Nella sua quasi quarantennale carriera, Valeria Golino ha dimostrato sin dagli esordi di essere una brava attrice, capace di dare corpo a personaggi femminili di raro magnetismo, e non solo per la bellezza mediterranea. In particolar modo è interessante la parabola femminina che va da Storia d’amore (1986) a Per amor vostro (2015), in cui ha creato una serie di ritratti femminili dolenti e intensi.
Se si volesse tracciare un rapidissimo schizzo descrittivo di Valeria Golino, si potrebbe utilizzare la vetusta esclamazione: “bella e brava”. Nel suo caso, però, la bravura va necessariamente anteposta alla bellezza, non perché non sia una donna affascinante, ma poiché il suo seducente magnetismo si manifesta per alcune appassionate e sofferenti figure femminili a cui ha dato corpo e anima.
Nata a Napoli il 22 ottobre 1965 da una famiglia di particolare lignaggio culturale (padre germanista italiano e madre pittrice greca), ha cominciato la carriera come modella per poi esordire nel cinema, appena diciassettenne, in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983) di Lina Wertmüller, dove interpretava l’adolescente Adalgisa, figlia dei coniugi borghesi De Andreiis (Ugo Tognazzi e Piera Degli Esposti). Già con le due pellicole a seguire la Golino si palesò come un’ottima attrice, capace di dare rilievo ai personaggi che gli venivano affidati. Nella fiaba “nera” Piccoli fuochi (1985) di Peter Del Monte, nella quale vestiva – e svestiva – i panni della giovanissima e bellissima Mara, figurazione carnale di una “fata” che doveva accudire al piccolo Tommaso, vinse il Globo d’oro come Miglior attrice rivelazione.
Nel drammone Figlio mio, infinitamente caro… (1985) di Valentino Orsini, in cui ricopriva il difficile ruolo della giovane junkie Francesca, fu candidata al Golden Ciak come Miglior attrice non protagonista. Questa sua spiccata bravura – oltre alla bellezza mediterranea e all’ottimo inglese – le permise appena ventenne di poter lavorare in America. Purtroppo questa lunga parentesi hollywoodiana, fruttuosa ma a conti fatti poco convincente a livello qualitativo, le ha concesso rarissime figure femminili consistenti e sfaccettate.
Benché sia stata capace di dimostrare di sapersi inserire in quel sistema e di essere un’attrice duttile, valicando differenti generi, quello che premeva al cinema industriale americano era soprattutto il suo fascino italiano, per cercare di creare una nuova diva da lanciare. Di quel periodo americano, i pochi ruoli veramente efficaci sono stati pochissimi: la bella ma diligente Susanna in Rain Man (Rain Man – L’uomo della pioggia, 1988) di Barry Levinson e con Dustin Hoffman e Tom Cruise; la coraggiosa Maria in The Indian Runner (Lupo solitario, 1991) di Sean Penn; oppure la malata terminale omosessuale Lilly nell’episodio “Goodnight Lilly, Goodnight Christine” della pellicola Things You Can Tell Just by Looking at Her (Le cose che so di lei, 2000) di Rodrigo Garcia. L’aspetto più interessante da notare, di questa fase internazionale, però, è come la Golino fosse rimasta umile e abbia proseguito la sua carriera italiana recitando in ruoli meno glamour, partecipando a pellicole indipendenti o bizzarre, come ad esempio testimonia il bislacco Escordiandoli (1996) di Antonio Rezza.
La sua quasi quarantennale carriera – ancora a pieno regime – s’illumina maggiormente per aver dato corpo e afflato ad alcune figure femminili di basso profilo, afflitte da problemi quotidiani e mosse visceralmente da impeti d’amore sofferti. Questi peculiari aspetti potrebbero essere racchiusi tra due poli interpretativi che ce la mostrano a distanza di trent’anni, e che le hanno consentito di vincere la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. La prima la ottenne nel 1986 per Storia d’amore di Citto Maselli, e la seconda nel 2015 con Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino.
Bruna Assecondati e Anna Ruotolo, le due figure femminili di suddetti film, hanno differenti età e vivono in due città differenti, ma ambedue sono di estrazione popolare e cercano una loro emancipazione dal mondo che le circonda e le reprime. Prendendo come lampante esempio Per amor vostro, la protagonista Anna viene raffigurata, in un paio di elaborati freeze frames iconografici, come una beata, e in alcuni personaggi interpretati dalla Golino dentro questi due poli interpretativi si può rinvenire questo segno di martirio quotidiano in cui queste figure femminili sono invischiate, e da cui cercano il riscatto attraverso una tortuosa via Crucis.
