Road to Halloween “Film-o’-(magic)Lantern”: consigli per la visione (pt.1)

“Grieved, she recounts how, by mischance,

Puir pussy’s forced a’ night to prance

Wi’ fairies, wha in thousands dance

Upon the green,

Or sail wi’ witches over to France

At Hallowe’en“

 

John Mayne,Hallowe’en (1780)

 

“La notte delle streghe” (1978) si avvicina; no, tranquilli, il vostro giugulare è al sicuro, Michael Myers è ancora rinchiuso nel manicomio di Smith’s Grove – almeno fino al prossimo 25 ottobre, quando in Italia uscirà in sala l’ultimo capitolo della saga dedicata ai massacri dell’UomoNero (“Halloween” di David Gordon Green) -, ad appressarsi, invece, è la ricorrenza celtica più diffusa al mondo, Halloween.

Per trascorrere un “Tranquillo weekend di paura” (1972) – visto il lungo “ponte” che si prospetta per la “festa dei morti” -, ecco a voi una breve lista di quattro film dell’orrore – “rigorose” scelte  di gusto (il mio) -, per spaventarsi e divertirsi in compagnia… o da soli, per i più coraggiosi.

Chiudete il libro di Mayne e spaparanzatevi sul divano; affondate una mano nei pop-corn e allo scoccar della mezzanotte – del 31 ottobre s’intende, ovviamente – schiacciate play.
Scary Halloween!

 

Al lettore (im)paziente…

 

Ogni elenco (cinematografico) che si rispetti non può che iniziare con un lungometraggio d’antan, una vecchia pellicola, con cui un recensore ostenta le proprie conoscenze – enciclopediche, senza dubbio. Ahimè, anch’io non posso sottrarmi… “Oh, vanità dell’arte!. Le abitudini (critiche) sono dure a morire, “trappole di cristallo” (1988):  senza accorgercene, siamo già stati catturati.

 

  • The Wicker ManL’uomo di vimini di Robin Hardy, GBR, 1973

 

Tantum religio potuit suadere malorum”

Lucrezio, De rerum natura

 

Un mostro (sacro) del brivido, Christopher Lee – da “Dracula il vampiro” (1958) a “La maschera di Frankenstein” (1957), entrambi diretti da Terence Fisher, “maestranza” gotica al servizio della Hammer Film-, un totem dell’horror, dicevo, per un classico del genere.
Rowan Morrison è scomparsa da una remota isola delle Ebridi. Dalla terra ferma, il sergente Howie si mette sulle tracce della bambina, ma la comunità locale, guidata dall’eccentrico Lord Summerisle (Christopher Lee, appunto), non sembra voler collaborare. Che cosa provoca la loro diffidenza? Potrebbero essere le misteriose usanze pagane del villaggio? Oppure i baccanali orgiastici sulla spiaggia? O è forse il sacrificio programmato per Calendimaggio? Questa volta, però, l’olocausto di un agnello non sarà sufficiente a placare l’ira degli dei, perché solamente il sangue umano potrà benedire l’imminente festa del raccolto.

Qualche granello di polvere – vezzi di un cinema d’altri tempi (l’invadente colonna sonora) – non può offuscare il fascino del film di Robin Hardy. In un paesaggio mozzafiato – gli arcipelaghi scozzesi -, si scontrano due filosofie di vita: il puritanesimo bacchettone della Gran Bretagna anni ’70 e la sensualità sfrenata di una società (segreta) estranea ai costumi dell’epoca – incarnazione sfacciata della liberazione sessuale dei figli dei Beatles e degli Stones. Atmosfere suggestive – tra capanne di pescatori e stornelli triviali -, humour britannico e un finale “incandescente”; una carnevalata alla Ensor – “Skeletons Fighting for The Body of a Hanged Man”(1891) – che mette a confronto cristianesimo e paganesimo celtico, sacrificio rituale – di Rowan, vittima (per nulla) innocente – e martirio per la fede – di Howie, cavaliere di Cristo costretto a subire il supplizio degli antichi Galli -, “dando alle fiamme” le contraddizioni insite in ogni religione.

