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The End? – L’inferno fuori: la fine dell’horror all’italiana?

È un giorno cruciale per Claudio. Il giorno della fusione, mancano solo le firme. Uscito di casa, raggiunge l’ufficio. In ascensore, però, rimane bloccato. Tra il sesto e il settimo paino, resta in attesa; ha fretta, ha un affare importante da concludere. Nervoso, riceve una chiamata dalla moglie: la città è impazzita, gli dice, le persone fanno cose strane, una giornalista è stata appena aggredita in diretta tv. Non è niente, vedrai, la tranquillizza l’uomo, andrà tutto bene… ma si sbaglia.
Mentre “fuori” un’apocalisse batteriologica ha trasformato la popolazione della Capitale in morti viventi, “dentro”, nell’ascensore, Claudio deve affrontare l’inferno, resistere all’assedio dei colleghi affamati della sua carne. Riuscirà a sopravvivere o sarà la (sua) fine?

È evidente ormai, il cinema italiano soffre d’una bizzarra amnesia selettiva: due interi decenni di film dell’orrore sembrano essere stati cancellati. Le opere di Dario Argento, di Mario Bava ma anche quelle “minori” di Ruggero Deodato, Lucio Fulci, Antonio Margheriti, tutte dimenticate. Non c’è memoria dei grandi autori di genere degli anni 60’ e ’70, dei rappresentanti di una cinematografia “spaventosa” che, oggi, trova posto soltanto nelle collezioni private dei cinefili più “Trauma-tizzati”. Artisti geniali che all’estero (negli Stati Uniti specialmente), al contrario, da anni, vivono una seconda giovinezza, riscoperti e omaggiati da registi di culto – da Sam Raimi a Quentin Tarantino.
Una ricca tradizione da cui attingere, quindi, ma nessun epigono capace di afferrare il testimone, di unirsi a questa “Danza macabra”.

Alessandro Roja

“The End? – L’inferno fuori”, ultima fatica di Daniele Misischia, è esemplare in tal senso. Zombie movie privo di “vita”, il lungometraggio restringe lo spazio d’azione ad un singolo ambiente, un ascensore – “Devil” di John Erick Dowdle e Drew Dowdle (2010) -, luogo di prigionia del protagonista – un Alessandro Roja inadatto al ruolo. Un racconto di reclusione, con l’inferno fuori (campo) ma il gelo dentro (lo spettatore). Un film noioso, ripetitivo, ormai scontato per le generazioni post-Walking dead – Claudio e l’uccisione del poliziotto-zombie -; un film che come molti altri – “Il ragazzo invisibile” di Gabriele Salvatores (2014) –finge di non comprendere come ogni storia di genere, per funzionare – qui l’horror, là il superhero movie–, debba nutrirsi dell’humus socio-culturale del paese in cui è stata scritta – un litro di latte, un litro di latte!


Non solo, il promettente spunto iniziale dello shut in avrebbe richiesto una regia più coraggiosa, scelte stilistiche più ardite – “Buried – Sepolto” di Rodrigo Cortés (2010). Soprattutto, la sceneggiatura – orfana di una mission definita e priva d’interlocutori credibili per il protagonista – avrebbe dovuto esaltare lo scambio dialogico tra personaggi – come in “Locke” di Steven Knight (2013).
La fine dell’horror all’italiana dunque? No di certo, ma un’occasione (da non sprecare) per riflettere sulle possibilità espressive che il nostro patrimonio orrorifico può ancora offrirci.

Alessio Romagnoli

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