Paramount e l’affare da 1 Billion Dollars

Vale ben la mirabolante cifra di un miliardo di dollari il contratto siglato tra Paramount e due partner cinesi, la Shanghai Film Group e Huahua Media. Qualcuno aveva insinuato che l’accordo siglato lo scorso gennaio fosse ormai in stallo poiché i cinesi non avevano ancora versato una lira, ma Bob Bakish, CEO di Viacom di cui la major fa parte, ha precisato che rientra tutto in un programmato piano di pagamenti e che l’accordo è saldo e validissimo.

Bob Bakish
Bob Bakish

La partecipazione cinese prevede il finanziamento di un pacchetto di film da prodursi nell’arco del prossimo triennio e s’inserisce nel piano di espansione di Viacom  nel mercato cinese. Così come Legendary East ha prodotto “The Great Wall” dove troviamo un improbabile sintesi tra Matt Damon (a suo agio nell’epica cinese come un luterano ad un rave party) e Zhang Ymou , dovremo aspettarci altri crossover trans pacifici alla conquista di un’audience che sia il più ampio possibile.

Matt Damon
Matt Damon

Non è solo per Paramount infatti che Viacom necessita di nuovi e più ampi mercati, ma anche per le sue altre numerose media company come MTV, Nickelodeon, VH1, Spike, BET and Comedy Central. Nel recente passato la major americana ha realizzato in associazione con partners cinesi film come “Transformers: Age of Extinction”, girato in Cina e che ha incassato in quel paese ben 320 milioni di dollari. Anche “xXx: The Return of Xander Cage” che in America ha avuto risultati men che modesti ha potuto contare sull’effetto paracadute grazie ad un box office cinese di 160 milioni di dollari.

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Cosa fanno le società di produzione italiane in Cina? Pressoché nulla poiché nessuna è abbastanza grande ed integrata per essere un interlocutore interessante per gli operatori cinesi. A dire il vero non è solo un afflizione italiana, ma la cosa riguarda un po’ tutti gli europei con l’importante eccezione della Francia dove ci sono media company, Vivendi in testa, che già da tempo perseguono una strategia internazionale.

Il declino del PC da tavolo nell’era della SVOD

Un tempo il desktop si chiamava “PC da tavolo” per distinguerlo dal portatile che oggi tutti chiamano laptop. Inutile opporsi agli inglesismi nel campo informatico, pena il rischio di apparire prossimi alla rottamazione. Il PC da tavolo non ha mai conquistato i salotti degli italiani rimanendo relegato allo studiolo o alla camera dei ragazzi ed oggi paga lo scotto della sua estrema specializzazione.

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Sì perché se il portatile e lo smartphone condividono a pari merito quasi un terzo della fruizione di contenuti SVOD (fonte IBM cloud video) con un 15% ciascuno di visualizzazioni, il vecchio PC da tavolo rappresenta il fanalino di coda con appena il 5% del traffico. A pensar male (che spesso ci si azzecca come diceva un celeberrimo politico della vecchia repubblica) c’è da rilevare che negli uffici ci si può dedicare di nascosto a bazzicare i social network o a leggere il proprio magazine preferito, tutte attività che non richiedono necessariamente la funzione audio, ma guardare un programma sarebbe evidentemente troppo smaccato. A farla da padrone quindi è il caminetto tecnologico di casa rappresentato dalle connected TV che con il 43% di share veleggiano con brio verso la metà del traffico SVOD.

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Il tablet che pur ha uno schermo più grande degli smartphone, ma non gode della medesima diffusione, si attesta ad un tondo 10%. E per chi a casa non ha ancora la smart TV, ma vuole vedersi un film o una serie durante la pausa tra un gioco e un altro può usare la sua console giochi come media per i contenuti SVOD. Il che significa che già oggi, sommando questo residuale 12% al 43% delle connected TV , i fruitori del digital delivery utilizzano schermi grandi per fruire dei contenuti e ciò implica che la qualità dell’immagine è destinata ad essere un aspetto importante che gli operatori del settore devono considerare nell’offerta dei loro programmi.

Porno 2.0 un mercato da 13 miliardi

Mentre l’industria del cinema hard tradizionale colava a picco alla velocità di decrementi a due cifre di anno in anno, a partire dalla fine degli anni ’90 dello scorso secolo, Internet cresceva più che proporzionalmente sino a raggiungere (in America) la fantastica cifra di 13 miliardi di dollari.

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Ogni giorno secondo Google 300 milioni di utenti naviga tra 260 milioni di siti pornografici , con l’incredibile rapporto di 1,15 utenti per sito. Il solo sito Porn Hub ha erogato nel corso del 2015 ben 4 miliardi di ore di video ad un fruitore medio che ha 35 anni, è maschio (ma con le donne in rapida crescita) e che utilizza soprattutto lo smarthphone, preferito al PC ed ai tablet, per vedere filmati che non superano in genere i dieci minuti ciascuno.

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Gli italiani sono finalmente tra i primi posti in classifica situandosi al quarto posto al mondo per il numero di spettatori. Le case di produzione hard italiane sono circa una decina ma producono prevalentemente all’estero poiché sul territorio nazionale è proibito girare, mentre in paese come Spagna, Ungheria e Repubblica Ceca l’industria del porno è trattata esattamente come le altre branche della cinematografia e gode dei medesimi sostegni.

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All’estero si tengono anzi dei festival, primo tra tutti quello di Berlino, detto la “Sundance” del porno, che si svolge dal 2009 nel cuore di Kreuzberg. Altri festival si svolgono a Parigi, ad Atene, a Madrid e perfino a Zurigo ed il La Fete du Slip di Losanna (il nome era troppo carino per non citarlo). Jurgen Bruning, tra i fondatori della berlinale hard, sostiene che “il miglior mondo possibile è quello in cui non c’è bisogno di un Porn Film festival, un mondo in cui la sessualità è davvero libera.” Prossima frontiera la Virtual Reality (ammettetelo che ci avevate pensato subito) dove le applicazioni della nuova tecnologia promettono di aumentare l’effetto interattivo e “pruriginoso”.