 

  • The Blair Witch ProjectIl mistero della strega di Blair di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, USA, 1999

 

“The content of this painting is invisible; the character and dimension of the content are to be kept permanently secret, known only to the artist”

 

Mel Ramsden, Secret Painting

 

Secret Painting di Mel Ramsden

Caposaldo del found-footage horror – in grado di stabilirne le regole a quasi vent’anni dalla nascita (“Cannibal Holocaustdi” Ruggero Deodato, 1980). “Progetto” ambizioso e raro esemplare di trans-media storytelling: un immenso apparato paratestuale – dalle interviste a finti detective ai missing poster affissi sulle bacheche del campus universitario frequentato dai tre attori protagonisti -, un vasto corpus extra-diegetico quindi, che, durante la primissima proiezione del film, convertì l’impressione di realtà in illusione collettiva, persuadendo il pubblico in sala della veridicità degli eventi raccontati – il treno dei fratelli Lumiere è di nuovo in stazioneUna geniale trovata di marketing che celebrò il matrimonio tra una minuscola produzione indipendente e gli incassi multimilionari di un blockbuster.

 

Alla ricerca di prove sull’esistenza della strega di Blair, una troupe amatoriale di documentaristi si perde nei boschi del Maryland. Tutto qui, nient’altro.

Una pellicola “cieca” – le sequenze notturne sono illuminate approssimativamente, frammentando la percezione dei fatti -, “ieratica” – nella ripetizione ciclica dell’azione (il vagabondaggio dei
personaggi) -, “ipnotica” –  dove sussurri, pianti e urla compongono una litania sonora che acuisce la tensione. Non solo, come in una “tela nera”, il visibile è annullato, eppure ciò non significa arrendersi all’insensato ma spalancare la porta dell’immaginazione. Così, mentre l’angoscia si autoalimenta, è possibile accorgersi delle somiglianze tra TBWP e il “Secret Painting” di Ramsden (di cui il primo sembra la trasposizione cinematografica). Infatti, l’opera dell’artista britannico – un quadro totalmente nero, affiancato dalle parole riportate nell’esergo- da una parte relega sullo sfondo la figura dello spettatore, ma dall’altra gli conferisce un potere inaudito, quello dell’interpretazione libera, un’attività creatrice il cui unico vincolo è la fantasia

Spente le luci, l’incipit del mockumemnteary ci ricorda che: “Nell’ottobre del 1994 tre studenti videoamatori scomparvero in un bosco nei pressi di Burkittsville, mentre stavano girando un documentario. Un anno dopo fu ritrovato il loro filmato”… bene, «adesso è il vostro turno», pare sfidarci il film, «siete voi gli sceneggiatori, scrivete la storia, inventate il resto: il limite sono i vostri incubi».

 

Alessio Romagnoli

 

Lake Mungo, un mockumentary horror sull’elaborazione del lutto (e dell’immagini)

2005, Ararat (Australia).
Improvvisamente mancata all’affetto dei suoi cari all’età di sedici anni,
Alice Palmer.
Ne danno doloroso annuncio i genitori Russell e June, e il fratello Mathew.

2008. A tre di distanza, la famiglia Palmer rivive il lutto davanti all’obiettivo di una macchina da presa.
Con voce tremante e occhi lucidi, raccontano la loro storia, quella di oscure presenze che, dal giorno dell’annegamento della figlia, infestano la casa; la ricerca, con l’aiuto di un medium locale, delle reali cause della morte di Alice; la tragica scoperta di un destino già segnato. Passo dopo passo, immagine dopo immagine, nello sgranato 35mm che ricostruisce l’intera vicenda.

Il mockumentary utilizza il linguaggio specifico del documentario per presentare eventi finzionali come fossero reali. La definizione è importante, se, come spesso accade, si confonde questo sotto-genere con il suo sosia: il foundfootage. In ambito horror – quello che con maggior disinvoltura ha sfruttato tali tecniche -,  “Behind the Mask – Vita di un serial killer” di Scott Glosserman (2006) è un ottimo esempio di falso documentario, al contrario di un film come ParanormalActivity di Oren Peli (2007), totem del “metraggio ritrovato” – letteralmente: le pellicole in questione, infatti, sono da considerarsi come rinvenimenti (diegetici, naturalmente) di filmati amatoriali. Dettagli, penserete, certo, ma è la critica a vivere di dettagli.