Non tutte sono riuscite a spuntarla, perché a volte l’unica catarsi possibile è la propria morte. Senza analizzare ogni sua singola interpretazione, essendo il suo curriculum composto di oltre cento pellicole, ci si soffermerà solo su alcune incarnazioni femminili, cioè quelle in cui il personaggio è una “Santa guerriera” rispetto al quotidiano che la circonda. Con Storia d’amore, ritorno alla regia cinematografica di Citto Maselli dopo ben undici anni (Il sospetto fu realizzato nel 1975), Valeria Golino dava corpo al primo personaggio femminile da beatificare. Ancora giovanissima, ma già capace di dare piccole sfumature al suo personaggio, benché qualche critico abbia reputato la sua recitazione manieristica. Bruna Assecondati, giovane proletaria nata e cresciuta in un residuo di borgata romana, anche se vive in una situazione dura (la sua transvolata quotidiana fino al posto di lavoro), è un personaggio vivace e combattente.
Si potrebbe benissimo definire un’eroina del suo ceto, che non cerca un vero riscatto sociale, ma semplicemente vivere una storia d’amore in modo libero. Il tenero amore verso Sergio nasce da motivi quasi adolescenziali, essendo la sua prima relazione (nella prima scena d’amore i due sembrano quasi che delicatamente studiano i propri corpi), mentre la relazione con Mario scaturisce da un’improvvisa passione (Mario gli appare come un’immaginifica scultura romana). La paladina Mara, che ha sempre lottato (per giungere al posto di lavoro, per avere la sua libertà sessuale e per avere il suo spazio abitativo), mossa dalle più sincere azioni affettive (amore/amicizia) cerca di creare la sua famiglia ideale con Sergio e Mario. Un triangolo che pare funzionare, solo che alla fine Bruna si rende conto che non può vivere la sua ideale storia d’amore (probabilmente rovinata dalla subdola mossa attuata da Sergio).
Bruna, benché sia stata sempre una ragazza risoluta e intraprendente, dopo questa via Crucis che sembrava sfociare in un Happy End, schiacciata dalla realtà, decide di fare come il piccolo Edmund di Germania anno zero (1947) di Roberto Rossellini, e quasi come un gioco si suicida. È in quest’ultima sequenza, in cui la Golino recita muta, che la passione e la sofferenza si palesano attraverso le espressioni del suo volto. Dieci anni dopo questo tragico personaggio, nel 1997 è co-protagonista in Le acrobate di Silvio Soldini. La pellicola era la chiusa della “Trilogia delle fughe”, o definita anche come “Trilogia delle tre A” (gli altri due tasselli erano L’aria serena dell’Ovest, del 1990, e Un’anima divisa in due, del 1993). Il film è una storia di donne, ed è divisa in 4 “capitoli”, i cui titoli hanno il nome di ogni personaggio.
La Golino vi tratteggia la figura di una donna/moglie del Sud schiacciata da una vita incolore e insoddisfacente. Il rapporto con il marito è ormai stridente, e la relazione con la piccola figlia Teresa è difficile. La sua Maria, caparbia nel rimanere a galla, non vive un vero e proprio calvario, ma è fragile e insicura nel prendere ferme decisioni che potrebbero migliorargli la vita. Il suo profondo e passionale amore è solo verso Teresa, che cerca di capire e proteggere, mentre con il marito è solo amore carnale. Maria solo alla fine, spinta dalla casuale conoscenza con Elena (Licia Maglietta), donna risoluta del Nord, riuscirà a fuggire (quasi sinonimo di purificazione) da questa situazione senza sbocchi, benché non sappia (e noi con lei) cosa accadrà dopo.
La perfetta aderenza della Golino a una figura femminile quotidiana, si può vedere nel momento in cui mentre apre la cartellina con la lettera e il dentino della piccola Teresa, un foglietto schizza via improvvisamente, e lei con un gesto totalmente naturale esprime la rabbia di questo inconveniente scenico. Con Le acrobate la Golino vinse la Grolla d’Oro come Miglior attrice. Del 1998, invece, è L’albero delle pere di Francesca Archibugi. Con questa pellicola la regista romana ritraeva, dopo Il grande cocomero (1993) un altro adolescente che vive una situazione familiare difficile nei quartieri romani periferici. Valeria Golino interpreta Francesca, la madre tossicodipendente di Siddharta (Nicolò Senni). Benché abbia un ruolo secondario, l’attrice partenopea riesce a dare comunque spessore e pathos al personaggio, senza eccedere in una recitazione manierista di una tossicodipendente. La fragilità di questa donna, in una certa maniera rimasta adolescente, si manifesta perfettamente in due momenti distinti: nel video realizzato dall’ex compagno Massimo (Sergio Rubini), in cui la sua fragilità e vergogna si palesano con un grondante pianto da infante; e successivamente nel momento in cui il variegato nucleo famigliare è riunito nella piccola cucina della sua casa. Quando i due uomini non sanno confermarle quando torneranno nella serata, sul suo volto trapela tutta la sua solitudine e la sua insicurezza. Un momento, questo, che rievoca la gracilità di Bruna nel finale di Storia d’amore.
