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The Square, lo spazio della comunicazione impossibile dove va in scena la miseria umana

Christian (un bravissimo Kristofer Hivju), è il curatore di un museo di Stoccolma. Vive da “svedese tipico”, lavorando nel rarefatto mondo delle improbabili quanto vacue opere d’arte contemporanea, abitando in solitudine in un patinato e ricco appartamento. E’ anche un seduttore seriale, grazie al fascino del frigido intellettuale che tiene le passioni sotto controllo, almeno fino a che subisce un furto in una strada ove ladri attori simulano una violenza. Nella mancata colluttazione gli vengono sottratti portafoglio e cellulare, il cui segnale GPS permette però la localizzazione dei ladri.

Kristofer Hivju

Per recuperare il maltolto, Christian ha la malaugurata idea di imbucare a tutti gli abitanti del palazzo del ladro, una lettera che minaccia ritorsioni qualora la refurtiva non verrà restituita. Ma asservire la comunicazione ai propri scopi materiale è il peccato originale che porterà il caos nella vita e soprattutto nell’identità dello smarrito eroe.

Il regista mentre riceve il premio come miglior film a Cannes

Ruben Östlund si interroga sull’identità umana esplorando il tema della comunicazione; in “Forza maggiore” (2014) si era focalizzato sulle interazioni umane partendo dagli inquietanti meccanismi di una coppia svedese in vacanza con i figli, in “The Square”, tra l’altro vincitore della Palma D’Oro a Cannes, lo spettatore è invitato a riflettere su vari piani. La scena dell’irrompere dell’uomo/gorilla alla cena dell’alta società svedese richiama le rappresentazioni giurassiche di Spielberg e la brutalità di Kubrik. Il messaggio arriva forte alla pancia: ciò che conta, anche nel paese più civile del mondo, sono le forze psichiche profonde: rabbia, vergogna, desiderio, pura, oltre che la ferocia assassina del gruppo.

Sarebbe un errore valutare il testo come una condanna morale della società borghese. Il tema del pregiudizio dei ricchi sui poveri, degli intellettuali sugli ignoranti, degli europei sui migranti spinge gli spettatori a pensare ad un film di condanna della società occidentale, e forse per questo è stato premiato.

Non è per nulla così: il capolavoro di Ruben Östlund sfida i grandi temi della letteratura classica e contemporanea, suggerendo il legame tra l’impossibilità della comunicazione e le costanti dell’identità umana: solitudine, sofferenza, miseria spirituale.

Christian (i nomi non sono casuali) ci prova ad essere caritatevole e non c’è nessun motivo per dubitare della sua buona fede. Il suo dramma deriva dall’incapacità di cogliere i segnali, di comunicare, di esprimere anche i sentimenti più elementari, come l’affetto o le scuse.

Per questo deve percorrere un viaggio costellato di bivi, di scale discendenti, di scelte impossibili, fino all’inferno, il mucchio di immondizia indifferenziata dove si trova il numero salvifico (le citazioni bibliche si sprecano).

Elisabeth Moss

Christian è novello Ulisse, che incontra Sirene (il marketing), Calipso (l’amante calamita), il Titano (l’uomo-gorilla), ripercorrendo il viaggio iniziatico dell’eroe omerico. Si ritroverà alla fine, secondo uno schema perfettamente circolare, al confronto con il peccato originale, che, guarda caso, è stato un errore di comunicazione.

Ruben Östlund fa a pezzi l’illusione informatica, mostrando che Smartphone, Social Network, posta elettronica, spacciati come strumenti per migliorare la comunicazione, la ostacolano, generando guai, fraintendimenti, violenze inutili. Dunque le sbandierate potenzialità di scambio di informazioni offerte dalla contemporaneità sono in realtà la nuova chimera.

Alla fine un impotente Christian deve dimettersi (ma non riesce a fare neppure quello) dal prestigioso incarico proprio per l’incapacità di comunicare e, in ultima istanza, di vivere degnamente, come lui stesso ammette. L’unica risorsa positiva sembra essere, in definitiva, proprio il senso di colpa, che tormenta il protagonista spingendolo ad interrogarsi sulle colpe reali del “Capro espiatorio”, un surreale bambino salvifico che pretende le scuse, l’aiuto, la resurrezione.

Alla fine il tema della colpa e della comunicazione conducono alle domande sull’identità dell’uomo, sulla paternità (il destino del seme), sul significato dell’arte.

La deviazione dal percorso, lo smarrimento dell’identità, l’oscuramento della ragione non sono accidentali, ma normale destino dell’anima umana, che si illude di controllare i Titani, ma ne è in realtà dominata, come ammoniva già un certo Alfred Hitchock (Psycho, 1960), il maestro dell’inquietudine.

Il personaggio Norman Bates in Psycho.

Caro formatore, non credo che “The square” sia un film utilizzabile a scopi didattici, quanto un testo che ci ricorda quanto siano potenti le forze psichiche primordiali; in ogni riunione, per quanto frequentata da persone civili ed incravattate, le paure, la volontà di dominare i più deboli, i pregiudizi, possono irrompere in ogni momento con tutto il loro carico di violenza. Anche quando sei di fronte alla buona società, anche quando sei supportato da tranquillizzanti “slides”, preparati ad affrontare le forze che abbiamo dimenticato fuori, ma che sono pronte a trasformare l’aula in un’arena catartica, dove potresti essere tu a finire in pezzi…

Luigi Rigolio

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