Un’immagine tratta dal film

In tal senso, “LakeMungo” (dal “lontano” 2008) incarna alla perfezione il modello documentaristico: interviste, inserti di (presunto) materiale d’archivio, ricostruzione dei fatti. Ma è soltanto l’aspetto formale, perché sotto la scorza del realismo d’inchiesta batte un cuore di tenebra: “l’(h)orrore”…

Una claustrofobia ghoststory –già dai titoli di testa, spettri fotografici -, con un intreccio mystery alla “TwinPeaks” (di David Lynch, 1990-1991) – il paesino del bush ritratto come un covo di vipere e l’innocente ragazza con un un lato oscuro (Alice/Laura Palmer).

La tensione è palpabile, l’angoscia strisciante; l’inquietudine raggela il sangue e penetra nel paesaggio – “WolfCreek” di Greg McLean (2005) -, deformandolo – il desertico lago Mungo, un cratere marziano. Un’opera disturbante, che affronta un tema delicato, l’elaborazione del lutto, senza alcuna retorica. Superare la perdita è possibile, anche se complicato: come fa Mathew, manipolando la realtà per serbare il ricordo di Alice, o June, evocando lo spirito della figlia con l’aiuto di un medium.
E come se non bastasse, Joel Anderson (il regista) impreziosisce il proprio lavoro con una riflessione metatestuale. Nei video e nelle foto di Mathew, infatti, fotogramma dopo fotogramma, lo statuto ontologico delle immagini viene messo in discussione, rilanciando la posta in gioco – la morte di Alice -; fino ai titoli di coda, che conferiscono alla storia un significato ulteriore – o forse lo compiono, come in “Moonrise KingdomUna fuga d’amore” di Wes Anderson (2012). Ogni fotografia è un’illusione, un fantasma: tracce di ciò che un tempo esisteva e che adesso è svanito. Menzogne, spettri. Ombre della verità, come nel mockumentary, come nella vita.

 

Alessio Romagnoli

What We Do in the Shadows – Vita da vampiro: per un nuovo immaginario vampiresco

Viago, Vladislav, Petyr e Deacon sono vampiri. Insieme, condividono una grande casa polverosa alla periferia di Wellington (Nuova Zelanda), dove i loro giorni si trascinano identici ai secoli andati della trasformazione in non morti. Nonostante Deacon non lavi i patti da cinque anni e Petyr si astenga dalle faccende quotidiane sonnecchiando in un sepolcro di pietra in cantina, convivono in armonia. Durante un banchetto, però, la portata principale, lo studente universitario Nick, viene tramutata per sbaglio in uno strigoi. Dal quel momento iniziano i guai per i coinquilini infernali, costretti loro malgrado a fare i conti con gli usi e i costumi del nuovo millennio.

Sono trascorsi ormai quattro anni da quando “What We Do in the Shadows – Vita da vampiro” (2014) ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al Torino Film Festival. Quattro anni in cui l’immaginario cinematografico vampiresco – Underworld – Blood Wars di Anna Foerster (2016) -, così come nei quarant’anni precedenti (e ancora più indietro, fino agli albori della settima arte stessa), è rimasto immutato; quattro anni, tuttavia, in cui il regista Taika Waititi – qui coadiuvato dall’amico di lunga data Jemaine Clement – ha cambiato pelle, passando da star locale – Boy(2010), film campione d’incassi in Nuova Zelanda – ad autore hollywoodiano di grido – grazie alla sceneggiatura di “Oceania” (2016) e alla regia di “Thor: Ragnarok” (2017).
Raffinati dandy in cerca d’amore e potere – si veda il “Dracula di Bram Stoker” di Francis Ford Coppola (1992), a cui il personaggio di Vladislav, l’impalatore sconfitto dalla “Bestia”, fa chiaro riferimento -; giovani belli e dannati tormentati da dilemmi morali – come nella saga di “Twilight” (2008-2012) -; incarnazione del Male assoluto alla ricerca di vergini da dissanguare – il “Nosferatu” di Murnau (1922), a cui è ispirato un altro personaggio della pellicola, Petyr, un novello Max Schreck, con la fronte sporgente e i denti aguzzi (e quell’abulia esistenziale che non può che ricordare l’omonimo herzoghiano del (1979) -: i vampiri di celluloide sono foggiati su questi e pochi altri modelli. L’opera di Waititi, al contrario, ha il merito di ripensare la figura del principe della notte, riuscendo a rianimare un corpo “morto”, privo, cioè, di spunti originali.

