1979 e fino al recente “Passengers” di Morten Tyldum. Di astronavi in orbita impossibilitate di comunicare con la squadra a terra a causa di mille disgrazie ed avarie, mentre i poveretti laggiù sono in gravi ambasce e con i minuti contati, ne abbiamo visti a iosa, tanto che sarebbe noioso elencarli, ma quello di cui veramente non se ne può più è la scampagnata nel bosco dove un orribile pericolo fa fuori tutti i partecipanti uno ad uno.

david alien

Una volta tarato sullo zero pressoché assoluto lo strumento che misura la credibilità di un film sul precedente “Prometheus“, questo ultimo lavoro di Ridely Scott segna comunque un movimento verso l’alto e lo si deve ad una circolarità nella trama della intera saga, che chiude un anello anticipato, se non proprio iniziato, nello storico “Alien” e che riguarda il rapporto tra creato, creatura e creatore. Non sveliamo nulla poiché è già tutto chiaro nella sequenza iniziale, un flashback dove l’androide David (Michael Fassbender), già presene in “Prometheus“, dialoga con il suo ideatore Michael Wayland (Guy Pearce) prima che tutto abbia inizio. In questo dialogo c’è la chiave del film e di tutta la saga. Vi si riscontrano elementi archetipici del tema di Prometeo, per l’appunto, ma anche di Zeus e Cronos. La peritura sostanza del potere ben riassunta nel poema di ShelleyOzymandyas” contrapposta alla hybris di chi si paragona ad un dio, arrogandosi il più grande degli attributi: quello della creazione. Non è quindi per caso che appena “attivato”, l’androide David, dopo una rapida e profonda riflessione, accenna al pianoforte “L’entrata degli dei nel Walhalla” dal “Rehingold” di Wagner.  Si tratta proprio del “Crepuscolo degli dei”, che anticipa il vero e proprio Götterdämmerung che si sta per compiere. Ma le note della celebre sinfonia eseguite al pianoforte mancano di spessore senza l’impatto dell’orchestra e ne risulta quindi solo una pallida imitazione, come altrettanto mancante si rivelerà l’opera dell’androide. Nel rapporto tra l’androide e Wayland si manifestano subito le incongruenze di status ed è qui apprezzato dai cultori della fantascienza il chiaro riferimento ad Isaac Asimov ed alle sue tre leggi della robotica.

DAvid occhio

Per anni i creazionisti hanno sostenuto che un organo così sofisticato come l’occhio umano non poteva essersi sviluppato per caso, ma necessitava invece dell’opera di un creatore (si veda invece a confutazione il libro “Alla conquista del monte improbabile” di Richard Dawkins) ed in tal prospettiva va interpretato il primo fotogramma del film che ritrae l’occhio di David dal quale la prima cosa che vede è la luce in una metafora neanche troppo sofisticata. Lo stesso nome dell’androide è un nome biblico di colui che sfidò il gigante Golia e che divenne re.  Il riferimento al dio creatore è rafforzato dal titolo stesso “Covenant“, che è il nome della nave spaziale e che in campo biblico esprime il concetto di “patto con dio” ed infatti è funzionale a sottolineare questa implicazione che a capo della spedizione si ritrovi un uomo di fede, contrapposto al “sintetico” Walter che si occupa ed affianca l’equipaggio umano nella missione non per amore ma per dovere. L’origine della vita ed il suo scopo sono in definitiva il lodevole e sempre interessante tema centrale del film, che purtroppo aleggia per aria senza essere mai veramente approfondito.

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Oneste le scenografie, anche se ci si sarebbe aspettato qualcosa di più soprattutto relativamente all’astronave ed i suoi ambienti. La prima sembra riciclata dalla serie televisiva degli anni 70 “Spazio 1999″ ed i secondi peccano di un guizzo originale. Mentre è di sicuro impatto, anche se forse un po’ gigionesca, la città aliena. Al netto dei cliché del genere, che vengono religiosamente ripercorsi senza alcuna esclusione (c’è pure il malato che interrogato sulla sua salute asserisce eroicamente di stare bene),  si assiste ad una recitazione decorosa e professionale anche se minata da una sceneggiatura che fa acqua come un colabrodo. Il cast è così politically correct da includere non solo una copia omosessuale, ma anche una copia interraziale, con tanto di scena di sesso in doccia inclusa, per buona pace di chi già incominciava a sentire la mancanza di Charlize Theron.

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Alla fine della proiezione rimane il grattacapo di capire come farà Scott nel terzo episodio a ricollegarsi con il film del 1979. Ad essere ottimisti si tratterà di un colpo da maestro con cui si riscatteranno i primi due brutti tentativi di questa trilogia e si spiegheranno molte incongruenze e curiosità (incluso il cameo di James Franco all’inizio del film), ciò a patto però che si rivedano una buona volta le procedure di atterraggio ed esplorazione di pianeti alieni a vantaggio della credibilità della pellicola. Altrimenti il passo del poema di Shelley «Sono Ozymandyas, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese», rischia di essere un compito veramente poco sfidante. Intanto proliferano su you tube le speculazioni su che fine a fatto il personaggio di Elisabeth Shaw, sul perché David abbia ucciso l’ingegnere alieno e perché mai le astronavi debbano avere quell’irritante voce calma e rassicurante anche quando tutto va a rotoli.

alien xeno

Di base ci sentiamo di raccomandare quanto detto in occasione della recensione di “Life”.  Se sbarcaste su di un pianeta ad anni luce dalla terra da cui trasmettono “Take me home country road” di John Denver e, come se ciò non bastasse a mettervi sul chi vive, trovaste qualcosa di strano per terra, in una caverna o in un antica necropoli, qualunque cosa sia: è meglio non toccare.