Il personaggio di Francesca vive una sofferenza creata solamente da lei, che ha perseguito quello stile di vita dannoso da hippy fuori tempo, come proprio gli rimprovera l’ex compagno Massimo. La “catarsi”, che sarà più utile a Siddharta che a lei, avviene con l’incidente mortale in macchina, avvenuto per colpa sua perché era sotto effetto della droga. Come scritto antecedentemente, durante il periodo americano l’affresco femminino Le cose che so di lei di Rodrigo Garcia è una delle pellicole più interessanti a cui ha preso parte, e che si riallaccia bene ai ruoli di donne comuni che ha interpretato in Italia. In questa pellicola la Golino interpreta il difficile e rischioso ruolo di Lilly, una malata terminale omosessuale che condivide con la sua fidanzata gli ultimi momenti di vita. Certamente è un pezzo costruito a tavolino, per commuovere, ma la bravura dell’attrice italiana è quella di non cadere negli usuali cliché recitativi proni a tale facile commozione (in questo caso doppio: omosessualità e sieropositività), riuscendo a dare corpo a un personaggio che sa trasmettere delle vere emozioni.
La “beata” Lilly sta patendo l’ultima tranche della sua sofferenza, e l’unico sollievo gli viene dall’amore della sua compagna Christine (Calista Flockhart). È nel medesimo anno, però, che Valeria Golino interpretò uno dei ritratti femminili fondamentali della sua carriera, cioè la “bestia selvaggia” Grazia in Respiro (2002) di Emanuele Crialese. Grazia è un personaggio irrequieto, un animale selvaggio (o randagio come il branco di cani che si vedono nella pellicola) confinata in un’isola del Sud tanto solare e naturale quanto chiusa e negletta. La vitalità, il magnetismo e la diversità di Grazia appaiono improvvisamente con forza attraverso la canzone “La bambola” di Patty Pravo, che sta ascoltando con un giradischi portatile. Oltre che donna nel pieno del suo splendore fisico, è anche una madre amorevole – a suo modo – verso i tre figli. Il suo stato psichico, soprattutto quando ha sbalzi di vivace umore, mette sempre in disquilibrio la vita famigliare, e si scontra con la visione materiale del marito (pescatore) e della sua famiglia.
Grazia è uno spirito libero, quasi un soggetto straniero precipitato in un mondo “preistorico”, e che vagamente ricorda la Karin di Stromboli terra di Dio di Rossellini. Il suo travaglio in Respiro si rivela doppio: per lei che si sente soffocare in questa isola sperduta, e per la sua famiglia, che deve sempre stare attenta alle sue improvvise smanie (ad esempio la gita con i due francesi). La catarsi finale, che purifica lei e tutti gli isolani, avviene nel fondo del mare, in una sequenza simile a quella de L’atalante (1934) di Jean Vigo. Per questo intenso e passionale ruolo, la Golino vinse il Nastro d’Argento come Migliore attrice protagonista.
Un altro tassello fondamentale nel curriculum della Golino è stato il dramma sociale La guerra di Mario (2005) di Antonio Capuano, in cui l’attrice interpretava Giulia, la madre adottiva di Mario. Il piccolo Mario, che proviene da una famiglia disastrata della periferia di Napoli, andando a vivere in questo nuovo nucleo familiare si ritrova catapultato in un mondo migliore (borghese), ma in cui non riuscirà a conseguire una benefica maturazione. Giulia è una madre affettuosa, apprensiva e di mentalità liberale, ma non è capace di capire il profondo dramma di Mario e la società (Napoli) che la circonda. Attenta e brava nell’analizzare metodicamente le opere artistiche, insegnandole con passione ai propri studenti, è però incapace di captare e spiegare/spiegarsi i reali problemi che la circondano. In poche parole è una “dilettante” che elargisce un amore sbagliato e viziato a Mario, comprandogli ogni cosa che lui chiede, rivelandosi un atteggiamento simile a quello del personaggio di Mamma Roma nell’omonimo film di Pier Paolo Pasolini, che educava Ettore in modo equivocato.