Il cast del film , il primo a destra è Jemaine Clement

Sfruttando la tecnica del mockumentary, il lungometraggio vira sui toni leggeri della commedia. Pur preservando il milieu tradizionale – interni fatiscenti (alla Edgar Allan Poe), abbigliamento eccessivo, canini esposti -, il cineasta neozelandese riesce comunque a rielaborare l’immagine del vampiro, impiegando l’ironia per mettere in scena una combriccola di succhiasangue alle prese con le difficoltà dell’era Skype. Un gruppo d’amici sfigati cacciati dai locali alla moda – quanto siamo lontani dal glamour di “True Blood” ! -; imbranati informatici – le sequenze al computer – in una periferia squallida e ai confini del mondo, il cui unico passatempo è importunare garbati lupi mannari.
Giovani aspetti, anime antiche, “vecchi” amori mortali – Viago e la sua bella novantenne – e digitaldivide, “What We Do in the Shadows” è questo e molto altro ancora: una parodia degli abitanti della notte che azzanna al collo i vampire movie, iniettando sangue fresco in un immaginario anemico.

Alessio Romagnoli

Suspiria (di Guadagnino)

Il remake di “Suspiria” è l’ultimo film di Guadagnino ed è diviso in sei atti più un epilogo. Una una ragazza (Dakota Johnson) appartenente ad una comunità Amish dell’Ohio emigra nella Berlino Est degli anni 70 per coronare il suo sogno di essere ammessa in un collettivo di danza contemporanea, che si rivelerà essere in realtà un pericoloso gineceo dedito ad arti occulte. Tutto intorno intanto il male nel mondo prende le forme più prosaiche del terrorismo di quegli anni, incarnati dalla banda Baader-Meinhof e gli strascichi dell’orrore nazista con le sue persecuzioni ed i campi di sterminio.

Il ballo è da sempre l’elemento scatenante dell’istintualità umana più basica e quindi è opportuno veicolo di liberazione ma anche di trasgressione e per questo una scuola di danza risulta un corretto alveo dove riambientare il rito ctonio di arcaici ed oscuri poteri. Fuori dalla scuola, grigia e fredda, c’è una Berlino perennemente percossa da una pioggia battente quasi ne dovesse dilavare gli imperdonabili peccati del trascroso hitleriano, che negli anni settanta era ancora recente. Le inquadrature, la fotografia, i costumi, la scenografia insomma tutta la parte tecnica è sapiente ed ineccepibile. Impeccabile è anche la recitazione di Tilda Swinton, una della insegnanti della scuola e capo di una delle fazioni in cui il collettivo è diviso. Adeguata è anche la prova dei rimanenti attori del cast (anche se dopo questo film si è capito che il talento principale di Dakota Johnson, più della recitazione e senz’altro più del ballo, è quello di essere nata dopo suo padre Don Johnson). Eppure qualcosa non va, c’è un incantesimo fin troppo visibile che rovina il film, questo come molti altri, e che è imputabile alla scrittura.

Tilda Swinton

Premesso che una volta sospesa l’incredulità quel tanto per ammettere una fuga al contrario dagli USA alla Germania dell’est, anche le streghe e tutto ciò che ne consegue risulta plausibile, bisogna essere amanti della danza contemporanea, spesso piuttosto ermetica e che permea abbondanti porzioni della proiezione, per affrontare le due ore e trentadue minuti del film. I più fortunati sono gli attori che vengono tolti di mezzo prima della fine del film, soprattutto quelli che se ne vanno prima del quarto atto, quando tutto si ingarbuglia irrimediabilmente, la narrazione perde di focus e direzione e ci si rende conto che Amazon Studios ha immense fonti finanziarie, ma queste non bastano a fare un buon film. Per fortuna non ha niente a che vedere con il “Suspiria” di Dario Argento e se ne rallegrino , oltre al celebre decano dell’horror, anche gli appassionati del genere.