L’inferno di Tom Hanks

Inferno (si proprio così in italiano già dall’origine) è il titolo del terzo capitolo della saga del “Codice Da Vinci” che vedrà il professor Robert Langdon (Tom Hanks) alle prese con nuovi enigmi da risolvere per salvare l’intero pianeta da una terribile catastrofe. Tratto ovviamente da un romanzo di Dan Brown anche in questo film la minaccia ha correlazioni teologiche e, come suggerisce il titolo, è in qualche modo attinente alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Qualcuno vuole trasformare la terra in un in inferno diffondendo un virus capace di sterminare la metà della popolazione.

Felicity Jones in una scena tratta dal trailer di Inferno
Felicity Jones in una scena tratta dal trailer di Inferno

A fianco di Tom Hanks c’è Felicity Jones, nominata all’oscar per “La Teoria Del Tutto” e qui nei panni della dottoressa Sienna Brooks.

Ben Foster
Ben Foster

Lo scienziato pazzo e necessariamente cattivo Bertrand Zobrist è interpretato da Ben Foster che debutterà ben presto nella sua opera prima dall’altra parte della macchina da presa di cui ancora non è trapelato però neppure il titolo provvisorio.

Ron Howard a Firenze durante le riprese di Inferno
Ron Howard a Firenze durante le riprese di Inferno

Il regista è sempre Ron Howard in collaudato binomio con David Koepp (sceneggiatore di Jurassic World , Indiana Jones ed il primo Mission Impossible tra l’altro) che curerà la sceneggiatura. Anche il direttore della fotografia fa parte della squadra storica della saga ed è l’italo americano Salvatore Totino che nel 2015 si è egregiamente cimentato con le meravigliose immagini di Everest per il quale era stato nominato al Camerimage 2015 come miglior film in 3D.

L'autore David Koepp
L’autore David Koepp

Il film, prodotto dalla prolifica società di produzione Imagine Entertainment (in cui lo stesso Howard è partner con incarichi esecutivi) insieme alla Columbia, che si occuperà anche della distribuzione nella maggior parte dei paesi, uscirà il prossimo autunno in contemporanea mondiale. Come già accaduto per i precedenti due anche questo capitolo della saga Da Vinci fungerà da grande promo della penisola italiana ribadendone la centralità nell’immaginario del mondo intero, con gli evidenti benefici che ciò comporta e di cui siamo orgogliosamente ben lieti.

Lara Croft riparte da Alicia Vikander

Chi pensava di aver archiviato la serie di Lara Croft ,che aveva portato sugli schermi un celebre personaggio dei videogame, dovrà ricredersi. Una potente cordata formata da Warner Bros, MGM e GK Films produrranno il reboot della spericolata archeologa. Questa volta si partirà dal principio, quando Lara Croft era ancora un’inseperta e talentuosa cacciatrice di tesori nascosti. Alla regia è stato chiamato Roar Uthaug al suo (“appena” verrebbe da dire) quinto lungometraggio, nessuno dei quali distribuito al cinema in Italia; solo “The Wave” è stato presentato al festival di Torino lo scorso anno, mentre “Magic Silver” è passato direttamente in TV.

Roar Uthaug
Roar Uthaug

Ciò che conforta è il produttore Graham King, davanti al di cui curriculum viene da inchinarsi. Per convincervi di ciò  elenchiamo qualche film in più rispetto a quanto facciamo di solito. King è stato produttore di “Traffic” (2000 Sodenbergh), “Alì” (2001 Michael Mann), “The Aviator” (2004 Martin Scorsese); “The Departed” (2006 Martin Scorsese); “Diamanti di sangue” (“2006 Edward Zick); “The Turist” (2010 Florian Henckel von Donnersmarck); “Rango” (2011 Gore Verbinski); “Argo” (2012 Ben Affleck); “World War Z” (2013 Marc Forster). Vi basta? Non ancora? E allora pur sempre senza pretesa di esaustività beccatevi anche “Hugo cabret” (2011 Martin Scorsese – ebbene sì si vede che lavorano bene insieme); “Il Dottor T e le donne” (2000 Robert Altman) in qualità di co produttore e “Jersey Boys” (2014 CLint Eastwood). Questo per dire che di soggetti, sceneggiature, attori e buoni registi se ne deve intendere per forza e potremmo trovarci a rimpiangere di non aver visto i soli quattro film girati dal norvegese Roar Uthaug (sì ma che nome).

Graham King
Graham King

Che questo nuovo lancio di Lara Croft abbia successo non è cosa di poco conto per Alicia Vikander,  appena reduce da un oscar per attrice non protagonista in “The Danish Girl” e chiamata ora ad  impersonare il ruolo che già fu di Angelina Jolie, senza avere peraltro, a differenza della Jolie, quella peculiarità fisica così caratterizzante di Lara Croft. Il pericolo è che ciò che segnò l’inizio di una brillante carriera per una non sia invece una macchia nel curriculum per l’altra. Ma in fin dei conti gli studios coinvolti, così come il produttore, sono di gran livello e molto brava ha dato prova di essere anche la protagonista, a pensarci bene forse l’elemento più debole risulta essere proprio Lara Croft.