Questa spasmodica attenzione errata verso Mario rovina anche la sua relazione con il compagno Sandro (Andrea Renzi), che ha una visione molto più razionale di lei, proprio come era quella del prete di Mamma Roma. A differenza del piccolo Mario, Giulia non ha subito un calvario sociale, essendo di estrazione borghese, quindi questa potrebbe essere una scusante. Alla fine non ci sarà, almeno per lei, nemmeno una redenzione/maturazione, perché gli verrà semplicemente (razionalmente) tolto Mario dall’affidamento. Anche per questa figura femminile la Golino guadagnò un altro premio: il David di Donatello come Miglior attrice protagonista. Qualche anno più tardi la Golino interpretò un’altra Giulia, questa volta di estrazione popolare differente e nel pieno del suo calvario. In Giulia non esce la sera (2009) di Giuseppe Piccioni, la Giulia del titolo, che cominciamo a conoscere attraverso gli occhi di Guido Montani (Valerio Mastandrea), è una donna con un passato macchiato di sangue per un delitto passionale. Lavora di giorno facendo l’istitutrice di nuoto, e la sera non può uscire perché è una carcerata in semi-libertà. Giulia cerca di mantenere le distanze con il mondo esterno che la circonda per non cadere nuovamente in “tentazione”.
Quando sembra aver trovato in Guido una “guida” e un riscatto per il suo passato (l’aver abbandonato il marito e la figlia per l’amante che poi aveva ucciso), il rifiuto della figlia a relazionarsi di nuovo con lei, la getta nel più profondo sconforto. La purificazione finale colpisce ambedue, ma in modo differente: per Guido, che conoscendola l’aveva vista come una “Santa”, sarà di maturazione; mentre per Giulia, che ha optato per il suicidio non sapendo come pagare il suo debito affettivo con la figlia, questo sarà il martirio da pagare per la sua carnale colpa.
Il carcere – e il suicidio – fanno da ponte con la pellicola Come il vento (2013) di Marco Simon Puccioni. In questa pellicola la Golino, dopo aver interpretato figure femminili fittizie che attingevano dalla realtà, dovette affrontare un personaggio realmente esistito, cioè Armida Miserere (1956-2003), funzionaria dello Stato italiano che fu direttrice di differenti carceri. Armida è una donna forte non solo per il ruolo istituzionale che deve ricoprire, ma anche per i duri colpi che ha ricevuto nella vita privata (la violenta morte del marito, la perdita del nascituro, le delusioni amorose ecc.). È una donna risoluta ma divenuta lentamente vulnerabile dai tragici fatti che l’hanno fiaccata, e alla fine della sua via crucis, come lei stessa confessa nella lettera d’addio, attua l’insano gesto di suicidarsi, non potendo più affrontare questo dolore che l’attanaglia. In questo biopic, con tempi e umori da fiction televisiva, la vera forza è la Golino, che ha reso ottimamente omaggio a la Miserere.
Infine, il fiammeggiante melodramma Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino ha segnato in qualche modo il punto di approdo dei ruoli precedenti, in cui le varie sfaccettature hanno creato un solo personaggio femminile. Anna, nella triplice rappresentazione di donna-moglie-madre, s’incontra in un viluppo di passione e dolore. Sullo sfondo di una Napoli proletaria, affetta dagli usuali problemi sociali e criminali, si ergono i conflitti quotidiani della protagonista. Come moglie, Anna deve lottare contro il manesco marito usuraio, che mette disordine in famiglia, oltre a screditarla agli occhi della gente. Come madre, si ritrova a gestire tre figli nel pieno dell’adolescenza (soprattutto le due ragazze), e deve accudire maggiormente al figlio sordomuto Arturo. Come donna, inizialmente si sente rifiorire quando l’affascinante attore di fiction Michele Migliaccio comincia a corteggiarla, per poi alla fine scoprire che era stato solo un inganno, perché lui aveva contratto un debito con il marito.
Nel momento in cui loro due sono vicino a una scarpata e Michele deve ucciderla, Anna ricorda la stessa situazione di delusione in cui si ritrova la trasognante Cabiria in Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini. Tutto questo calvario che deve affrontare quotidianamente, Anna lo accetta come una Santa solo per amore dei propri figli. Mentre Bruna di Storia d’amore, stanca del martirio che ha subito, si uccide, la catarsi di Anna, che tenta il suicidio dal cornicione del terrazzo del proprio palazzo, termina miracolosamente perché si salva, e così potrà – forse – risolvere i problemi che la opprimono e affrontare la vita con altro spirito.
Roberto Baldassarre
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