Dakota Johnson (al centro)

C’è un eccessivo compiacimento delle coreografie di danza che ad un certo punto prendono il sopravvento sulla storia senza che abbiano alcun costrutto a beneficio del racconto. Durante un paio di scene, talmente fuori contesto e naif, si scatena in sala un’ilarità non voluta che genera un certo imbarazzo. All’interno della trama è poi inserito un film nel film, una storia d’amore sullo sfondo dell’olocausto che guadagnino sembra voler contrabbandare all’insaputa della produzione. Un tema al quale dedica l’intero epilogo e addirittura l’immagine finale del film, come a dichiarare quali fossero le sue vere intenzioni: fare un film sulla danza e gli strascichi dell’olocausto. E’ un epilogo con un tardivo “spiegone” che non fa chiarezza sulla confusa genesi della setta e che serve forse a scusarsi con il pubblico ma soprattutto con Dario Argento.

Minnesota Fez

The End? – L’inferno fuori: la fine dell’horror all’italiana?

È un giorno cruciale per Claudio. Il giorno della fusione, mancano solo le firme. Uscito di casa, raggiunge l’ufficio. In ascensore, però, rimane bloccato. Tra il sesto e il settimo paino, resta in attesa; ha fretta, ha un affare importante da concludere. Nervoso, riceve una chiamata dalla moglie: la città è impazzita, gli dice, le persone fanno cose strane, una giornalista è stata appena aggredita in diretta tv. Non è niente, vedrai, la tranquillizza l’uomo, andrà tutto bene… ma si sbaglia.
Mentre “fuori” un’apocalisse batteriologica ha trasformato la popolazione della Capitale in morti viventi, “dentro”, nell’ascensore, Claudio deve affrontare l’inferno, resistere all’assedio dei colleghi affamati della sua carne. Riuscirà a sopravvivere o sarà la (sua) fine?

È evidente ormai, il cinema italiano soffre d’una bizzarra amnesia selettiva: due interi decenni di film dell’orrore sembrano essere stati cancellati. Le opere di Dario Argento, di Mario Bava ma anche quelle “minori” di Ruggero Deodato, Lucio Fulci, Antonio Margheriti, tutte dimenticate. Non c’è memoria dei grandi autori di genere degli anni 60’ e ’70, dei rappresentanti di una cinematografia “spaventosa” che, oggi, trova posto soltanto nelle collezioni private dei cinefili più “Trauma-tizzati”. Artisti geniali che all’estero (negli Stati Uniti specialmente), al contrario, da anni, vivono una seconda giovinezza, riscoperti e omaggiati da registi di culto – da Sam Raimi a Quentin Tarantino.
Una ricca tradizione da cui attingere, quindi, ma nessun epigono capace di afferrare il testimone, di unirsi a questa “Danza macabra”.

Alessandro Roja

“The End? – L’inferno fuori”, ultima fatica di Daniele Misischia, è esemplare in tal senso. Zombie movie privo di “vita”, il lungometraggio restringe lo spazio d’azione ad un singolo ambiente, un ascensore – “Devil” di John Erick Dowdle e Drew Dowdle (2010) -, luogo di prigionia del protagonista – un Alessandro Roja inadatto al ruolo. Un racconto di reclusione, con l’inferno fuori (campo) ma il gelo dentro (lo spettatore). Un film noioso, ripetitivo, ormai scontato per le generazioni post-Walking dead – Claudio e l’uccisione del poliziotto-zombie -; un film che come molti altri – “Il ragazzo invisibile” di Gabriele Salvatores (2014) –finge di non comprendere come ogni storia di genere, per funzionare – qui l’horror, là il superhero movie–, debba nutrirsi dell’humus socio-culturale del paese in cui è stata scritta – un litro di latte, un litro di latte!


Non solo, il promettente spunto iniziale dello shut in avrebbe richiesto una regia più coraggiosa, scelte stilistiche più ardite – “Buried – Sepolto” di Rodrigo Cortés (2010). Soprattutto, la sceneggiatura – orfana di una mission definita e priva d’interlocutori credibili per il protagonista – avrebbe dovuto esaltare lo scambio dialogico tra personaggi – come in “Locke” di Steven Knight (2013).
La fine dell’horror all’italiana dunque? No di certo, ma un’occasione (da non sprecare) per riflettere sulle possibilità espressive che il nostro patrimonio orrorifico può ancora offrirci.

Alessio Romagnoli

The Strangers – Prey at Night: remake d’atmosfera che “bussa”, timoroso, alla porta dell’horror

Cindy e Mike decidono di traslocare dopo l’espulsione da scuola della figlia adolescente Kinsey. Cercando di ricomporre i cocci della famiglia, prima di raggiungere la nuova abitazione, decidono di trascorre il weekend assieme. Con il figlio maggiore Luke, partono alla volta di un complesso turistico sperduto tra boschi, dove gli zii materni hanno messo a loro disposizione un caravan in cui passare la notte. Quella che avrebbe dovuto essere una semplice vacanza, però, si trasforma presto in un gioco al massacro, quando un gruppo di psicopatici mascherati comincia a perseguitare i quattro malcapitati.

A dieci anni di distanza, esce in sala quello che, almeno nominalmente, avrebbe dovuto rappresentare il sequel del fortunato “The Strangers” di Bryan Bertino (2008) – che, in questa circostanza, si limita a co-firmare la sceneggiatura. In realtà, fin dalle inquadrature iniziali, l’opera di Johannes Roberts assume i connotati di un vero e proprio remake. Pur alterando il sottogenere di partenza, un ansiogeno home invasion – di cui “La notte del giudizio”(James DeMonaco; 2013) rimane uno degli esempi (contemporanei) più compiuti insieme a “Them” di David Moreau e Xavier Palud (2006). –, il regista inglese, mettendo in scena un survivor-movie, un last womanstanding dal sapore slasher anni ’90, ripropone la struttura narrativa dell’originale, limitandosi a introdurre nel racconto alcune piccole varianti – lo sdoppiamento dei protagonisti e dei villan.

Nonostante, come spesso accade, l’opera prima sia superiore alla copia, “Prey at Night” resta un discreto tentativo d’horror d’atmosfera. Il brumoso villaggio di caravan – che, anche senza lago, ricorda il Camp Crystal Lake di “Venerdì 13″ (Sean Cunningham; 1980) – è l’inquietante location in cui Roberts dimostra di avere compreso i meccanismi del genere -“The Other Side of the Door” (2016) –, riuscendo per larghi tratti del lungometraggio a mantenere alta la tensione – la sequenza della piscina – e procurando al pubblico qualche brivido –  Dollface nel tubo di calcestruzzo.

Un momento delle riprese del film

Niente di nuovo, comunque.
A livello formale, infatti, l’autore britannico impiega gli stilemi convenzionali del genere, sopprimendo quasi completamente, però, l’apparato sonoro, in favore di una musica pop di commento che, almeno inizialmente, desta una certa curiosità – Kinsey braccata dall’uomo in maschera – ma che a lungo andare depotenzia l’effetto orrorifico.
Sul piano narrativo, invece, da una parte la pellicola sviluppa il tema del pericolo costante, scardinando la supposta invulnerabilità della vita quotidiana, una sicurezza oziosa che, ormai, siamo portati a dare per scontata –ATM – “Trappola mortale” di David Brooks (2012) –; dall’altra, grazie al potere catartico della paura, mette in scena la soluzione di un conflitto familiare attraverso un’esperienza traumatica – da notare, al riguardo, il paradossale confronto tra una famiglia “normale” disgregata e una famiglia criminale compatta (“Le colline hanno gli occhi” di Wes Craven; 1977).

Un “onesto” remake d’atmosfera, quindi, che “bussa”, timoroso, alla porta dell’horror – come Dollface a quella degli zii –, ricevendo in risposta il brusio nervoso dello spettatore che, illuminato dallo spiraglio d’oscurità dell’ingresso accostato, si agita nel buio, ma non trema.

 

Alessio Romagnoli

Horror Film Festival L’Aquila

Dopo essere stata colpita da un terremoto devastante la comunità abruzzese ha saputo imporsi e risorgere anche sul fronte della cinematografia fondando un festival di genere dedicato all’Horror. E’ ormai alla sua terza edizione l’Horror Film Festival L’Aquila e propone una selezione distante dai soliti circuiti e che presenta una selezione ricca anche se compressa in sole tre giornate che si terranno alla sala 7 del cinema Movieplex, in via Leonardo Da Vinci, dal 4 al 6 maggio 2018. Il festival è multimodale ed oltre alle proiezioni è stato allestito un horror village nel foyer del cinema dove si potranno trovare gadgets, fumetti, abiti, disegni, quadri, giochi di ruolo e altri oggetti sulla tematica del genere.

Simona Vannelli in una scena del film Notte Nuda

Ad inaugurare le proiezioni sarà il film di Lorenzo LeporiNotte Nuda” con Pascal Persiano e Simona Vannelli, girato la scorsa estate ed appena ultimato.

Una foto del back stage di Notte Nuda

Ci saranno anche molti cortometraggi, tra cui “Menu” dello spagnolo Carlos Bigorra Badia e sono previsti incontri, laboratori e performance varie con artisti ed autori.

Chiuderà la rassegna il 6 maggio il film “Mc Better” del regista salentino Mattia De Pascali, che offre della propria terra una visione non convenzionale e carica di ironia e terrore.

 

 

LIFE – Non oltrepassare i limite

Una squadra di scienziati a bordo della stazione spaziale internazionale ha il compito di recuperare la sonda di ritorno da Marte con il suo carico di campioni raccolti sul suolo del pianeta rosso. La scoperta sensazionale di una forma di vita pluricellulare si trasforma ben presto in un incubo. Come è intuibile c’è poco altro da dire ed anche quel poco che è stato detto non può che spoilerare l’esile trama di cui è fatto il film.

Photo by IBL/REX/Shutterstock Daniel Espinosa 'Child 44' film premiere, Stockholm, Sweden - 27 Apr 2015
Photo by IBL/REX/Shutterstock
Daniel Espinosa
‘Child 44’ film premiere, Stockholm, Sweden – 27 Apr 2015

Anche se il pay off lo dice chiaramente il limite è stato oltrepassato. Nonostante Daniel Espinosa sia il regista del buon “Child ’44” del 2015 (non inganni il nome ispanico: è nato a Stoccolma quarant’anni fa) e il cast non abbia nulla da farsi rimproverare (c’è persino Hiroyuki Sanada il giapponese d’ordinanza di ogni TV serie che si rispetti da “Lost” a “The Last Ship“) la sceneggiatura era evidentemente troppo “marziana” per essere salvata. In questo modo il limite dell’attenzione dello spettatore viene irrimediabilmente oltrepassato. C’è lo scienziato di colore (Aryon Bakare) che come il tale con la tutina rossa di Star Trek già sa che non vedrà i titoli di coda, c’è l’ufficiale medico riflessivo ed empatico (Jake Gyllenhaal), c’è la comandante di missione in gamba ed efficace ( tale Olga Dihovichnaya russa nel film come nella realtà che è veramente brava ed efficace come il suo personaggio e che sarebbe bello rivedere in altre pellicole), c’è l’ufficiale di quarantena (la svedese Rebecca Ferguson) con grande sensibilità ma con i suoi ordini segreti, il pilota impulsivo e rompicollo ma in che in fondo è un ottimo elemento (Ryan Reynolds, alias Deadpool, alias Lanterna Verde), non manca neppure il dilemma di chi compirà l’estremo sacrificio per salvare tutta la baracca. Insomma ci sono tutti gli stilemi di tutti gli altri film del genere che chi ha già visto non ha voglia di ripercorrere.

Ryan Reynolds
Ryan Reynolds

Eppure Rhett Reese e Paul Wernick sono la coppia ben collaudata di film ben riusciti come “Deadpool” e “Zombiland” ,anche se qui qualche buco e incongruenza di sceneggiatura non mancano di certo. Espinosa sa e lo dimostra nel film come creare suspense ed autentici colpi apoplettici da spavento ricalcando i cliché tipici del genere. E allora dove sta l’inghippo? Forse il problema è nell’età di chi scrive e che di questi film ne ha visti tanti, troppi e va alla ricerca di qualcosa di nuovo in un genere dove è stato detto tutto. Poi mi ricordo del recente “Arrival” di Denis Villeneuve e mi tocca spogliarmi della croce dello scettico perché è la dimostrazione evidente di come la vena della Sci-Fi è ben lungi dall’essere esplorata. In fin dei conti è un genere che per definizione si occupa di ciò che è alternativo, futuro, speculativo. Non resta quindi che attendere nuove forme di vita capaci di soggetti e sceneggiature più inedite e coinvolgenti. Nel frattempo se qualcosa di sconosciuto vi capita tra le mani, ricordatevi i sani principi appresi nei primi anni di vita, che valgono sia per il vaso Ming della zia ricca che per le meduse spiaggiate sulla battigia: non toccate.

Autopsy

Molto più suggestivo con il suo titolo originale “The Autopsy of Jane Doe” esce anche in Italia grazie a M2 l’ultimo film di André Øvredal, classe 1973,  autore del fortunato “Troll Hunter” (2010).

il regista del film
il regista del film

Sulla scena di un crimine particolarmente efferato dove è stata sterminata un’intera famiglia viene rinvenuto il cadavere di una giovane donna incredibilmente intatto e di cui si ignora la causa della morte e la sua provenienza. Nella piccola contea rurale dove è avvenuto l’eccidio l’obitorio è nel piano interrato della residenza privata dove vive e lavora l’anatomopatologo (Brian Cox) assistito dal giovane figlio interpretato da Emile Hirsh (ebbene sì pare che in America succede anche questo).

Brian Cox e Emil Hirsch
Brian Cox e Emile Hirsch

Come di consuetudine negli ambienti della polizia statunitense viene attribuito alla defunta un nome fittizio, Jane Doe per l’appunto, in attesa di scoprirne la reale identità. Jane o John Doe a seconda del sesso è lo pseudonimo utilizzato per indicare un perfetto sconosciuto o anche l’uomo qualunque, come molti ricorderanno dal film di Frank CapraArriva John Doe” (1941). Durante l’autopsia il corpo della sconosciuta presenta sin da subito inquietanti anomalie che si accompagnano a sinistri avvenimenti che progressivamente trasformeranno un lavoro di routine in un incubo spaventoso.

Olwen Kelly
Olwen Kelly

Sapiente regia ed interpretazione di gran livello di tutti i pochi attori. Persino la morta, interpretata da Olwen Catherine Kelly, ha un effetto alquanto disturbante e quindi efficace per la bisogna. Accurate ed impietose le sequenze dell’autopsia che tolgono la curiosità di come si interviene su un cadavere come farebbe la celeberrima Kay Scarpetta dei romanzi di Patricia Cornwell. Un sound mix che fa da complemento ad una eccellente fotografia amplifica l’effetto terrorifico che si propone il film. La distanza dalla perfezione è segnata da una trama non originalissima che delude chi ha già compiuto i trent’anni e dal suo sviluppo che risulta un po’ stiracchiato per i comunque neanche 90 minuti che dura il film. Avrebbe riempito più agevolmente i 50 minuti che costituiscono l’ora cosiddetta commerciale su cui sono improntate le serie TV.

gli sceneggiatori Golberg e Naing al festival di Toronto
gli sceneggiatori Golberg e Naing al festival di Toronto

Il recente lutto della moglie dell’anziano medico costituisce un felice espediente che da spessore ai personaggi ed aiuta ad entrare in empatia con le loro vicende, ma chi si aspetta che rientri funzionalmente nella narrazione della storia rimarrà deluso ed è un peccato perché è un’occasione persa per gli sceneggiatori Ian B. Goldberg e Richard Naing di riannodare tutti gli elementi in presenti nella vicenda.  Il film regge bene fino a circa metà, quando poi, dipanandosi l’arcano, diventa una sequenza prevedibile dei noti meccanismi e trovate del genere horror. In sintesi: dalle premesse poteva risultare un film memorabile, si perde invece nel prosieguo così che risulta in cima al carnet dei film da vedere solo se avete meno di trent’anni.

Catacomba

Baionetta Movie Production di Lorenzo Lepori, in collaborazione con la New Old Story Film di Roberto Albanesi e Simone Chiesa, omaggia il filone fumettistico erotico/horror degli anni settanta/ottanta con la nuova antologia “Catacomba” che si presenterà come il primo film che si ispira e cita esplicitamente quella che è stata una specialità tutta italiana nell’exploita-tion: il fumetto per adulti le cui connotazioni estetiche non hanno eguali all’estero. Importante quindi la collaborazione estetica dell’omonimo Lorenzo Lepori, uno dei maggiori disegnatori di queste testate, che ha realizzato la copertina/locandina ufficiale del film/fumetto e tutte le illustrazioni presenti nel film.

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Un progetto ricco di nomi noti del panorama cinematografico italiano andando dallo storico sceneggiatore Antonio Tentori, che ha scritto per alcuni dei maggiori mostri sacri del cinema di genere nostrano come Lucio Fulci, Dario Argento e Bruno Mattei, per citarne alcuni, e l’attore Pascal Persiano, volto noto di pellicole come La Donna Lupo, Voci dal profondo, Paga-nini Horror e Demoni 2.

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